08 Giugno 2019

“Ma vi sono attimi in cui le nuvole si squarciano, e allora noi, insieme a tutta la natura, aspiriamo all’uomo”: Nietzsche contro tutti

L’unica proprietà che abbiamo è questo corpo che tocco, nel logorio del tempo – ed è di questa proprietà, l’io, l’individuo, che ci espropriano. Palestrato al netto di chi vuole vederci – e venderci – così e non chi sei.

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Questo esproprio non riguarda il tempo – contratto il mio tempo per un tot di denaro – ma, profondamente, l’individuo. Così, ci adattiamo a un lavoro che non è per noi, ‘ma rende’, senza considerare che l’atto reiterato in ciò che non ci appartiene e non appare appropriato, sfianca il nostro talento – questo è sempre stato il punto: non la dinamica economica ma l’involuzione psichica. Più che la rendita, qui è la resa, incondizionata: sfatiamo il talento in hobby, ci diamo ad attività sfiancanti – sport, palestra, corsa – che non ci fanno ‘stare bene’ (il bene dimora in altri regni, altri ranghi); semplicemente, ci consumano. La fatica giustifica la nostra inedia esistenziale. Non siamo né Oblomov né Casanova, non sappiamo l’arte dell’ozio e la goduria del sedurre al caos, né l’inettitudine che procaccia pensieri penetranti – Svevo, Pirandello, Kafka, Camus. Ci crediamo sovrani – soldi sufficienti a calibrare il corpo in una geometria narcisista – perché rubandoci l’individuo ci hanno dato l’individualità. Ma l’individuo non ha bisogno di niente – ha tutto dentro di sé – mentre l’individualità si nutre di tutto, sta bene con i surrogati dell’individuo: vestiti modaioli, locali giusti, case sopraffine, amanti adatte/i, viaggi esotici, cartografia instagram a go-go. Di noi non abbiamo sacrificato una parte per il bene di tutti – il senso sublime dello Stato – ma ci siamo uccisi al vivere, declinando in una frustrazione continua. Lo stato ‘di natura’ ci è impossibile, ora – ne saremmo sarchiati e sopraffatti: non ci insegnano più i nomi degli alberi né la virtù dei commestibili, perché?, e un insetto, nel bosco, avrebbe ragione di noi, inabili a inarcarci sui monti innamorati al nulla – possiamo solo sperare nello Stato, innaturale. Ci diciamo predatori, ma ad armi pari, saremmo la più fragile preda – chi disgrega e dilania per noi la bestia facendocela trovare sfilettata, sotto plastica, luminosa, perfetta, al supermercato?, chi immagina il corpo morto della bestia mentre passa sulla teglia imburrata il tozzo di pollo per i figli, per carità, il bendiddio della famiglia? Passare dall’orizzonte del servo della gleba a quello del consumatore ha reso più felici i potentati: se il servo si ribella può far male – ha due braccia così ed è allenato dalla vessazione –, il consumatore, al contrario, è innocuo. E se alza la cresta, lo si rimbambisce con qualche centone in più.

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La nota di Nietzsche riportata in calce, dove il cliché dell’impossibilità di fuggire da se stessi – Seneca – è tarato sull’era moderna, riguarda la radicale messa in questione del lavoro, dello Stato, dell’esistenza – ma senza piagnistei esistenzialisti: segnalando l’attitudine al beato ottundimento della creatura umana. Tratto dai Frammenti postumi secondo l’edizione Colli-Montinari, il brano è scritto nella “primavera-estate 1874”, mentre FN lavora alle Considerazioni inattuali – la seconda ‘inattuale’, letta a Bayreuth accende l’entusiasmo di Wagner: “provo un bell’orgoglio perché ormai non ho più nulla da dire e posso affidare tutto il resto a Lei”. Nello stesso anno, Arthur Rimbaud chiude la letteratura in un cassetto, s’imbarca per mondi esotici, al di là dell’Occidente. Percepisce l’inconciliabilità tra letteratura e vita, autenticità ed epoca, poesia e poetica (che vale per: approccio alla vita). Nel 1899, Joseph Conrad pubblica Cuore di tenebra e la visione è la stessa: contrasto tra ‘europei’ e ‘barbari’, tra mente e carne, tra atto e tatto, tra Africa e Occidente, tra natura e cultura. “La terra non sembrava più terrena. Noi siamo abituati a vedere la forma incatenata di un mostro soggiogato, ma lì, lì si vedeva il mostro in libertà”, scrive, Conrad. Il problema è sempre quello del mostro: noi lo abbiamo soggiogato in peluche – lasciandoci soggiogare –, per questo è labirintico lo Stato. Il nostro mostro non deve venire a galla, tumefatto dai lecca-lecca e da devote sessioni di YouPorn. Al contrario, è nobile – e ragione di frattura e di dolore – il gesto di chi volta le spalle al mondo chiudendosi in un monastero – altro labirinto, le fauci del ‘mostro’, il dio-mostro. O di chi compie un eremitaggio disobbediente, nell’ardore della vita prima, godendosi questa scintillante mortalità, questa cancrena continua. La poesia – ultimo gesto gratuito, perciò ribelle, senza ribalta – è la cartolina del tempo presente: chi tenta il successo con versi/confetto (è inevitabile, se si vuole il plauso, accontentare gli uditori, è perfino un gesto di gratitudine) senza l’avventura nella lingua che non ha ‘presa’ perché predatrice, perché sprofondata, non ha capito la poesia. Non occorre ‘capire’, mai, ma lanciarsi – troppi poeti, purtroppo, voltano l’imprevisto in ufficio servile, da telegrafisti del sentimento. (d.b.)

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Ma vi sono attimi in cui le nuvole si squarciano, e allora noi, insieme a tutta la natura, aspiriamo all’uomo. In quella luce improvvisa ci guardiamo con orrore attorno e indietro: là vediamo correre le raffinate bestie da preda e noi in mezzo ad esse. L’immenso muoversi degli uomini sul grande deserto della terra, il loro fondare città e Stati, il loro guerreggiare, il loro raccogliere e disseminare senza posa, il loro correre alla rinfusa, il loro imparare l’uno dall’altro, carpirsi l’un l’altro qualcosa con l’astuzia, il loro reciproco soverchiarsi con l’inganno e calpestarsi, il loro grido nella disgrazia, il loro gioioso ululato nella vittoria – tutto è continuazione dell’animalità: come se l’uomo di proposito dovesse essere educato alla rovescia e privato con l’inganno della sua disposizione metafisica, anzi, come se la natura, dopo aver desiderato e lavorato così a lungo per l’uomo, adesso si ritiri tremando da lui e preferisca tornare di nuovo indietro, nell’incoscienza dell’istinto. Ahimè, essa ha bisogno di conoscenza e ha orrore della conoscenza che le è propriamente necessaria; e così la fiamma vacilla inquieta qua e là, quasi spaventata del suo compito e afferra migliaia di cose, prima di afferrare ciò per cui la natura in generale ha bisogno della conoscenza. Noi tutti sappiamo, in singoli momenti, che soltanto per rifuggire dal nostro vero compito sono state create le istituzioni più complicate della nostra vita, che volentieri nasconderemmo da qualche parte la testa, come se, così, la nostra coscienza dai cento occhi non potesse coglierci, che ci affrettiamo a dar via il nostro cuore allo Stato, al guadagno, alla scienza, alla vita sociale soltanto per non possederlo più, che ci prestiamo al pesante lavoro quotidiano con un impeto e una mancanza di riflessione maggiori di quanto sarebbe necessario per vivere – perché ci sembra più necessario non giungere alla riflessione. La furia è generale, perché ognuno fugge da se stesso, generale anche il pavido nascondere questa furia, perché si vuol sembrare soddisfatti e si vorrebbe celare agli spettatori più acuti la propria miseria; generale il bisogno di nuove sonanti parole da cui la vita dovrebbe ricevere una specie di rumorosa solennità… Attorno a noi è un’aria spettrale; ogni attimo della vita vuol dirci qualcosa, ma non vogliamo ascoltare queste voci spettrali. Abbiamo paura, se rimaniamo soli e silenziosi, che ci venga sussurrata qualche cosa all’orecchio e così odiamo il silenzio e ci stordiamo con la vita sociale. L’uomo si sottrae con tutte le sue forze al dolore sofferto, ponendosi sempre nuove mete cerca di dimenticare ciò che vi sta dietro. Se, nella sua miseria e sofferenza, egli si ribella contro la sorte che lo ha gettato proprio contro questa impervia costa dell’esistenza, intende solo ingannare se stesso: egli non vuole fissare quell’occhio profondo che dal cuore della sua sofferenza gli si rivolge come se gli chiedesse: non ti è stato forse reso più facile comprendere l’esistenza? Quelli che sembrano più fortunati, che si consumano nell’agitazione e nella fuga da se stessi, solo per non dover ammettere la natura malvagia delle cose, dello Stato per esempio, o del lavoro, o della proprietà […]

Friedrich Nietzsche

*Testo tratto da: Friedrich Nietzsche, “Frammenti postumi. Volume quarto. Estate-autunno 1873 – Fine 1874”, Adelphi, 1992; 2005

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