15 Settembre 2020

“Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile”. Come si traduce la poesia russa? Intervista a tre voci: Maurizia Calusio, Alessandro Niero, Serena Vitale

“Tanto grande e popolare la diffusione delle opere dei grandi prosatori dell’Ottocento, quanto scarsa e manchevole la conoscenza, anche nell’ambiente letterario, dei poeti lirici russi”.  Con queste parole, nel 1949 Franco Fortini (recensendo l’antologia Il fiore del verso russo di Renato Poggioli) constatava la scarsa diffusione della poesia russa in Italia. Anche oggi, certamente, quando si parla della grande letteratura russa si fanno prima di tutto i nomi di Tolstoj e Dostoevskij, eppure molto è cambiato da quel 1949: Puškin, Mandel’štam, Cvetaeva, Pasternak, Brodskij e molti altri hanno infittito gli scaffali di poesia nelle nostre librerie, grazie agli sforzi di numerosi traduttori che si sono adoperati per dar loro una voce italiana. Tre di questi traduttori (Maurizia Calusio, Alessandro Niero e Serena Vitale) hanno accettato di rispondere a quattro domande sulla poesia russa e su che cosa significhi tradurla.

Quali sono le qualità e gli strumenti necessari a un traduttore di poesia? E cosa di specifico richiede e offre la poesia russa?

Maurizia Calusio Un traduttore di poesia deve essere un lettore di poesia, ossia deve essersi formato dentro la propria tradizione poetica, avere familiarità, nel nostro caso, con la poesia italiana. Deve avere orecchio, perché altrimenti non potrà cogliere e restituire il ritmo della poesia, e per farsi l’orecchio può essere di grande aiuto imparare a memoria molte poesie italiane, e poi cercare di tradurre poeti russi che in qualche modo non siano lontani dai poeti lontani amati. Puoi essere ferratissimo nella metricologia, ma se non hai orecchio, se per te la tradizione poetica italiana non è qualcosa di vivo e costantemente frequentato, è difficile che si avverta la poesia dell’originale nelle tue traduzioni. Se non è un poeta, un traduttore di poesia deve essere un filologo dotato di orecchio. Nel mio caso, non essendo poeta, utilizzo gli strumenti del filologo. E il filologo deve studiare l’opera del poeta che si appresta a tradurre, e sulla base di questa conoscenza scegliere le edizioni migliori da cui trarre i testi (la scelta dell’edizione dice già molto della qualità di una traduzione). Occorre poi usare i (numerosi) vocabolari giusti: penso a Dal’, Ušakov, Ožegov, a seconda dell’autore che si ha davanti. È importante anche conoscere bene tutte le migliori traduzioni già esistenti dell’autore, in italiano, come anche nelle altre lingue più o meno note. Accostarsi alla traduzione con una voce originale, portando con sé ciò che ci ha spinti a tradurre un poeta, non significa farlo “ingenuamente”, ignorando per esempio quanto prima di noi è stato fatto. Il traduttore di poesia si inserisce infatti in una doppia tradizione: quella della poesia italiana (sulla quale il poeta che traduce è destinato a influire – perlomeno, se ha scelto di tradurre un grande poeta) e quella della traduzione poetica italiana, e in particolare dal russo.

Alessandro Niero Credo che un traduttore di poesia debba essere, come minimo, un suo frequentatore assiduo, nelle varie forme in cui ciò può avvenire; ossia deve essere, imprescindibilmente, un lettore (appassionato ma non superficiale) e un grande utente della lingua, cioè avere la consapevolezza tecnica di cosa significhi comporre versi. Se, poi, a questi due aspetti (già, a loro modo, operativi e pratici), si affianca anche una qualche forma di “produzione propria”, meglio ancora, anche se ciò – vorrei precisare – non credo che sia da considerarsi né un obbligo né una norma. La poesia russa, oltre ad aver sempre intrattenuto un rapporto vero con la dimensione popolare (anche folclorica) della poesia е con i suoi strati non culti, ha di specifico un non tramontato e naturale attaccamento ai presìdi formali (metro, rima, strofa), sebbene sempre meno. Ciò pone al traduttore il dilemma se sforzarsi o meno di riproporre analoghi presìdi anche nella lingua di arrivo.

Serena Vitale Qualità? Pazienza e testardaggine. È necessario un buon orecchio (musicale). Più di tutto, forse, è necessaria una buona (preferibilmente ottima) conoscenza della lingua come pure della letteratura – in particolare la poesia – italiana. La conoscenza della lingua e della cultura russa mi sembra l’ovvio punto di partenza. “Strumenti” per tradurre? I dizionari – non ne vedo altri, ma a chi traduce poesia serviranno ben poco. Molto più utile, credo, è cercare nel Korpus della lingua russa le occorrenze del vocabolo che si vuole tradurre, ricostruirne la “storia”, i contesti in cui è già apparso. Sono convinta che volgere versi russi in italiano non presenti al traduttore difficoltà e/o problemi diversi da quelli che pone ogni traduzione poetica, salvo forse la maggiore libertà della poesia italiana, dal ’900 in poi, nei confronti della metrica e delle rime.

«Se il traduttore è una persona coscienziosa, cercherà di imitare la forma». Così categoricamente si esprimeva Iosif Brodskij nel 1979, in un’intervista con Eva Burch e David Chin. Siete d’accordo con quello che dice Brodskij? La riproduzione della forma è un elemento imprescindibile della traduzione poetica?

Maurizia Calusio Per me tradurre significa cercare di portare quanto più possibile del testo originale russo nella lingua italiana. Non si può portare tutto, le perdite sono irrimediabili, e implicite nell’atto stesso del tradurre. Nelle mie traduzioni, il metro e la rima dell’originale vanno perduti, mentre cerco di conservare quanto più possibile sintassi, immagini, lessico. In ogni caso, il rimando alla tradizione russa contenuto nella scelta di un metro come di un singolo vocabolo va pressoché sempre irrimediabilmente perduto. Il ritmo che mi sforzo di conservare è quello della sintassi (cercando di preservare la posizione delle parole a fine verso, ad esempio) e per fare questo cerco di procurarmi (quando ci sono) letture del testo russo, se possibile d’autore, altrimenti di un madrelingua (meglio se poeta in proprio). In questo senso anche il ritmo della lettura può essere una guida per restituire la sintassi.

Alessandro Niero Credo che le opinioni di Brodskij vadano viste alla luce della sua vicenda privata e delle sue predilezioni personali. Essendo egli stesso un acceso cultore della forma (anche se, con il tempo, divenne più allentata, sempre meno pressante), non poteva che richiamare il traduttore al rispetto della stessa; tanto più che si trovò nella singolare situazione di chi decise, a un certo punto, di autotradursi e, quindi, di sperimentare, con tutte le difficoltà del caso, ma anche con autorevolezza e autorialità, cosa voglia dire traghettare se stesso su altre sponde linguistiche cercando di trasmettere “tutto”. Quanto alle predilezioni personali, ricorderei che Brodskij (e non solo lui, ovviamente) stimava grandemente figure di calibro mondiale come Anna Achmatova, Osip Mandel’štam, Marina Cvetaeva, Boris Pasternak; i quali sono tutti autori primonovecenteschi che, nella loro scrittura, si sintonizzavano “fisiologicamente” sulle esigenze dettate da un certo tradizionalismo formale. Brodskij, da madrelingua qual era, ma anche da figura in grado di inserirsi potentemente nel contesto anglo-americano che lo adottò nel 1972 dopo l’emigrazione forzata dall’URSS, non poteva che leggere come inadeguati gli sforzi di chi impiegava uno strumento apparentemente lassista come il verso libero per spostare da una cultura all’altra testi di straordinario valore contenutistico e formale. Se poi questa sia una posizione da condividere pienamente, è un altro discorso. Traducendo poesia si cade inevitabilmente nel contesto di arrivo, dove vigono regole, spesso tacite, che reindirizzano quella stessa poesia, la adattano a ciò che quel contesto ritiene lecito, praticabile, rientrante nel gusto. È tra due confini – la spinta a rispettare gli istituti formali dell’originale e la cultura di accoglienza – che il traduttore deve ricavarsi uno spazio praticabile, una specie di “zona franca”. In questo non ci sono regole e non vi è nulla di scontato. Se posso, rimanderei, per complicare ulteriormente la cosa (e farmi un po’ di goffa pubblicità), a un mio volume che affronta queste tematiche: Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi (Quodlibet, 2019).

Serena Vitale Chissà se ha detto proprio “imitare”… E chissà se il termine “riproduzione” si può applicare all’arte del tradurre. Per la poesia russa la “forma” è un elemento imprescindibile, una necessità quasi ontologica. Nel 2000 sempre Brodskij ha detto: “…Il poeta dovrebbe ripercorrere le strade della letteratura che lo ha preceduto, cioè passare attraverso una scuola formale. Altrimenti il peso specifico della parola nel verso si azzera”. La “forma” per Brodskij, è strettamente legata al Tempo, e il metro gli offre la possibilità (o soltanto l’illusione) di riorganizzare un tempo quasi mai amico. Del resto Brodskij ricorre al metro con una grande libertà e, seppure raramente, si cimenta anche nel vers libre, capace di rendere il “miracolo della lingua quotidiana”.

Esistono poeti russi intraducibili? Se sì, quali e perché?

Maurizia Calusio Puškin, naturalmente. In Puškin c’è una perfezione originaria che è al contempo il massimo della semplicità e il massimo della raffinatezza. L’italiano, con i suoi meravigliosi e ingombranti ottocento anni di tradizione poetica, è del tutto impotente a restituirla. Bisognerebbe tornare alla purezza della lingua primigenia di Dante, e coniugarla con la felicità di tutta la poesia successiva… bisognerebbe mettere dentro tutto, e questo non si può fare. Un altro poeta che si avvicina per difficoltà a Puškin è l’ultimo Boratynskij, quello della raccolta Sumerki (Crepuscolo), un poeta che io amo molto. Si può tradurne bene la sintassi, ma il suo lessico – al contempo lessico filosofico e lessico dell’elegia russa – è molto difficile da rendere. Continuo a provarci.

Alessandro Niero Se volessi essere sbrigativo e categorico le direi che in varia misura lo sono tutti. Ma sarebbe una posizione inutile, non produttiva e, soprattutto, irrispettosa di quanto è stato ottimamente fatto da molti traduttori italiani. Un nome, però, mi sento di farlo, ed è, paradossalmente, quello del poeta più grande di tutti, ossia Aleksandr Puškin (1799-1837), soprattutto per quanto riguarda la sua lirica (il suo miracoloso romanzo in versi Evgenij Onegin è un capitolo a parte). Con tutto il rispetto per i miei colleghi traduttori, devo dire che in pochi, pochissimi casi mi è capitato di sentire una voce italiana che abbia saputo contemplare, nel volgere di un testo, il romanticismo ammantato di eleganza classica, la capacità di essere tragico ma con straordinaria levità, la scarsa inclinazione alla pirotecnia formale esibita e perfino all’uso dei tropi e l’invidiabile tecnica di versificazione che costituiscono, ancorché sommariamente, la mia idea di Puškin.

Serena Vitale Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile. Sono stati tradotti poeti, ad esempio, come Chlebnikov e Cvetaeva, che pure in alcune loro opere sembrano rifiutarsi a ogni tentativo di resa in un’altra lingua.

Quali sono i poeti russi che non hanno ancora voce in Italia, o che aspettano una ritraduzione?

Maurizia Calusio Tra i poeti novecenteschi che non hanno voce in Italia c’è sicuramente Boris Poplavskij (1903-1935), grande talento della giovane generazione dell’emigrazione russa. Poplavskij è un autore su cui sto lavorando e che spero di poter pubblicare in un futuro non troppo lontano. Poi ci sono casi come quello di Nikolaj Zabolockij, poeta dell’età sovietica che, come non pochi altri russi, è noto solo per qualche scelta antologica.

In generale sarebbe importante anche dare versioni aggiornate di antologie che – come quelle di Ripellino e Poggioli – hanno consentito la ricezione dei poeti russi nel ’900 italiano. Oggi sarebbe il caso di riunire gli sforzi di più traduttori, che potrebbero lavorare ciascuno sui poeti e i testi più amati e meglio studiati. Un progetto che poi si potrebbe ampliare, grazie alle possibilità che oggi offre il digitale, per riprodurre la trama delle relazioni strettissime tra poeti russi e italiani. E sul fatto che per i poeti italiani i poeti russi siano importantissimi, non credo servano qui degli esempi.

Alessandro Niero Per quanto riguarda il XVIII secolo, sarebbe opportuno riproporre un poeta come Gavrila Deržavin. L’Ottocento – come dicevo sopra – ha il “problema” di Puškin. Il primo Novecento è stato ampiamente frequentato e annovera ormai dei lavori che sono o si avviano a essere dei “classici della traduzione” (penso ai lavori di Angelo Maria Ripellino, soprattutto, e più recentemente, a Serena Vitale, Remo Faccani e Caterina Graziadei). Ciò non significa che non si debba procedere a “rinfrescare”, per esempio, la ricezione italiana di Anna Achmatova e di Velimir Chlebnikov, così come quella di un autore ingiustamente negletto, Nikolaj Zabolockij. La poesia dell’emigrazione, poi, manca in Italia dei nomi di Boris Poplavskij e di una scelta vasta di Georgij Ivanov. Per il secondo Novecento, le cose si fanno certamente più complicate, giacché non esiste ancora un “canone” stabilizzato del who is who. Certo, un poeta come Iosif Brodskij – già in parte tradotto – andrebbe riconsiderato, così come andrebbero riconsiderate la sua generazione e quella immediatamente successiva, che comunque ha visto già alcuni volumi editi, ma aspetta ancora il traduttore di Bachyt Kenžeev, Inna Lisnjanskaja, Jurij Kublanovskij, Oleg Čuchoncev. Forse un’idea complessiva della poesia di Evgenij Evtušenko e di Andrej Voznesenskij pure non sarebbe da trascurare… Ma sono sicuro di aver fatto torto a qualcuno. Ecco perché, se ci spostiamo verso il contemporaneo in senso stretto, temo che i nomi si infoltiscano a tal punto da indurmi a scaricare la patata bollente sul collega e traduttore Massimo Maurizio, che ne sa più di me e che ha già strumenti affilati per distinguere il grano dal loglio.

Serena Vitale A mio avviso tutte le buone traduzioni (di poesia o prosa) sono sempre importanti e benvenute, quindi anche le “ritraduzioni” – purché affrontate con modestia, amore, senza alcuna pretesa di dimostrare “quanto sono più bravo io di X o Y”… Tra i poeti “che non hanno ancora voce in Italia” (salvo qualche lirica in raccolte antologiche e una versione non a stampa, che si può leggere on line, dеllo splendido poema Terra bruciata) devo forzatamente limitarmi e segnalo soltanto Nikolaj Kljuev, un grande del ’900 russo.

*Interiste a cura di Stefano Fumagalli; in copertina: Anna Achmatova (1889-1966)

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