Mi segno il senso letterale. “Gravido di usignoli”. Un modo per dire di uno che è bravo a cantare. Mi sembra un aggettivo bellissimo. “Ma nel greco contemporaneo non esiste, non è censito nei vocabolari”. Pendo dalle labbra di Nicola Crocetti, nel suo ufficio-casa-studio in via Falck, fermata San Leonardo, metropolitana rossa, direzione Rho, a mezz’ora dal centro. La Crocetti è incapsulata nel quartiere residenziale creato da Carlo Aymonino e Aldo Rossi nel gorgo degli anni Sessanta, si chiama ‘Monte Amiata’, il nome manda a romitori metropolitani, a monasteri incistati nella città – in effetti, Crocetti vive una specie di eremitaggio.
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Il computer è sepolto dai libri, il greco non lo capisco, sono un intruso nel linguaggio, Crocetti mi mostra il lavoro che porta avanti da tempo: la traduzione dell’Odissea di Nikos Kazantzakis, l’autore di Zorba il Greco e dell’Ultima tentazione di Cristo (entrambi tradotti e in catalogo Crocetti). L’Odissea è “una titanica impresa… poema di ambizione sconfinata e di estensione fluviale: 33.333 versi suddivisi – proprio come i poemi di Omero – in 24 canti, uno per ogni lettera dell’alfabeto greco” (così la nota nel ‘Meridiano’ Mondadori dedicato ai Poeti greci del Novecento, curato da Crocetti con Filippomaria Pontani nel 2010, che presenta una porzione minima di quel lavoro). Kazantzakis ha passato 12 anni a scrivere quel poema; Crocetti ne ha messi altrettanti a tradurlo, “sono alla terza revisione”, mi dice. La difficoltà, per altro, è specificamente linguistica: “il poeta ha setacciato migliaia di parole arcaiche, desuete, raccolte nei suoi viaggi dai ricordi di pescatori e contadini, ricostruendone il significato perduto”. Insomma, anche per un greco, privo del vocabolario approntato dallo stesso Kazantzakis, è pressoché impossibile leggere alcune parti del poema. “Però, vedi, questo poema è anche un grande vocabolario delle parole perdute, riscoperte, custodite”. Il poeta custode del linguaggio: mi sembra di penetrare nel pozzo di Delfi, al centro del Labirinto, nel senso arcano della poesia.
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Con Crocetti l’appuntamento è in Duomo. Per un paio d’ore – pranzo, camminata, viaggio in metropolitana – mi faccio raccontare di Ghiannis Ritsos. “Frequentavo alcuni greci, a Milano, ostili al regime dei Colonnelli. Nel 1972 trapelò la notizia che Ghiannis Ritsos, che sapevamo in carcere, era morto. Io ero segnalato come indesiderato dalla polizia segreta ellenica, ma nessuno tranne me sarebbe potuto partire. Ritsos non era semplicemente un poeta, costituiva l’identità di una patria, e un mito per chi era avverso al regime”. Crocetti, che per mezza vita lavorerà al ‘Giornale’, agli esteri, si fa accreditare insieme a un gruppo di giornalisti inviati in Grecia per seguire una amichevole giocata dall’Italia. Riesce, “facendo finta di fare lo stupido, di non parlare la lingua”, a passare il controllo del passaporto. Mentre i colleghi vanno allo stadio – per inciso: brutta partita, la Grecia vince 2 a 1, per la Nazionale guidata da Valcareggi segna Boninsegna – Crocetti cerca di incontrare Nana Kalianesi, dissidente, fondatrice della casa editrice Kedros. È Nana a dargli le dritte adatte: Ritsos è vivo, è malato, agli arresti domiciliari, nella sua casa sull’isola di Samo. “La moglie di Ritsos era medico, Nana mi disse di chiedere di lei, per fugare i sospetti. Mi augurò buona fortuna”. La fortuna, divina antipatica e austera, sorrise a Crocetti: “giunto davanti alla casa di Ritsos non trovai nessuno. Suonai. Aprì lui. Mi afferrò per un braccio trascinandomi dentro casa. La guardia che pattugliava la casa era andata a pisciare… Mi tenne da lui per tre giorni”.
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Crocetti comincia a tradurre Ritsos dal 1970 – per Guanda, Epitaffio a Makronissos; nel 1978, per Feltrinelli, traduce Pietre, ripetizioni, sbarre. Quando fonda la sua casa editrice, lo fa nel segno di Ritsos. “Ho creato la casa editrice esattamente 40 anni fa, nel 1980. Per questioni burocratiche, cominciai a stampare nel 1981, iniziando con Erotica, di Ritsos”. Seguono le Poesie erotiche di Kavafis, introdotte da Vittorio Sereni. Nello stesso anno, per Feltrinelli, Crocetti traduce Quattro poemetti di Ritsos, l’annuncio di Quarta dimensione, uno dei libri capitali della poesia di ogni tempo.
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Non trovo trama di rabbiosa nostalgia nel viso di Crocetti – è un uomo fermo, fermamente teso al futuro. L’amicizia di Ritsos, è chiaro, lo ha forgiato. “Anche Edmund Keeley, lo straordinario traduttore dei poeti neogreci in lingua inglese, un autentico studioso, di genio, che ho conosciuto a casa di Ritsos, era d’accordo con me: Ritsos è un titano, è il grande poeta del Novecento”. Ritsos muore nel novembre del 1990. Ad agosto la moglie Falisa pretende Crocetti al suo capezzale, il traduttore più fedele, l’amico. “Era preoccupato di non poter più scrivere. Aveva scritto circa 150 libri, ne avevo tradotti 60, soltanto alcuni sono riuscito a pubblicarli. Mi chiese se avessi tradotto Il guardiano del faro. Gli dissi di no, vergognandomi un po’. ‘Traducilo, ti prego, lì scoprirai il segreto del poeta’”. Il testo è stato tradotto, ho avuto il privilegio di leggerlo, e di fronte a certe parole, che insinuano falchi nel groviglio dei giorni e una luce oleosa, che sana con il suo scintillio ogni sbaglio e ogni spina, cosa importa di tutto il resto? Il testo sarà pubblicato integralmente in uno dei prossimi numeri di “Poesia”, in ogni caso, un numero ‘da collezione’. Io, da furfante, ne sego con il taglierino una parte.
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“Quando fu arrestato, Ritsos chiese alla moglie di sfilare una valigia, sotto il letto. C’erano una quarantina di raccolte manoscritte. Ritsos era solito realizzare due o tre versioni di ogni raccolta: quei quaderni non erano stati rivisti. Li distrusse tutti. Li fece a pezzi, perché la moglie non potesse ricostruirli. Gli era inconcepibile pensare che quelle poesie, ancora imperfette, potessero essere pubblicate”. Penso alla sottile, caina, necessità del poeta di distruggere ciò che ha scritto, di sfinirsi. Poi Crocetti mi racconta di quella volta che, passeggiando per Atene, in una via fuori dal centro, una donna si inginocchiò ad abbracciare le gambe di Ritsos. “Immagina da noi, un trattamento simile, così spontaneo, riservato, chessò, a Montale…”. Nelle poesie di Ritsos, quella donna non vedeva un gesto culturale, ma la propria vita, presumo – di questo si è riconoscenti ai poeti, dettano le parole che ci accertano, ci centrano.
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Questa dedizione verso le parole altrui, come ripassare in argento un volto e far emergere, di una esistenza, la bestia araldica. I giusti non si ringraziano – è troppo poco. (d.b.)
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Aspettavo, dunque, di distinguere nel fragore del mare
una voce umana, un cenno, qualcosa,
un riconoscimento minimo della nostra solitudine e resistenza
per resistere di nuovo alla doppia solitudine e sottovalutazione. Allora
anche l’ombra del gabbiano che cadeva sul pavimento da questa finestra
era la palma di una mano tagliata,
di una mano che mi apprestavo a stringere.
Ci si stanca sempre del grande silenzio o del frastuono eccessivo,
delle lunghe ombre che si formano sul mare deserto,
dei gesti dei riflettori sulle onde
o sulle nuvole, identici alle antiche compagnie teatrali,
tutte maschere con la barba, coturni e grandi scettri. Ti stanchi.
Tra simili arredi, la luce del faro, inevitabilmente,
assumeva un che di arrogante; per questo mi sforzavo
di cambiarla nella luce mansueta di una semplicissima lampada
dietro i vetri di una povera casa (immagino l’avrai notato arrivando) –
una luce che illumina dolcemente due gradini, un albero spoglio,
un uovo di gabbiano nella mano della notte
o un pesciolino che ha smarrito la strada. Questo tentavo di fare.
Non dico, – un tale cambiamento sarebbe anche potuto avvenire, perché non si spaventassero
i viaggiatori, perché non restassero abbagliati, perché non chiudessero gli occhi
e mi vedessero; – e forse nemmeno io li vedessi, – chissà? –
Anche la solitudine ha le sue astuzie. Aspettavo sempre – te l’ho detto –
di sentire il rumore di una valigia che si aprisse
e che si rivolgesse direttamente a me. Forse qualcuno si sarebbe ricordato di portarmi
due o tre fazzoletti (come tu oggi), qualche camicia
o un pettine – lo immaginavo già come un piccolo cancello
in un giardinetto infantile di campagna – sì, un pettine.
Ciascuno ha bisogno di lavarsi, di pettinarsi, e a volte
di guardarsi in uno specchietto da tasca, o negli occhi
di qualche conoscente. Perché, vedi, tutti ci stanchiamo,
ognuno di noi ritiene spesso inutile la sua solitudine,
inutile perfino la sua luce, giacché anch’essa nasconde chi la concede.
Ghiannis Ritsos
*Il testo è tratto da: Ghiannis Ritsos, “Il guardiano del faro”, traduzione di Nicola Crocetti