02 Gennaio 2021

Elegia sulla neve, “un cadere bianco, ipnotico, in fondo, una malattia”

Della neve so poco, quel tanto che basta a salvarmi la pelle. Innumerevoli volte ne ho subito il fascino: quel suo canto silenzioso, per nulla lezioso, a suggellare un patto. I miei occhi di bambino l’hanno affrontata in bufera, quando ancora non si sa cosa sia, la paura. Ne ho assaporato il letto, sdraiato a contemplare velocissime nuvole. Ne ho poi avuto timore ‒ rispetto. Più e più volte ho dovuto scappare da alcuni luoghi, o da certe altezze, prima di esserne sopraffatto. Qualche volta invece mi ha fregato: ho visto la mia auto, in cinque minuti, venir ricoperta totalmente da quella neve che affoga tutto quanto. Da lì, sono stato isolato, diversi giorni, per una valanga. Ma in fondo non me ne vanto. È poca cosa, e mi vergogno, se penso a un amico poeta che ne è stato addirittura travolto. Ed è ancora qui per raccontarlo. Anzi, piuttosto, quella neve se la vive come una seconda pelle, e se la gioca come scelta estrema di vita.

Frederic Edwin Church, View From Olana In The Snow, 1873

La neve, in fondo, è una malattia. Un cadere bianco, ipnotico. Quella follia che assapori solo se in mezzo, quasi, ci fossi nato. Ne accenno perché è già la seconda volta, quest’anno, che nevica. Non sono certo i due metri che venivano giù in città, quand’ero piccino. Ma forse, lentamente, la stiamo ritrovando. Non mi sto illudendo. La neve è ben altra, e un po’ la conosco. In città sono solo fastidi; mentre io gioisco, una collega mi manda a quel paese. E tu valle a spiegare che, io, in quel paese, ci sono stato e già stato. Fino a lavorarci nel freddo inverno. Raschiando il ghiaccio dalla porta del negozio, ogni santo giorno. Per non dire tutto il resto!

La neve scende come questo finto inchiostro sullo schermo. Mentre scrivo le parole, le lettere arrivano all’improvviso. Se vuoi, è un altro incanto. Però il suo fascino sta nel vederla cadere e corroborare al tempo stesso. La neve cresce nel suo ovattato silenzio: fitta o mescolata ad acqua. Non esiste un fiocco uguale all’altro…

Il poeta a volte è schivo, non ama parlarne troppo. Tuttavia quel bianco e quei ghiaccioli che papà e mamma staccavano dalla roccia eterna del tornante, sono nuovamente impressi nella sua memoria. Ci si fermava per guardarli. E si scioglievano nel guanto. La neve ha il suo prodigio che si rinnova nello sguardo. Tra bianco e ghiaccio la differenza è solo un’assonanza.

Hiroshige, Montagne nella neve, 1834

Nei ricordi di un altro tempo mi rivedo, in ginocchio, la sera, davanti al manto ghiacciato-smisurato della foresta. Dacché il bianco è un attimo, e tu sei nessuno di fronte a tutto questo. C’è chi, come i Celti, ne ha fatto un baluardo. Io indietreggio commosso, piuttosto.

Ma più di tutto, è il colosso, che ho affrontato fino al suo culmine. Da dove il panorama ‒ sempre nella notte ‒ era impareggiabile. Quel colosso che a volte vedo apparire per strada, quando torno dal lavoro, o quando m’inoltro nel lago. Intendo dire che quando mi appare il Monte Rosa ‒ o tutta la sua catena montuosa ‒ il cuore ha un abbaglio. Quel bianco ininterrotto diventa un subbuglio, crea scompiglio.

C’è chi può nuotare nel mare della notte. C’è chi, tutt’altro, per il momento, ha solo dei ricordi. E vorrebbe rivivere quegli istanti che forgiano leggende. Ma l’esperienza, si sa, è viva nel passato. Mentre quel bianco della neve, riecheggia nelle valli, come a evocare grida di lupo o d’aquila; il passo felpato della volpe.

Dei suoi mille e mille segreti dunque il poeta ne ha pescato giusto un altro dal cilindro. E quell’affrontare la bufera sperduto chissà dove e quando, gli è tornato alla memoria come un guizzo, nel baleno dell’incontro con se stesso. Ecco. La neve è un incontro che ti blocca. Nel quale tu, almeno per un momento, smetti di correre, e guardi, esterrefatto, quel fiocco bianco che cade dal cielo. Hai dunque l’occasione per ritornare bambino; per guardare finalmente, con occhi veri, il mondo a te vicino.

Giorgio Anelli

*In copertina:  Géza Vastagh, Leone nella neve, 1900

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