17 Gennaio 2018

“Nell’epoca dell’insicurezza l’architettura deve essere al servizio della felicità”: dialogo con Fabio Mariani, l’anti-archistar

Alla parola ‘architettura’ di solito ci vengono in mente due cose. La prima è di liceale ovvietà. I grandi maestri. Leon Battista Alberti, Brunelleschi, Bernini. L’altra è riassunta nella folgorante gag di Maurizio Crozza che riduce Massimiliano Fuksas a un ‘Fuffas’ qualsiasi. Insomma, ‘architettura’, oggi,nell’immaginario popolare – cioè, di noi uomini ‘di mondo’ ma non mondani – si risolve in quelle astronavi nel deserto, costosissime e incomprensibili. Inutili, forse. In modo fantozziano – ma con un certo buon senso – al cospetto di talune ‘creazioni’ architettoniche ci viene voglia di esplodere in un: ‘è una ca**ta pazzesca!’. L’indignazione un po’ goffa, per altro, è intellettualmente giustificata da un recente pamphlet di Angelo Crespi, Costruito da Dio (Johan & Levi, 2017), di cui abbiamo scritto su questa testata, che bacchetta le archi-cretinate degli archistar, incapaci di costruire una chiesa o un museo come Dio – o Madama Ragionevolezza – comanda. Ora. Nella stagione editoriale appena iniziata, Meltemi sta inviando in libreria uno dei testi ‘di architettura’ più eccentrici e commossi mai letti. Il libro – anche in versione inglese – s’intitola La casa come ritratto (pp.178, euro 20,00; lo trovate qui), è costruito come un ‘libretto d’opera’ e ha l’ardire di mostrare il ‘dietro le quinte’ del lavoro dell’architetto. Il libro, insomma, utilizzando documenti reali, racconta il rapporto – spesso effervescente, a volte autolesionista – che lega l’architetto al committente, le difficoltà che l’architetto anticonvenzionale incontra con le amministrazioni pubbliche, i timori, i tremori e le folgorazioni che agitano, nel proprio privato, l’architetto. A ‘collezionare’ il testo, Fabio Mariani, architetto che opera tra Rimini e Praga, d’esperienza (lo trovate qui), che ha studiato a Firenze e a New York, al seguito del suo maestro, Emilio Ambasz – una irrequieta archistar – che ci porta, a cuore aperto, dentro una idea più umana dell’architettura. A dire di Mariani, ad esempio, la ‘casa’ è sempre il tempio, il sacrario della vita quotidiana, l’Itaca a cui, con affetto ossessivo, torna Ulisse. Sul tema oggi canonico – che senso ha l’architettura, oggi? che senso ha il lavoro dell’architetto (diverso da quello dell’urbanista, dell’ingegnere o del passacarte), oggi? – abbiamo bloccato Mariani, per farci spiegare la sua poetica.

Intanto. Cosa intende per ‘architettura’? In effetti, come abitare i luoghi sembra il tema determinante del nostro ‘nuovo’ mondo.

Mariani libro“Riguardo alla definizione di architettura, tralasciando le definizioni da dizionario o meglio da Wikipedia, e seguendo la sua traccia, mi appoggerei sul comodo cuscino di un grande maestro: Louis Kahn che sentenzia: “scopo dell’ architettura è la creazione di luoghi”. Appare chiaro che, anche senza trovare un altro facile appoggio nelle Città invisibili, per creare un luogo non basta costruire fisicamente qualcosa, ma occorre considerare più saperi, più punti di vista, percezioni diverse dello stesso spazio, della stessa realtà. Nel ‘nuovo mondo’ che lei cita il perimetro che definisce lo spazio non è più una linea netta costituita da punti ordinati in sequenza, ma una sorta di contorno sfumato o sfuocato a seconda di come lo vogliamo vedere. Nel nuovo mondo la moltiplicazione esponenziale delle interazioni virtuali istantanee anche tra oggetti della dimensione di una molecola (internet delle nanocose), definiranno una serie infinita di configurazioni dello spazio quindi dei luoghi provocando un forte senso di insicurezza, di precarietà. Questa vertigine di incertezze ricondurrà forse l’architettura al suo vero scopo di ri-costruttrice di ‘giardini perfetti’, luoghi di ristoro e meditazione al servizio della felicità dell’uomo”.

Poi. In un libro recente, Costruito da Dio, oggetto di una analisi su questa testata, Angelo Crespi ‘bacchetta’ le archistar che hanno interpretato l’arte sacra. Evidente è la differenza tra una cattedrale barocca, ad esempio, rispetto alle cattedrali nel deserto di oggi, uno scempio. Secondo lei un architetto come dovrebbe approcciare il ‘sacro’?

“Approccio al sacro, potremmo dire, considerando l’architettura come linguaggio con una preghiera piuttosto che con un trattato, con una poesia piuttosto che con un saggio. Sfogliando il libro ho trovato una definizione di San Carlo Borromeo delle chiese: ‘Sono un Libro di pietra’. L’architettura è un linguaggio che si fa poesia perché deve parlare allo spirito più che ai regolamenti comunali,o meglio del ‘potere temporale’”.

Ancora. Nello stesso libro Crespi censisce anche le brutture dei musei contemporanei, cattedrali high tech realizzate troppo spesso con dispendio di soldi e spreco di ingegno. Davvero gli architetti non sanno più orientarsi nel mondo moderno? Come costruirebbe un museo?

“Se prendiamo ad esempio la gara tra la Repubblica di Pisa e quella di Firenze per la realizzazione della cupola più grande che ‘costrinse’ un genio assoluto come Brunelleschi ad inventarsi una nuova tecnica costruttiva per vincere la sfida, capiamo che le cattedrali hanno spesso incarnato un desiderio di affermazione e supremazia assai umani, terreni. Non so se questo sia giusto o meno, ma oggi sono i musei che affermano il potere di una città, di una nazione. Lo scopo dell’architettura è sempre lo stesso: essere al servizio degli uomini non delle ideologie, questo vale in particolare per un museo che ha l’ambizione di ritualizzare la cultura”.

Quali sono i suoi maestri, di ieri e di oggi? So che la sua idea è una architettura che sia un segno, un alfabeto che si armonizza nel ‘mondo’, nel ‘verde’. Ci può spiegare meglio?
“In generale non ho mai ricercato maestri, ma mi sono sempre soffermato più sulla forza delle idee, delle intuizioni, delle invenzioni, che in tutte le discipline hanno fatto brillare l’uomo per intelligenza ed umanità. Un architetto che mi ha ispirato molto durante la tesi di laurea è stato il Giapponese Tadao Ando che dice: ‘l’architettura dipende per metà dal ragionamento, l’altra metà dipende dall’invisibile’. In realtà un maestro l’ho avuto, anzi l’ho ancora: Emilio Ambasz. Mi ha insegnato a essere intuitivo, ad avere uno sguardo poetico e al contempo pragmatico sul mondo, capace di utilizzare l’architettura come artificio per riconciliare l’uomo con la natura. E con se se stesso aggiungo io”.

Cosa sta progettando, ora? Come si coniuga la scrittura – o meglio, la ‘poetica’ – con l’architettura?

“In questo momento sono impegnato in alcuni progetti in Italia e a Praga. In particolare sto costruendo una casa denominata ‘casa del farmacista’. Si tratta di una villa a patio, chiusa sull’esterno e aperta verso l’interno, per rispettare il desiderio di privacy della famiglia. L’edificio è tecnicamente ineccepibile: antisismico, ecologico nell’utilizzo dei materiali, con un fabbisogno energetico bassissimo e un’autoproduzione di energia solare maggiore del consumo. Quindi un edificio che produce più energia di quanta ne consumi. Tutto ciò è importante ma è solo una parte del discorso, la parte edile diremmo in gergo. Senza l’altra metà non avremmo completato la magia. La casa è il tempio (la definizione di Wikipedia questa volta ci serve: ‘Sede degna di rispetto o di venerazione, in quanto vi si svolga o accolga in sé qualcosa di nobile, di sacro, di assolutamente grande’) della vita quotidiana nella quale si svolge il rito della vita quotidiana. L’architettura è luce, ombra, penombra, stupore, meraviglia, protezione, sicurezza, serenità, raccoglimento, slancio. La geometria, i materiali, la scienza delle costruzioni, le regole del corpo, del mondo fisico, sono le traduzioni materiali di un pensiero spirituale, di un desiderio di sacralità che ci attraversa nel profondo e per questo è eternamente nostro, riconoscibile da tutti. Non penso si possa insegnare come si scrive una poesia, ma si può educare qualcuno ad avere uno sguardo poetico sul mondo, o a sapere riconoscere la poesia nelle cose. Allo stesso modo non si può – cosa assai diffusa oggi – insegnare come si fanno le case, banalizzo, ma si può insegnare a comprendere i bisogni degli uomini nei confronti dello spazio che li circonda. Si può insegnare ad abitare poeticamente. Concludo con una celeberrima frase di un altro maestro il professor Pino Parini: ‘cancellate tutto quello che ho detto, è solo una supposizione!’”.

 

 

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