15 Marzo 2019

“Nella rude solitudine dell’arte”: reportage dalla casa-studio di Giancarlo Sangregorio, lo scultore che mutò il Ticino nell’Altaj. In appendice, le sue poesie (e un incontro con Cristina Campo)

Quando arrivi, ed è un privilegio, a volte concesso anche ai cinghiali, ai cervi, e ammiri l’incipit del Lago Maggiore, fermo, come argento liquido, pronto a fare il calco al volto di Dio, e il Ticino che serpeggia lento, dolce, su cui viaggiava, una manciata di secoli fa, il fatidico marmo di Candoglia, quello del Duomo di Milano, roccia che vola sulle acque, roccia che bisbiglia, il duro che si fa morbido, cava che diventa cattedrale, pietra che assorbe l’acquazzone di preghiere.

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Con Angelo Crespi, aristocratico indagatore di cose d’arte, scaliamo Sesto Calende, via Cocquo, la casa-studio, l’opificio di Giancarlo Sangregorio (1925-2013), e capisci che un luogo può essere consustanziale al genio di un artista. Tra le prime opere che sorprendono, la Donna nel campo del 1952: immagino l’artista, neanche trentenne, ma evidentemente esperto nel dolore e nella grazia, che scava il noce, finché la donna, di arcaica bellezza – tra l’icona neorealista e la cariatide greca – non gli sfugge, diventa, divampa, è.

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Tutte le immagini sono state scattate nella casa-studio di Giancarlo Sangregorio a Sesto Calende, ora Fondazione Sangregorio

Sangregorio fa della scultura l’avvenimento dell’uomo, scolpisce l’attimo, il vento. Scolpire è pensare, sragionare, avvitarsi in carne pietrificata, che ti sovrasta e sopravvive. In un testo del 1979 Sangregorio scrive un pensiero riassuntivo – allora come ora. “Esonerata da pochi decenni dagli umilianti servizi temporali di rappresentare e imitare, la scultura dei nostri giorni è già afflitta dalla noia della libertà. Appiattita fra le pagine bianche viene investita di concetti a lei estranei o si vede programmata e decifrata come un cardiogramma. Qui non è più a casa sua, qui è in casa di cura. Si può ancora trovarla quasi per caso nelle recinzioni degli orti nella campagna rumena, le stesse che hanno fornito sicuri motivi al contadino Brancusi emigrato a Parigi. Anche se mosse da motori fuoribordo, conturbano ancora le canoe scolpite che viaggiano lungo il Sepik. Non la troveremo fra i pezzi supercalibrati della meccanica più evoluta e nemmeno tra i piacevoli oggetti del design industriale. Però non sta neppure fra le impressionanti scogliere scolpite dal vento e dal mare. Alle nuove sensazioni forniteci dalla tecnica o al godimento estetico esteso a nuovi mondi naturali, la scultura risponde celandosi in forme e luoghi appartati. Diviene misura e rivelazione della condizione umana fragile ed inesplicabile”.

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La scultura, dice Sangregorio, si cela, perché la sua forma – che non può essere didascalica o, peggio, esornativa – sfugge all’era del rumore, impone una perfezione marziana al quotidiano rollio dei passi. Anche lui, in effetti, allievo, a Brera, di Marino Marini e di Giacomo Manzù, che trae ispirazioni a Viareggio, a Parigi, tra Brancusi, Giacometti e le grotte di Altamira e di Lascaux, nei recessi dell’Antelami e nei bassorilievi assiri, che costella di opere pubbliche Milano e Basilea, Gottinga e Friburgo, protagonista in una manciata di Biennali di Venezia, si cela, si ritira. Negli ultimi anni, immaginando onirici Orienti in riva al Lago Maggiore, Sangregorio sa ancora dare forma alla pietra, con la perizia linguistica di chi forgia un sonetto.

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Il Sepik è un fiume in Nuova Guinea – dal Ticino, Sangregorio si è mosso verso i mondi australi: Africa, Australia, Asia estrema. A cercare se stesso, certo, una nuova forma alle proprie mani – un avvio diverso al mito. La casa di Sangregorio a Sesto Calende (visitabile: ogni informazione è qui) ha un fascino triplo. Oltre alle opere dello scultore, oltre a vedere gli spazi dove ha lavorato, la meraviglia sono, pure, le collezioni d’arte altra. Così, le maschere indonesiane e i cavalieri Dogon dialogano con i marmi liturgici di Sangregorio, e lo stregone aborigeno, stilizzato, il cranio del Buddha giapponese, la teca dove sono stipate divinità aliene, dei mari del Sud, che rimandano all’alba di Gauguin, alla sua capanna negli altri mondi – reali e fittizi, tahitiani e artistici.

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La sala è il cuore della casa, dove l’apogeo di innumeri civiltà s’intreccia; davanti al camino, spento, i lavori di Sangregorio; la finestra arde sotto i colpi del lago. M’inoltro nella biblioteca, per deformazione. Testi di antropologia, i libri di André Malraux sulle pitture rupestri, studi intorno a stirpi perdute, a città sommerse, le Atlantidi dei piccoli popoli, autorevoli e autoctoni, sterminati; un libro con le poesie di Wystan H. Auden.

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Ad accompagnarci nei luoghi nascosti della casa-studio, il presidente della Fondazione Sangregorio, nata nel 2011 per volontà dell’artista, Francesca Marcellini. Sono affascinato dalla sua sapienza – più tardi userà una parola fatale, che dirò dopo. Mi racconta un dettaglio, per capire i carati da studioso di Sangregorio. “Sono stati ospiti da lui anche Elémire Zolla e Cristina Campo. Sangregorio era interessato ad approfondire il discorso sullo sciamanesimo siberiano. D’altronde, le distese infinite dell’Altaj tornano spesso nei suoi scritti”. Nelle opere più celebri di Sangregorio, dove legno e marmo s’incuneano con precisa ferocia, come l’alba è il residuo della notte, e ne è l’alcova, c’è una nitidezza claustrale, un’ambizione spirituale.

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Nel 1999, “giorno del mio 74° compleanno”, Sangregorio rievoca un episodio del 1960. “Quasi a sera, all’ultimo varco dell’Appennino, infine mi giunge ‘il tremolar della marina’, ed Albissola… urbanisticamente intestinale… Simile ad un uccello migratore, sbatto contro la selva degli ombrelloni ormai chiusi. La sera stessa, su consiglio di Fontana, decido di trovarmi per la mattina dopo, nella stessa stanza della ceramica dove lui aveva appena ultimato le bocce. Il piccolo locale della Ceas è ricoperto da una coltre di polvere nera (quella delle bocce) – suolo e pareti – e il refrattario è troppo indurito: la lotta per la conquista del totem dura tutto il giorno e comporta l’uso di legni, braccia, mani e soprattutto dei piedi. Finisco con la pelle incrostata di sudore e polvere nera, completamente nero e nudo come un bantu. Oggi sul totem, anzi sul pezzo residuo, vedo l’impronta del mio piede beduino. Nostalgia per i sentieri battuti e un po’ di soddisfazione perché ancora questo piede compie agilmente la sua funzione. Il terzo e ultimo giorno godo del fortuito incontro con un certo Yves Klein e compagna, arrivati troppo tardi per trovar posto al ristorante “Pescetto”. Solo io potevo con loro condividere il piccolo tavolo all’ingresso e un po’ in discesa. In quell’ora ci siamo detti molte cose con l’entusiasmo di quegli anni “collettivi” e come se dovessimo fare tante cose insieme. Non li avrei più rivisti, ma di loro ho il ricordo come  dell’apparizione di una cometa, simile a quella di Klein nell’arte degli anni sessanta”. Fontana, Yves Klein, una narrazione scultorea: bisognerebbe mettere in ordine gli scritti di Sangregorio, ci sono, scaturirebbero bellezze.

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Quando chioso intorno alla dedizione di Francesca, lei mi corregge, “è quasi una consacrazione”. Da tempo non sentivo una parola così bella. Consacrazione. Non ci si sacrifica a un artista, si è consacrati, si è fatti sacri tramite l’opera dell’artista, a lui ci si consacra, sacrificando, semmai, tutto il resto. L’arte, d’altronde, reclama soltanto consacrati, unti nell’ardore. (d.b.)

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Poesia per l’opera  “Vino al vino”, 1988, legno di thuja e di sequoia, donata al Palazzo Viani Visconti di Somma Lombardo (VA).

“Una favola vera”

Tuia siberiana secolare
Ti ho conosciuta solitaria
volta al Ticino
quasi torrente sinuoso priva del tuo grande fiume
infinito nelle vallate dell’Altai.
Ho visto le tue fronde estenuate
fremere
all’ultimo vento del Nord.
Ho respirato profondo la tua essenza dal profumo inebriante
che mi ha accompagnato
quando ho cercato di darti nuova vita.
Nella rude solitudine dell’arte
Ti ho nominata
Pane al Pane – Vino al Vino
E ti domando: incontro fatale in cosmiche rotazioni
o genesi di terrestri simbiosi?
ti lascio al fianco del cipresso longobardo
sposa regina dell’Altai.

(Giancarlo Sangregorio 2 marzo 2008)

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Poesia per la scultura “Lo Sguardo”, 1990-97, marmo di Carrara, donata al comune di Druogno (VB) nel 2010

“Lo Sguardo” scultura in marmo

All’erta della scala
schiocca la danza magra e s’increspa il drago.
La tenda di Sumba
s’agita al vento
Spangensekade
La tua patria perduta
Della scuola malvagia
a me resiste un foglio
Il mare di Giava
Java to Netherlands
Come da vero a vero
rimbalza
la virtù dello sguardo
e non trova il senso
Falsum non datur
Fiori grandi e vermigli
le menti accendono
flettono ai varchi
Moltitudini
Poderose infiorescenze

(Passaggio indonesiano 26-07-1993)

Giancarlo Sangregorio

*In copertina: Giancarlo Sangregorio fotografato nel suo studio milanese, negli anni Cinquanta

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