30 Dicembre 2018

Nel mondo di Oz, ovvero: quel giorno che il mio inconscio ha lanciato un urlo, “Leggi Amos Oz!”

Bisogna dare foraggio al caso. Antonio Coda, mi dice, ha inviato a ‘Pangea’ questo articolo su Amos Oz tempo fa; io, colpevolmente, l’ho perso. Ora, riemerge dai contrabbandi telematici, e forse è il momento adatto: la morte è sempre un ottimo invito alla lettura. (d.b.)

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C’è chi ha amici israeliani, tra i suoi migliori talvolta, e avendone si sente il cuore più leggero se vuole pronunciare qualche parola a favore dei palestinesi; e c’è chi ha dei migliori amici palestinesi e che perciò quando ha voglia di spendersi a favore degli israeliani si sente coerente con sé stesso. Io non ho amici. Ho un inconscio, tante volte è il miglior nemico che si possa desiderare, e ho Internet, che forse è diventato la stessa cosa. Il mio inconscio lancia urla. L’ultimo urlo è stato: “Leggi Amos Oz!”.

Ho una passione storica per la trimurti degli scrittori israeliani più conosciuti e apprezzati in Italia: Abraham Yehoshua-David Grossman-Amos Oz. In buona parte lo devo a loro se provo a non cascare nel giochino sul chi sono i più cattivi in Medio Oriente, quelli al di qua o quelli al di là del muro? Dando per accettato che in quello spazio del mondo, come in ogni attuale spazio del mondo, essere buoni è un lusso momentaneamente negato a chiunque, disdicevole ecco. Per essere buoni bisogna essere o profondamente ignoranti o cinici in maniera sublime. Gli scrittori, intanto, restituiscono la complessità di tutte quelle cose che, insiemisticamente, è più comodo chiamare vita e che probabilmente ancora non è la vita, ma che gli s’avvicina.

fimaRiordinavo la libreria, disordinandola ulteriormente, e ci ho trovato due titoli di Amos Oz. Ho iniziato a leggere ‘Conoscere una donna’. Che scrittura che non lascia niente fuori: nessun oggetto, nessun sentimento. Leggendo ‘Conoscere una donna’ mi sono però accorto di averlo già letto, dieci anni prima circa. Allora l’ho riposto e ho cominciato a leggere il secondo titolo ritrovato di Amoz Os: ‘Fima’. Non lo avevo mai letto, l’ho letto tutto. Efraim Numberg, Fima per chi ne legge, è un cittadino di Gerusalemme contrariato dalla politica che Israele attua verso gli arabi, con tutte le sue ingenuità e le sue legittimità, immaturità, antipatie, idiosincrasie, aspirazioni, ambizioni, slanci e crudeltà. Fima potrebbe essere un mio vicino di casa, anzi lo è, abita nella mia provincia del sud d’Italia, oppure potrei essere il suo vicino di casa, anzi lo sono, siamo vicini di Striscia. La letteratura è quel segnale al centro della strada e non sui bordi però, che in un triangolo rosso fiammeggiante ci informa che siamo semplicemente gli abitanti di un modo solo. “Chissà se un reparto scelto aveva fatto incursione a Damasco e catturato Assad” scrive Oz nei pensieri di Fima nel 1991 e non ci vuole mica molta immaginazione per essere ancora con Fima nel 2018, lui ex-poeta con le stoviglie sporche nel suo appartamentino da scapolo di cinquantaquattro anni, e con lui andare in giro per case e per edicole, aprendo i giornali per farsi una opinione ancora alla vecchia maniera, con gusto e meditazione, per stare sicuri che non sia l’opinione a farsi noi e a farlo in pochi minuti, di malagrazia, sbattendoci subito fuori e lasciandoci alle lusinghe della prossima opionione e alle sue sveltine.

Passeggiando con Fima nella sua città, come camminando con me nella mia, ci sono ottime possibilità di incontrare il cecchino a fine turno, ancora ricoperto di polvere e con la gola secca, con la voglia di parlare di tutto e di non pensare a niente, di rinforzarsi nella convinzione di stare facendo la cosa giusta e con la volontà di dimenticare cosa ha fatto. Il cecchino a fine turno non è più un cecchino, è un uomo che siede sullo sgabello e che al terzo o quarto boccale ti guarda male, specie se tu lo guardi con uno studiato sguardo putrido di comprensione, e che avrebbe voglia di dirti che tu al suo posto avresti fatto lo stesso anzi non lo avresti fatto perché tu non hai fegato, tu sei putrido e basta.

Continuando a passeggiare con Fima, andando fuori dalla città, o andando con me fuori dalla mia, le possibilità restano altissime di incontrare il rivoltoso, il costruttore di fionde, l’assediante con addosso ancora l’odore dello scudo umano donna e dello scudo umano bambino e dello scudo umano sé stesso, ancora viscido di sudore e di terrore, con i graffi negli occhi e nella voce, con la voglia di parlare di tutto e di non pensare a niente, di elencare la lunga lista delle vigliaccherie e delle ingiustizie impartitegli degli altri e senza trovare neppure un secondo per fare accenno a qualcuna delle sue. Il rivoltoso ti chiede una bottiglina d’acqua per sciacquarsi la bocca piaghettata e ti guarda male se non gliela dai e ti guarda malissimo, gli riesci rivoltante, se gliela dai con lo sguardo putrido di comprensione, e avrebbe voglia di dirti che tu al suo posto ti sentiresti altrettanto costretto a fare lo stesso e che se non lo facessi significherebbe che tu sei putrido e basta.

A passeggiare con Fima dalle sue parti o con me dalle mie ho capito che in un modo o nell’altro finisce che ti prendi l’accusa da essere un putrido e che te la tieni perché sai che i putridi non sono neppure loro, è il gioco della situazione in cui gli uni e gli altri devono farsi marcire a vicenda nella speranza che diventi chiaro a qualcuno, a una potenza invisibile, al fantasma di un dio che osserva da uno spalto, chi sono i più cattivi, chi è che merita più dell’altro che non si abbia nessun riguardo verso la vita che gli spetta.

Chiedo a Fima se lui ci vede qualcosa alla fine di tutto questo, cosa ne avanzerà, e Fima mi risponde con la voce di Amoz Oz dicendo: “Cosa resta? Pini e silenzio. Nonché volumi tedeschi che si disfano, con le lettere d’oro sul dorso ormai completamente sbiadite”.

Antonio Coda   

Gruppo MAGOG