17 Agosto 2018

Negli Stati Uniti nasce una nuova moda: leggere soltanto i ‘classici’. Una idiozia, come dire che Fabio Volo è Dostoevskij. Ecco perché

Poiché devono arginare lo schifo, gli americani hanno il tic delle classifiche e dei ‘canoni’. Il canonico dei canoni è Harold Bloom, il quale, come si sa, ha pensato di stilare, addirittura, Il canone occidentale. Era il 1994 e il libro omonimo va letto, perché esprime una dilagante e disperata intelligenza.

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Il merito di un ‘canone’, piuttosto – per questo va fatto –, è che fa venire voglia di costruire un anti-canone. Per uno scrittore o un poeta essere ‘canonizzato’ è una condanna: la letteratura, per sua natura, è inafferrabile, fuori norma, fuori legge, antitutto. D’altronde, la coperta canonica è sempre troppo corta: Bloom canonizza Carducci e Belli ma si dimentica Carlo Dossi e Federico De Roberto, canonizza Quasimodo e Pavese scordandosi di Mario Luzi e di Giorgio Caproni, canonizza Vittorini squalificando scrittori ben più qualificati come Buzzati, Piovene, Berto, Pomilio.

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Un articolo pubblicato su The American Conservative narra la nuova moda americana: leggere solo i ‘classici’. L’articolo, dal titolo intrigante (The Hedonism of Reading Good Books), scritto da E. J. Hutchinson, accademico rampante, parte da un saggio di William Hazlitt, pioniere della critica letteraria, On Reading Old Books, secondo cui “è importante leggere gli scrittori più vecchi perché 1) c’è maggiore probabilità che valga la pena leggerli; 2) sono essenziali per lo sviluppo personale dell’individuo; 3) sono esempi di alto virtuosismo formale, perciò c’è sempre da imparare anche se siamo filosoficamente in disaccordo con loro”. Un classico, insomma, è per sempre, è un usato sicuro.

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Il pensiero, di per sé, non ha sbaffi. Gli Stati Uniti sono la terra della novità permanente e Hutchinson ci ricorda che forse vecchio è meglio. D’altronde, se siamo ancora qui a parlare dei Fratelli Karamazov significa che il vecchio Dostoevskij qualcosa da dire ce l’ha ancora, caro anacoreta del romanzo occidentale. Eppure, per dire, Hazlitt è morto che Dostoevskij era un poppante, non l’ha letto, come la mettiamo? Diciamo che il concetto di ‘classico’ è cangiante.

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Hutchinson, allora, rettifica: “Quello che Hazlitt intende dirci è che è d’obbligo, per un individuo pensante, costruirsi un canone personale di libri e di autori. Poiché siamo individui differenti, avremo canoni differenti. Ma dobbiamo costruire un nostro proprio canone. Le ragioni sono ragionevolmente epicuree: il piacere di spendere bene il proprio tempo; il piacere della memoria; il piacere di ammirare l’opera di un maestro… Questa specie di edonismo marca il significato di una vita, assegnandole una ricchezza che ha un prezzo non superiore alla tessera di una biblioteca”. Che bello. Basta una tessera della biblioteca per vivere felici.

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Leggere soltanto i ‘classici’. Senza addentrarci nel significato di ‘classico’, l’idea alla prima lettura mi gratifica. Vorrei le librerie inondate di Lev Tolstoj e di Franz Kafka, di Eschilo e di Dante, e non di quelle schifezze che mi tocca vedere, in effetti, sul comodino di fianco al letto ho le poesie di Rainer Maria Rilke e quelle di Boris Pasternak e un libro di Marguerite Yourcenar (tutti libri, comunque, che Hazlitt non s’è letto). Ma so che sarebbe una idiozia. Se Memorie di Adriano non sfigura di fianco a David Copperfield, anzi, è un libro superiore, e nanifica Erri De Luca o Fabio Volo, questo significa che è il nostro tempo, è questo millennio a essere precipitato nell’ovvio e nell’orrido, fino all’altro ieri emergevano ancora, con prepotenza colta, dei ‘classici’ contemporanei.

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Mi è odioso, poi, l’utilitarismo americano. Non si legge per “spendere bene il proprio tempo”, ma per perderlo, per avventurarsi verso l’insolito, per fallire, magari. I ‘classici’, d’altronde, non sono dei tiranni, chiedono di essere giudicati e letti ogni volta, e decapitati. Ciò che era un classico ieri oggi vaga nell’oblio: chi si ricorda di François Coppée? Eppure, la sua fama era superiore a quella di Rimbaud…

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Giacomo Leopardi, uno che pensava che il mondo invecchia peggiorando, eppure, decapitava i classici. “A me interviene non di rado di ripigliare nelle mani Omero o Cicerone o il Petrarca e non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo”, scrive nel Parini ovvero della gloria. Pur riconoscendo un valore decisivo ai classici, non se ne lasciava cannibalizzare. Anzi. Si rammaricava che la cattiva attitudine dei lettori all’avventura della lettura, al nuovo, cementati nel perbenismo del solito, non avrebbe permesso il riconoscimento di un Omero contemporaneo. “Se oggi uscisse alla luce un poema uguale o superiore di pregio intrinseco all’Iliade; letto anche attentissimamente da qualunque più perfetto giudice di cose poetiche, gli riuscirebbe assai meno grato e men dilettevole di quella”.

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Dobbiamo sperare nell’Omero di domani, non accontentarci di quello che già conosciamo. Detto altrimenti. Dire che bisogna leggere soltanto i classici è come asserire che Fabio Volo è Dostoevskij. Il fondamentalismo non serve. La battaglia, semmai, è contro i brutti libri: quelli devono essere banditi dalle librerie. Se guardiamo solo al passato, scordiamoci il futuro. (d.b.)

 

 

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