27 Gennaio 2020

Piccolo discorso sulla necessità di piangere. “Accresci il tuo pianto, perché se le porte delle lacrime non sono chiuse le porte celesti si apriranno per te”

Il pianto misura l’amore – o il bianco, il banco di prova della perdita. Piangere un morto significa dare acqua al suo viaggio, oppure sciogliere il ricordo, liberandosene. Da sempre, i testi indicano la necessità del pianto, ma anche un termine, una pattuglia al pianto (“dimorerà in casa tua e piangerà suo padre e sua madre per un mese intero; dopo, potrai unirti a lei e comportarti da marito verso di lei e sarà tua moglie”, Dt 21, 13). A volte, si piange quando non si dovrebbe più piangere perché prima non se ne aveva la forza.

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C’è un pianto che rinforza la pietà – un altro che censisce la spietatezza.

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Per alcuni, invece, la vera forma del pianto è trattenerlo, piantare il pianto nello stomaco. Finché trattengo il pianto – dicono costoro – il morto resterà sempre con me. Piangere, in effetti, non è tenere, ma slegare – scatenare, a volte. Con uno sguardo si ipnotizza, con uno sguardo si lascia.

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La contrizione è consumarsi dentro: c’è un pianto esteriore, visibile, e un pianto interiore, che come un acido ci disintegra. Il pianto esteriore irrora i campi, dà vita; quello interiore, invisibile, ci uccide.

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Il modo di approssimarsi a Dio può essere il timore, ma è preferito il pianto. Il pianto è il solo sacrificio che desidera Dio: si piange l’anima vecchia per purificarla. Ci si libera di sé attraverso gli occhi: Dio ce li restituisce più limpidi. Come noi mangiamo Dio, egli, tramite il pianto, inghiotte la nostra anima. “E piangevano, digiunavano e pregavano davanti a Dio”, dice Baruc, il profeta (1, 5).

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“Non piangere!” (Lc 7, 13), “Non piangete” (Lc 8, 52), dice Gesù. Egli dissecca il pianto in groviglio di gioia. Eppure, chi si approssima a lui, piange, come la “peccatrice” che “ai piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava, li cospargeva di profumo” (Lc 7, 38). Piange per essere piantata in Dio – i capelli, in effetti, sono figura delle radici, il profumo della primavera.

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Fingere il pianto, piuttosto, sfigura.

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Gesù annienta il rimpianto – da lui sorge il compianto, il pianto di chi si radica nella morte di Dio. Quel pianto è infinito.

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C’è un pianto che cerca l’espianto del perdono, c’è un pianto che sradica. Tra pianto e lamento la differenza è radiosa. Il lamento intende raccogliere qualcosa (pietà, conforto, sostegno), il pianto è proprio dell’uomo che, raccolto in sé, non cerca altro; qualcuno, forse, lo raccoglierà. Si può anche annegare, nel pianto.

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Nei Fratelli Karamazov ‘Mitja’ scopre una verità mistica: piango perché nessuno più pianga. Con il mio pianto lavo le colpe dell’umanità: il pianto sutura la ferita. Nel capitolo dedicato al sogno di Dmitrij Karamazov (libro IX, capitolo VIII), egli si tortura per la sofferenza dell’uomo, per la casuale malvagità di quella cattiveria. “Stava crescendo nel suo cuore un senso di pietà che non aveva mai provato prima, aveva voglia di piangere… affinché quel bambino non piangesse più, affinché non piangesse più quella madre, affinché da quel momento non esistessero più lacrime per nessuno”. Se nessuno piange, però, viene meno la via verso Dio, che non è lastricata, ma liquida.

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Nello studio sulla Qabbalah, Moshe Idel dedica un capitolo al “pianto come pratica mistica”. Il mistico studia, prega e prega piangendo perché Dio si accorga di lui, lo avvolga. Il pianto olia la compassione di Dio, è la via d’accesso ai segreti. “Accresci il tuo pianto, perché se le porte delle lacrime non sono chiuse le porte celesti si apriranno per te”, dice Avraham ha-Lewi Berukhim, discepolo di Yitzhaq Luria. Il pianto raffina gli occhi rendendoli prensili alla visione; il pianto tramuta gli occhi in binocoli capaci di accogliere e dissezionare la rivelazione.

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Il pianto non sempre coinvolge Dio a chinarsi verso la sua creatura, né lo sconvolge – eppure, a volte è Dio a piangere. In un midrash, Echa Rabba, è scritto: “Quando fu distrutto il tempio Dio cominciò a piangere e disse “che ho fatto?”. Allora venne da lui Metatron, il capo degli angeli, si inchinò e disse: “Onnipotente, voglio piangere io perché tu non debba provare la vergogna del pianto!”. Ma Dio replicò: “Se tu adesso non mi lasci piangere, io vado in un posto dove tu non puoi andare, per poter piangere, là mi lamenterò in segreto”.

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Secondo una lettura riposta di due versetti di Giobbe, 28, 10-11 (“Nelle rocce traccia scavi/ sul prezioso posa gli occhi/ scandaglia la profondità dei fiumi/ porta alla luce il nascosto”), il pianto è lo spiraglio in cui si infila Dio, per svelare il nascosto, per sventrarlo. Piangere, ancora, annebbia la vista su questo mondo, ma rende chiaro l’altro. Il pianto, infine, scava – in quel vuoto, devoto al dolore, qualcuno si siede. (d.b.)

*In copertina: un particolare dalla “Deposizione” di Rogier van der Weyden, 1435 ca.

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