22 Settembre 2020

“Un unico interesse, un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione”. Il leggendario Nečaev e “Il catechismo del rivoluzionario”

La tempra – l’ossessione, piuttosto – si misura lì, tra le mura della fortezza di Pietro e Paolo, nel pozzo di una cella, occhio di drago in muratura. Gli fu impedito di leggere. Poi di scrivere. I rari compagni di cella – ideologi della rivoluzione, antizaristi, delinquenti straordinari – storditi dalla solitudine, da quel vuoto senza eco, impazzivano. Lui no. Diventava più forte. Riuscì a conquistare i soldati addetti alla custodia dei prigionieri; nessuno dubitava del suo potere ipnotico, era posseduto dal verbo. Le pene s’inasprivano e lui progettava fughe prodigiose. Morì di scorbuto, nel dicembre del 1882, era stato arrestato dieci anni prima, a Zurigo. I servizi russi, con ramificazioni in Svizzera, Francia, Germania e Inghilterra, lo braccavano dal 1869. Aveva ammazzato un suo discepolo: non gli obbediva con coerente disciplina. Figlio di un imbianchino e di una serva della gleba, presto orfano, con infiniti fratelli, la vita di Sergej Gennadievič Nečaev affonda nella leggenda. Alcuni hanno dubitato della sua esistenza.

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La figura di Nečaev, giovanissimo ideatore di rivoluzioni, è decisiva. Insegna, intanto, che l’uomo, per natura, è in rovina e ambisce alla rivolta. Esiste, cioè, un cuore nero nella storia, un nido di mosche nell’uomo che ammette che la rivoluzione – qualunque – non si fa ‘a fin di bene’, per il meglio, per le umane sorti progressive, ma perché bisogna farla, perché non c’è altro fine che il sangue. Nečaev, voglio dire, fa fare un salto all’ideologia rivoluzionaria: la Rivoluzione è la sola divinità e per perseguirla, è naturale, occorre ammazzare. Perfino ammazzare i confratelli. La Rivoluzione è buona in sé, pur priva di contenuti, priva di aggettivi, come l’Uno, va eseguita senza interrogarla, non ammette sconti. “L’originalità di Nečaev sta nel giustificare la violenza fatta ai fratelli”, scrive Albert Camus ne L’uomo in rivolta. “Nečaev fa di più che militarizzare la rivoluzione dal momento che ammette che i capi, per dirigere i loro subordinati, abbiano il diritto di usare la violenza e la menzogna… Il reclutamento faceva tradizionalmente appello al coraggio e allo spirito di sacrificio. Nečaev decide che si possono ricattare oppure terrorizzare gli esitanti, e ingannare i fiduciosi”. Insomma, Nečaev leva ogni mascara morale alla Rivoluzione, per compiere la quale ogni atto è lecito. Soprattutto se illecito.

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Nečaev fu illuminato da Dmitrj Karakozov, che attentò alla vita di Alessandro II, fallendo – il dio/zar dimostrò una carnosa fragilità. Lo affascinava il profilo di Filippo Buonarroti, rivoluzionario italiano che praticò in Francia, e il pensiero di Pëtr Nikitič Tkačëv. Fu Bakunin, tuttavia, a dare forza e forma alla sua vita. Si incontrarono a Ginevra: il fondatore dell’anarchismo fu totalmente sedotto dal ventenne che sembrava un ispirato, mentiva – diceva d’essere stato arrestato più volte, a Mosca, e altrettante fuggito –, si presentava come il Messia della Rivoluzione. “Vi amavo profondamente e vi amo ancora… credevo fermamente, troppo fermamente in voi”, gli scrive, Bakunin, il 2 giugno del 1870. Nečaev si era già rivelato: scaltro, cinico, opportunista. Un totem d’acciaio. Due settimane dopo, agli amici, a proposito di Nečaev, sempre Bakunin: “Non ho ancora incontrato un rivoluzionario sincero e conseguente come lui… è intelligente, molto intelligente, ma la sua intelligenza è selvaggia come la sua passione, e il suo sviluppo, benché considerevole, non è stato armonioso”.

Nelle rare fotografie che abbiamo di lui, Nečaev (1847-1882) non è mai uguale a se stesso, la contraffazione gli è connaturata, pare

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Il vecchio anarchico si era accorto di aver fomentato in seno una serpe, il pittbull della Rivoluzione. In Russia, Nečaev fonda l’organizzazione “Giustizia popolare sommaria”: il simbolo è un’ascia, l’obbiettivo rovesciare lo zar, attraverso un’azione collettiva dei contadini. Nečaev era certo che nel 1870 la Rivoluzione avrebbe sradicato le fondamenta della Madre Russia. Nella cultura russa due figure, drasticamente diverse ma sostanzialmente simili, emergono con ossessiva potenza: lo jurodivyj, il ‘folle di Cristo’, che abbandona questo mondo in vista dell’altro, si pone ai margini della Storia, vive esule sulla marea della Provvidenza, e il rivoluzionario, che abita nel cuore della Storia e vuole cambiare il mondo, questo. Entrambi, jurodivyj e rivoluzionario, abitano l’estremismo: uno vive donato a Dio, l’altro dà la vita per la causa. Entrambi vivono senza temere la morte, nell’insussistenza. Dostoevskij, che ragiona sul rivoluzionario ne I demoni, pensava a Nečaev come a una figura minore, meschina, “questo personaggio mi sembra quasi comico”, scrive in una lettera a Michail Katkov. Eppure, Dostoevskij dedica a Nečaev un lungo articolo nel suo “Diario di uno scrittore”, è il 1873, Una delle falsità contemporanee. In sostanza, lo scrittore, negandolo, ammette che la vita di Nečaev, paradigmatica, è il fondamento filosofico dei Demoni. “Tra i Nečaev si possono trovare degli esseri assai cupi, assai desolati e stravolti, con una sete di intrigo e di potere complicatissima nella sua origine, con un bisogno passionale e morbosamente precoce di affermare una personalità… quelli di loro che sono veri mostri possono essere persone molto intelligenti, furbissime e perfino colte. Oppure voi credete che le conoscenze, gli ‘studi’, le nozioncine scolastiche (magari universitarie) formino così definitivamente l’anima del giovane che, ottenendo la laurea, egli acquisti immediatamente l’incrollabile talismano per conoscere, una volta per sempre, la verità ed evitare le tentazioni, le passioni e i vizi?”. Orrida per Dostoevskij è l’idea di poter considerare un “mostruoso e ripugnante assassinio” – come quello di Ivanov, ordito da Nečaev a Mosca – alla stregua di “un fatto politico utile per l’avvenire della futura ‘grande causa comune’”. L’uomo, d’altronde, è così: eleva l’idea a dio, la esplicita in ghigliottine e Gulag, la ciba con carneficina.

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La passione di Nečaev e la testa di Bakunin forgiano centocinquant’anni fa, un testo di prodigiosa potenza, Il catechismo del rivoluzionario, oggetto di uno studio importante da parte di Michael Confino (1973; in Italia stampa Adelphi). Pensato e scritto nel 1869, Il catechismo è pubblico dal 1871, e agisce, nei sotterranei dell’epoca, con indubitabile fascino. La struttura, per punti, ricorda le ‘regole’ monastiche: tutto è teso, in effetti, a conquistare ‘fratelli’, a confermare e organizzare la loro opera. Il primo punto del Catechismo – “L’edificio dell’organizzazione poggia sulla fiducia nelle persone” – sarà il discrimine nei rapporti tra Nečaev e Bakunin. Per Nečaev bisogna avere fede nella Rivoluzione, non nei rivoluzionari: egli propone una sorta di ‘via negativa’ alla Rivoluzione, che consideri, come pratica inquieta, la sovversione dei valori, la menzogna, l’astuzia tra i pari. “Voi, caro amico mio – e questo è il vostro principale, il vostro colossale errore – vi siete incapricciato del sistema di Loyola e di Machiavelli, dei quali il primo si proponeva di ridurre in schiavitù l’umanità intera, mentre il secondo cercava di creare uno Stato potente (monarchico o repubblicano non ha importanza) per ridurre in schiavitù il popolo. Innamorato come siete dei principi e dei metodi polizieschi e gesuitici, avete avuto l’idea di fondare su di essi la vostra stessa organizzazione, la vostra stessa forza collettiva segreta, per cui agite verso i vostri amici come se fossero nemici: giocate d’astuzia con loro, cercate di dividerli e perfino di metterli in discordia l’uno con l’altro…”. Soprattutto – come si legge dal brandello del Catechismo che ricalco –, incendia il principio per cui si è persi nel profondo, tanto da poter profondere ogni sforzo nella rivolta. Già. Tra Rivelazione e Rivoluzione la differenza è un velo – vanto è vivere nel grido e nel segreto. (d.b.)

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Atteggiamento del rivoluzionario verso se stesso

1. Il rivoluzionario è un uomo perduto in partenza. Non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe e ne esclude ogni altro, un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione.

2. Nel suo intimo, non solo a parole, ma nei fatti, egli ha spezzato ogni legame con l’ordinamento sociale e con l’intero mondo civile, con tutte le leggi, gli usi, le convenzioni sociali e le regole morali di esso. Il rivoluzionario è suo nemico implacabile e continua a viverci solo per distruggerlo con maggior sicurezza.

3. Il rivoluzionario disprezza ogni dottrinarismo e ha rinunciato alle scienze profane, che egli lascia alle generazioni future. Per questo, e soltanto per questo, egli studia attualmente la meccanica, la fisica, la chimica e perfino la medicina. Pr questo egli studia giorno e notte la scienza viva – gli uomini, i caratteri, le situazioni e tutte le condizioni del regime sociale presente, in tutti gli strati. Lo scopo è uno soltanto: la distruzione rapida di questo immondo regime.

4. Egli disprezza l’opinione pubblica. Disprezza e detesta la morale vigente nella società in ogni suo motivo e manifestazione. Per lui è morale tutto ciò che contribuisce al trionfo della rivoluzione; immorale e criminale tutto ciò che l’ostacola.

5. Il rivoluzionario è un uomo perduto, spietato verso lo Stato e verso la società istruita in genere; da essa non deve dunque aspettarsi nessuna pietà. Fra lui da una parte, lo Stato e la società dall’altra, esiste uno stato di guerra, visibile o invisibile, ma permanente e implacabile – una guerra all’ultimo sangue. Egli deve imparare a sopportare la tortura.

6. Duro verso se stesso, deve essere duro anche verso gli altri. Tutti i sentimenti teneri che rendo effeminati, come i legami di parentela, l’amicizia, l’amore, la gratitudine, lo stesso onore devono essere soffocati in lui dall’unica fredda passione per la causa rivoluzionaria. Per lui non esiste che un’unica gioia, un’unica consolazione, ricompensa e soddisfazione: il successo della rivoluzione. Giorno e notte, deve avere un unico pensiero, un unico scopo: la distruzione spietata. Aspirando freddamente e instancabilmente a questo scopo deve essere pronto a morire, e a distruggere con le proprie mani tutto ciò che ne ostacola la realizzazione.

7. La natura del vero rivoluzionario esclude ogni romanticismo, ogni sensibilità, entusiasmo e infatuazione. Esclude anche l’odio e la vendetta personali. La passione rivoluzionaria, diventata in lui una seconda natura, deve in ogni momento essere unita a un freddo calcolo. Dovunque e sempre, egli deve essere non ciò cui lo incitano le sue tendenze personali ma ciò che l’interesse generale della rivoluzione gli prescrive.

*In copertina: Kazimir Severinovič Malevič, “Cerchio nero”, 1915

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