22 Agosto 2019

“Questo è un libro che apre porte di sgabuzzini e soffitte chiuse da tempo, sposta gli oggetti, libera le stanze dalla polvere”: su “Addio fantasmi” di Nadia Terranova

Addio fantasmi (Einaudi, 2019) inizia con una domanda fondamentale: cosa è veramente nostro e nello specifico quale casa consideriamo nostra. Un libro che consiglio a chi è andato a vivere fuori dal nucleo genitoriale, a chi almeno ci ha provato, a chi ha dovuto affrontare in tutte le conversazioni sulla casa la specificazione su quale sia la nostra casa, “la tua nuova casa intendi o quella dei tuoi?”. Una distinzione di possesso faticosa, ci pone davanti strade ben più complesse, dove ci sentiamo a casa e con chi. Possediamo mai veramente la casa? Abitare il nostro corpo è già difficile, senza il dolore ci scordiamo persino di possedere una gamba, un braccio, la schiena, il seno sano. Quindi Addio fantasmi parte da questo: dal crollo del tetto, da una frattura dall’alto, non pericolosa, lenta, non urgente ma tuttavia importante. La casa si può comunque abitare, l’idea del crollo del tetto sarebbe anche banale ma nasconde qualcosa in più, non è il crollo delle fondamenta, è il crollo di qualcosa che si può sistemare, si può coprire, ci deve coprire.

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Nel primo capitolo c’è tutto: la casa, il rapporto con la madre, il rapporto con un marito fatto di un amore stanco e resistente, la scomparsa del padre. In questo libro sappiamo subito a cosa andiamo incontro, possiamo scegliere se aprirci agli interrogativi o meno. I fantasmi della Terranova sono gli oggetti che richiamano le presenze, come amuleti Ida e la madre della protagonista li conservano non per ricordare ma per sperare, per tenere l’energia di chi li aveva toccati, richiamarli dall’assenza e dal silenzio, trovare nel possesso una forma di ricatto. E gli oggetti ci guardano, occupano uno spazio, aprono gli atomi, spezzano i legami e ci assediano.

Attorno alla scomparsa di un padre depresso ruota tutto, e come potrebbe non farlo. Ida aveva undici anni, il padre spegne la sveglia alle 6.16 della mattina, si veste ed esce di casa per non tornare mai più. Non una parola, un gesto, un biglietto. Niente. L’assenza se lo inghiotte, la luce del sud se lo divora, il mare siciliano lo ingloba insieme ai pesci. Messina dimentica, i vicini di casa dimenticano, i compagni di classe dimenticano. Non dimenticano Ida e la madre; il dolore della scomparsa non è pianto disperato ma silenzio, il silenzio come forma punitiva e repressiva. Un silenzio che è una forma di violenza imposta e subita allo stesso tempo.

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Il padre è scomparso, non morto. Qui sta la differenza. La scomparsa è volontaria, il rifiuto è evidente e permanente, silenzioso anch’esso. Chi scompare ferma il tempo dei vivi, lo riavvolge costantemente, lo porta in un gorgo ossessivo di domande senza risposta, di pianti senza suono, perché non si può piangere un vivo. Si piangono i morti, i morti si vanno a trovare, hanno un luogo, un cerchio si chiude, la speranza si spezza. Resta il dolore, ma il dolore è concesso e si può esibire, si può portare il lutto. Per chi subisce una scomparsa il lutto non esiste, la speranza è sempre un residuo fastidioso con il quale bisogna convivere. Allora si reagisce col silenzio, cercando di dimenticare che chi ci ha generati ha scelto la depressione a cui votare la vita, ha scelto di aprire la porta e non tornare, sparire nella luce del mattino, non nel buio della notte. La colpa è nella luce, è nell’alba, in quello che dovrebbe significare inizio. Allora la memoria fa una cosa strana, si modifica, reinventa, cerca di soffocare i buchi, alla fine comunque spera.

Un libro che parla della crescita, di come esistiamo come entità singole nei diversi periodi della vita, “pensare al passato come a una retta composta da segmenti diversi”, il bambino che siamo stati è individuo diverso dall’adolescente, diverso ancora dall’adulto. Chi ha un dolore così muto e rovente in tenera età respinge, tiene le età separate, perché in ogni fase ci possa essere un ritorno, una speranza, un cambiamento totale, ci si possa sempre reinventare, diventare altro, spezzare il passato, non avere più quel lutto mai espresso, quel padre scomparso mai pianto. “Ma ciò che non può estendersi si inabissa senza fine”.

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Addio fantasmi è un libro che apre porte di sgabuzzini e soffitte chiuse da tempo, sposta gli oggetti, rievoca fantasmi di vivi e di morti, libera le stanze dalla polvere, sfiata i termosifoni bloccati nella pressione da anni. La Terranova ci spiega anche che cosa sia una madre “qualcuno da cui non esiste riparo. Dicono che una madre dà tutto e non chiede niente; nessuno dice invece che chiede tutto e dà ciò che non chiediamo di avere”. Dalla madre non si scappa, possiamo trasferirci, avere case nostre, decidere di non fare figli, eppure figli siamo sempre, davanti alla madre restiamo disarmati, nessuna barriera emotiva o psicologica è mai davvero riuscita, mai davvero sufficiente.

Lavorando in ambito sanitario ho imparato che chi sta in silenzio è colui al quale spesso prestare più attenzione, chi sta veramente male non ha neanche la forza di lamentarsi. Addio fantasmi ci ricorda che la stessa cosa vale per i dolori interni, per quelle sfere arroventate che ci portiamo al centro dello sterno, al posto del cuore. La buona educazione e il silenzio stanno come terriccio sopra a bare senza un morto, i sorrisi come fiori appena piantati, ma sotto tutto brucia o si affoga.

Clery Celeste

*In copertina: Nadia Terranova nella fotografia di Daniela Zedda

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