09 Dicembre 2019

“Non voglio morire come una mummia, ma sognare il museo dei giocattoli della mia infanzia”. Una conferenza di Vladimir Nabokov

L’idolo di fine anno è lui. Curioso. Nato a Pietroburgo 120 anni fa, morto in Svizzera nel 1977, vissuto – per fette pressoché esatte – vent’anni in Russia, venti in Germania (con puntate in UK e Francia), venti negli Usa e altrettanti in Svizzera, autore di opere emblematiche, astrali, austere, disancorate dai fatti e dalla fama – fatto salvo “Lolita”, romanzo, per lo più, frainteso – è ancora lui, Vladimir Nabokov, il cuore del ‘dibattito’ letterario. Era insopportabile; portò l’arte del romanzo a limiti vertiginosi. Un tempo, un romanzo era una sfida all’intelletto, ora è sfiduciato dalla necessità di dilettare, senza dilatare troppo gli argini formali. In ogni caso, la pubblicazione di “Think, Write, Speak”, cioè “Saggi sparsi, Recensioni, Interviste e Lettere agli editori”, a cura di Brian Boyd e Anastasia Tolstoj, ha galvanizzato la stampa anglofona. Il “New Yorker” pubblica il saggio del 1928 che riproponiamo qui, per larghe lasse, “L’Uomo e le Cose”; Donald Rayfield su “Literary Review” tenta di minimizzare l’estro nabokoviano – “Pride, Prejudice & Pushkin” – dicendo che “la testardaggine, e un certo vezzo perverso, stanno alla base delle opinioni di Nabokov”, eppure Nabokov resta sempre lì, ideatore di labirinti di cristallo. Ineluttabile, insopportabile. “Nella vita, Nabokov era insistentemente goffo, perfino stupido; non sapeva guidare, scriveva a matita su schede, faceva affidamento alla moglie per predisporre una copia leggibile dei suoi romanzi… Eppure, nel caso di Nabokov, come nel caso di Tolstoj, non c’è segno che i pensieri dell’autore vengano in qualche modo rifratti dall’azione della moglie. Pochi scrittori sono stati così privi di influenze extra-letterarie come Nabokov”. Inconsapevolmente, il recensore della rivista cool fondata a Edimburgo nel 1979, continua a foraggiare la leggenda di Nabokov: scrittore eccelso e scontroso, fuori dal mondo perché divino, estraneo perché esteta, cattivo perché catturato dal demone della forma. All’epoca di questo saggio Nabokov scriveva con il nome di V. Sirin, aveva pubblicato “Re, donna, fante”, si armava a scrivere il bellissimo “La difesa di Lužin”. Nel libro, al di là di una sontuosa selezione di interviste, spesso ignote, ci sono alcuni saggi d’interesse: quelli dedicati a Vladislav Chodasevich, a Ivan Bunin, a Nina Berberova, a Hilarie Belloc. Del 1942 è una “Lecture on Leonardo da Vinci”.

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L’Uomo e le Cose

Il titolo del mio intervento, “L’Uomo e le Cose”, potrebbe, probabilmente, confondervi. Ad esempio, potrebbe sembrare, in omaggio al diavolo delle generalizzazioni, che io intenda con la parola “uomo” qualsiasi Homo Sapiens, abbastanza rappresentativo del genere umano. Con “cosa” si potrebbe pensare che significhi qualcosa di definito, nei cui confini intenda muovermi con felicità filosofica… Spero di eliminare ogni concezione errata. Con “uomo” intendo unicamente me stesso. Con “cosa” non intendo uno stuzzicadenti ma anche un motore a vapore. Tutto ciò che è fabbricato da mani umane è una cosa. Questa è l’unica definizione generale che mi permetto.

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Una cosa, una cosa fatta da qualcuno, in sé non esiste. Un gabbiano che sorvola su un portasigarette dimenticato sulla spiaggia non lo distingue da un sasso, da un frammento di alga, perché in assenza di uomo quella cosa ritorna in seno alla natura. Un fucile che giace nelle profondità della giungla tropicale non è un più una cosa, ma una porzione della foresta, oggi un’onda di formiche rosse lo sommerge, domani vi crescerà, tra la sua ruggine, un fiore. Una casa torna mero blocco di pietra quando un uomo la lascia. Se dovesse restare abbandonata per cinquecento anni, la casa, come un animale silenzioso e astuto che anela la libertà, tornerà alla natura in modo impercettibile: in effetti, non è che una pila di pietre. Va notato, per altro, con quanto entusiasmo e abilità ogni minima cosa si sforzi di sfuggire dall’uomo, e quanto sia incline al suicidio. Una moneta caduta, con la fretta di un fuggitivo disperato, traccia l’ampio arco della sua fuga sul pavimento per poi scomparire lontano, nell’angolo più estremo, sotto il divano.

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Non solo non esiste un oggetto senza uomo, ma non esiste oggetto senza una relazione definita con un lato dell’uomo. Questa relazione è sfuggente. Prendiamo un dipinto: il ritratto di una donna. Un uomo lo guarda, con la fredda ammirazione di un esperto, analizza i colori, il chiaroscuro, lo sfondo. Un altro, un artigiano, pieno di una esperienza più complessa – in cui convergono la colla, il metro, la fermezza del legno, la doratura – si concentra con occhio professionale sulla cornice. Un terzo, amico della donna rappresentata nel quadro, discute riguardo alla somiglianza della conoscente con il ritratto, oppure, trafitto da uno di quei remoti ricordi che sono come nodi sulla strada della memoria, osserva e ascolta con chiarezza – pur per un istante – quella stessa donna, che ha poggiato la borsa, si sfila i guanti, dice, “Domani è l’ultima seduta, grazie a Dio. gli occhi stanno guarendo”. Infine, un quarto guarda il dipinto pensando al dentista che gli causerà molto dolore, oggi, e ogni volta che guarderà quel quadro non si ricorderà altro che il ronzio del trapano e quanto puzzava l’alito del dentista.

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Cosa intendo dire? Che non esiste una cosa, anche se è matematicamente una, ma quattro, cinque, sei, un milione di cose a seconda di quante persone guardano quella stessa cosa. Cosa mi importa degli stivali lasciati dal mio vicino di casa fuori dalla sua porta? Beh, quel vicino stanotte è morto: di quale calore umano, pietà, bellezza viva e tenera si caricano quei due stivali logori, con i loro occhielli simili a piccole orecchie, lasciati sulla soglia di casa, radiosi, ora. Sulla mia scrivania, in una busta sgualcita, ho trovato cinque fiammiferi, con il capo nero. Li ho messi lì per conservare memoria di qualcosa che ora ho dimenticato, dimenticato del tutto. Li conserverò ancora un po’, per dare fede a quel ricordo, amandoli di una specie di amore secondario, finché non me ne libererò. Così tradiamo le cose.

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In una fiera, era una piccola remota cittadina, ho vinto un maiale di porcellana. L’ho abbandonato sullo scaffale dell’hotel quando ho lasciato la cittadina. Così, mi sono condannato a ricordarlo per sempre. Sono irrimediabilmente innamorato di quel maiale di porcellana a buon mercato. Sono sopraffatto da una tenerezza insopportabile, delicatamente sciocca quando ci penso. Con la stessa sensazione, osservo un ornamento insignificante, i fiori sulla carta da parati, in un angolo buio del corridoio, che nessuno tranne me probabilmente noterà mai.

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L’uomo è fatto a somiglianza di Dio; una cosa è a somiglianza dell’uomo. Un uomo che fa di una cosa il suo Dio finisce per assomigliare a quella cosa. Il cerchio è compiuto: cosa, uomo, Dio, uomo, cosa – una sfera, che piace alla mente. Una macchina automatica è per molti aspetti simile all’uomo. Spingi un tasto, risponde. Gli dai dei soldi, ti ricambia con dei beni. Ma in altri tipi di cose io sento una diversa somiglianza con l’uomo. Le mutande che si asciugano al vento si lanciano in una danza idiota, ma piuttosto umana. Un calamaio mi fissa con il suo occhio nero, la sua pupilla luccica. Tra il vetro che accoglie una lampada e la testa calva di un filosofo pieno di idee c’è una certa rassicurante somiglianza… In alcuni villaggi della Foresta Nera le case ghignano: la finestra sul tetto è allungata come un occhio furbo. Anche le automobili sono simili all’uomo: per questo le dotiamo di due fari e non di tre o quattro. Non c’è da stupirsi se le fiabe siano piene di sedute spiritiche in cui le cose prendono letteralmente vita.

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Approfondendo queste analogie e penetrando in una sorta di ardore antropomorfo, possiamo dare alle cose i nostri sentimenti. Nel pigro scialle di lana sullo schienale di una sedia c’è una specie di richiamo: vorrei stare sulle spalle di qualcuno! In un taccuino aperto, ma vuoto, c’è qualcosa di allegro, gioioso, sincero. Una matita è per natura più morbida e gentile di una penna: la penna parla, la matita sussurra. Durante l’infanzia ero turbato da un interrogativo: dove finiranno i miei giocattoli quando sarò grande? Immaginavo un enorme museo, dove gradualmente aumentavano i giocattoli dei bambini. Spesso, quando entro in un museo di antichità, pieno di monete romane, armi, cotte di maglia, corazze, mi sembra di essere entrato in quel museo dei miei sogni.

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Temiamo di lasciare – e non vogliamo lasciarle – le nostre cose alla natura da cui provengono. È quasi fisicamente doloroso per me separarmi dai vecchi pantaloni. Conservo lettere che non rileggerò mai. Gli antichi re erano deposti nelle bare con l’armatura e le cose amate: avrebbero voluto incamerare l’intero palazzo nella bara, se gli fosse stato possibile. Flaubert desiderava essere sepolto con il proprio calamaio. Ma il calamaio si annoia senza penna, la penna senza carta, la carta senza scrivania, la scrivania senza stanza, la stanza senza casa, la casa senza città. E non importa quanta forza ci metta un uomo: le cose cadono, egli decade. Più che giacere come una mummia in un sarcofago pitturato, nell’alveo di un museo, è più piacevole, e più onesto, consumarsi nel terreno dove, a loro volta, tornano giocattoli, stuzzicadenti, automobili.

Vladimir Nabokov

Gruppo MAGOG