28 Aprile 2020

“L’ordine di fucilare Mussolini e i suoi ministri non esisteva”. Chi ha ucciso davvero il Duce? Dialogo con Luciano Garibaldi

28 aprile 1945, Giulino di Mezzegra, frazione di Tremezzina, Como. In un luogo marginale fino all’invisibile muore, condannato senza processo, catturato mentre è in fuga, Benito Mussolini. Con lui, Claretta Petacci. Di quel giorno, che paradosso, l’unica cosa certa è che non è certo ciò che certamente trovate sui libri di Storia. Che a uccidere, cioè, sia stato il “Colonnello Valerio”, riconducibile al partigiano Walter Audisio, ragioniere di Alessandria, in seguito deputato e Senatore della Repubblica con giacca comunista. Si dirà che ciò che conta non sono i fatti, ma gli esiti. Non è proprio così: sul corpo di un capo si costruisce una leggenda; sul cadavere di un capo si sancisce l’identità di una nazione. E, a volte, è meglio non sottilizzare sui mandanti, non perdersi in sottigliezze, per dare al mito – che per esistere ha bisogno di un morto: meglio se analizzato, a testa sotto, in tutti i suoi particolari anatomici, meglio ancora se sfigurato – una dimensione statuaria, limpida, ‘pulita’ (resa ‘pop’, ad esempio, dal film di Carlo Lizzani, Mussolini ultimo atto, con Rod Steiger/Mussolini e Franco Nero/Valerio). Dal 1994, attraverso una serie di servizi su La Notte, Luciano Garibaldi, giornalista che ha il pregio della schiettezza (e che non si finge storico), comincia a mettere in chiaro le incongruenze sulla morte di Mussolini e a comporre un libro, La pista inglese (prima edizione Ares, 2002), che ipotizza l’azione dei servizi britannici nell’omicidio del Duce. Sarebbe stato Churchill a voler eliminare l’antico collaboratore Mussolini, quindi a istigare la strategia dei partigiani. Usiamo il condizionale – il fatidico ‘carteggio Churchill-Mussolini’ è l’Atlantide di ogni contemporaneista – ma lo studio di Garibaldi possiede: dono della sintesi, dote di fonti, vis polemica. Tra i libri di Garibaldi, tra l’altro, ricordiamo Mussolini e il professore. Vita e diari di Carlo Alberto Biggini (Mursia, 1983), Vita col Duce. L’attendente di Mussolini, Pietro Carradori, racconta (Effedieffe, 2001), Operazione Walkiria. Hitler deve morire (Ares, 2008).

Partiamo dal “Colonnello Valerio”, ossia Walter Audisio: quale fu il suo ruolo effettivo nell’operazione che portò alla morte di Mussolini e di Claretta Petacci?

Il “colonnello Valerio” – che secondo i testi di storia era il ragioniere Walter Audisio, secondo “Bill” (Urbano Lazzaro, il comandante partigiano che catturò il Duce del fascismo) era Luigi Longo, numero due del PCI, ma che ancora oggi nessuno sa chi davvero fosse – giunto a Dongo nel primo pomeriggio di sabato 28 aprile 1945, annunciò sulla pubblica piazza che aveva ricevuto l’ordine dal Clnai (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia) di giustiziare sul posto “Mussolini e i ministri di Salò”, catturati dai partigiani mentre cercavano di fuggire. Non ubbidì alla lettera. Di Mussolini, avendolo trovato già morto, “fucilò” il cadavere, e quanto agli altri, non si limitò ai “ministri di Salò”, ma per far numero (e perfino il quindici gli restò stretto), fece sparare su un capitano dell’Aeronautica, un impiegato del ministero dell’Interno, un giornalista, un vecchio ex comunista e così via.

Chi ordinò l’esecuzione capitale di Mussolini?

L’ordine di fucilare Mussolini e i suoi ministri non esisteva. Il Clnai, rappresentante legittimo del Governo Bonomi nell’Italia del Nord, non aveva emesso alcuna condanna a morte, che peraltro non era di sua competenza, né tantomeno alcun ordine di esecuzione. Sandro Pertini, rappresentante del Partito Socialista all’interno del Clnai, nel discorso pronunciato alla radio alle ore 20 del 27 aprile (quindi parecchie ore dopo la notizia che Mussolini era stato catturato) e ritrasmesso alle ore 13 del giorno seguente (Mussolini era già morto), disse: «Egli dovrà essere consegnato a un Tribunale del popolo perché lo giudichi per direttissima. Egli dovrà essere e sarà giustiziato. Questo noi vogliamo, nonostante che pensiamo che per quest’uomo il plotone d’esecuzione sia troppo onore: egli meriterebbe di essere ucciso come un cane tignoso». Senza il “cane tignoso” ma con analogo riferimento alla necessità di un “tribunale” furono le dichiarazioni dei rappresentanti del Partito d’Azione Leo Valiani, della Democrazia Cristiana Achille Marazza e del Partito Liberale Giustino Arpesani. E sulla stessa lunghezza d’onda quelle di Ferruccio Parri, ancora nascosto in Svizzera, che aggiungerà: «Quanto ai fucilati sulla piazza di Dongo che “Valerio” scelse secondo criteri che ignoro, mi pare che vari di essi non meritassero, in assoluto, quella fine». In effetti, il Clnai era tenuto a osservare il Dll (Decreto legislativo luogotenenziale) n. 142 del 22 aprile 1945, che riguardava “i delitti commessi da Mussolini e dai ministri fascisti” e istituiva, per giudicarli, le CAS (Corti d’assise straordinarie). Perché il Clnai avrebbe dovuto agire illegalmente? Per ribellione al Governo del Luogotenente? Non esisteva la benché minima ragione per farlo. È che, di fronte al fatto compiuto, cioè all’avvenuta uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci a opera dei servizi britannici, previ frenetici e convulsi accordi con Roma, il Clnai fu costretto a farfugliare la ridicola rivendicazione postuma, concepita, sottoscritta e diramata alla stampa il 29 aprile. La seguente: «Il Clnai dichiara che la fucilazione di Mussolini e complici, da esso ordinata, è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro Paese ancora coperto di macerie materiali e morali», eccetera, eccetera.

Corriere della Sera, 9 febbraio 1994: si rendono note le scoperte di Luciano Garibaldi in merito alla morte di Mussolini

Torniamo al “colonnello Valerio”: quali sono i particolari che rendono la sua figura piuttosto ombrosa dal punto di vista storico?

Per descrivere nel dettaglio le contraddizioni in cui inciampò, nei 23 anni che gli rimasero da vivere dopo quell’aprile 1945, il ragionier Walter Audisio (presentato dal PCI come il “colonnello Valerio”), non basterebbe un libro. Ma restiamo alle più eclatanti. Nel memoriale dettato a l’Unità e pubblicato dal quotidiano tra il 18 novembre e il 17 dicembre 1945, indugiava con grande enfasi sul botta e risposta avuto con Claretta, quando le negò il permesso di infilarsi le mutandine. Un episodio che fu contraddetto all’epoca da Lia De Maria, in casa della quale erano stati condotti prigionieri il Duce e la Petacci, e che rivelò come Claretta dovesse per forza già indossare quel capo intimo essendo nei giorni delle mestruazioni. Orbene, nel libro di Audisio In nome del popolo italiano, uscito postumo nel 1975 (Teti Editore), l’episodio scompare. Fanno invece capolino altre assurdità: come quella che Walter-Valerio si sarebbe rivolto insistentemente col “tu” a Mussolini, pur avendogli dato a bere di essere un fascista venuto a liberarlo. Infine, il libro si diffonde nel descrivere la viltà tremebonda di Mussolini di fronte al suo “giustiziere”, particolare smentito dagli stessi partigiani comunisti, come Michele Moretti “Pietro”, e Aldo Lampredi “Guido”. Il 23 gennaio 1996 l’Unità pubblica la relazione sui fatti scritta da Aldo Lampredi, “Guido”, funzionario del PCI, e da lui consegnata nel 1975 all’onorevole Armando Cossutta. Dalla relazione si evince che Mussolini, al momento di morire, non sbavò (versione Audisio), né tuonò “Viva l’Italia!” (versione Moretti), ma gridò: “Mirate al petto!”. Inspiegabile e senza ragione questo postumo riconoscimento dell’organo ufficiale comunista reso a un uomo (Mussolini) demonizzato per oltre mezzo secolo, da parte di una persona (Lampredi), che tutto fino a quel momento lasciava intendere non fosse stata neppure presente alla morte del Duce. Sta di fatto che tale significativa dichiarazione fu estratta da un cassetto dopo ventuno anni, nel bel mezzo dell’infuriare delle polemiche sulla “pista inglese” avanzata dal sottoscritto (e avvalorata dalle dichiarazioni del professor Renzo De Felice) e sulle incongruenze della “vulgata” comunista. Il verbale dell’autopsia del Duce redatto dal professor Caio Mario Cattabeni rileva che nello stomaco di Mussolini non v’era alcuna presenza di cibo. Al contrario di quanto affermato sia da Walter Audisio, sia dalla Lia De Maria, secondo cui il prigioniero avrebbe mangiato, a mezzogiorno del 28 aprile, latte, polenta, pane, salame e frutta. Questo particolare avvalora l’ipotesi che Mussolini non poté consumare quel pranzo, perché a quell’ora era già morto.

Quali prove esistono per avvalorare la tesi della fucilazione di Mussolini e Claretta avvenuta nella mattinata del 28 aprile, e non nel pomeriggio?

Esiste un lungo studio (una copia del quale, ben trecento pagine, da decenni in mio possesso) redatto dal compianto professor Aldo Alessiani, per 40 anni consulente medico legale del Tribunale di Roma, da cui – in base a osservazioni sulla traiettoria dei proiettili e sulla rigidità cadaverica al momento dell’autopsia – si evince che la morte di Mussolini non può che risalire al mattino del 28 aprile e i colpi non possono essere stati sparati che dall’alto verso il basso e non dal basso verso l’alto, come invece sarebbe accaduto qualora la fucilazione fosse avvenuta dinanzi al cancello di Villa Belmonte. Peraltro vi sono due domande alle quali la “vulgata” (definizione di Renzo De Felice) non ha mai saputo rispondere: Perché l’esecuzione dei “quindici” a Dongo fu consumata coram populo, mentre quella di Mussolini e della Petacci avvenne segretamente? E perché, nel secondo caso, tutti gli abitanti della zona furono mandati via e nessuno poté assistervi? Il PCI e il CVL non lo hanno mai spiegato.

Che credito ha la sua ipotesi? Non tutti la pensano come lei…

Mi limito a ricordare i più importanti scritti che confutano la “vulgata” tuttora – a 75 anni dai fatti – insegnata ai ragazzi delle nostre scuole. In primo luogo collocherei un autorevolissimo esponente della Resistenza, Urbano Lazzaro “Bill”, vicecomandante della 52.a Brigata Garibaldi, nonché l’uomo che catturò Mussolini, il quale, nel suo libro «Dongo, mezzo secolo di menzogne» (Mondadori, 1993) ricostruisce minuziosamente la morte di Mussolini, collocandola al mattino del 28 aprile dinanzi a casa De Maria e attribuendola non già a Walter Audisio, ma appunto al numero due del PCI, Luigi Longo, comandante in capo delle Divisioni “Garibaldi”. Nel testo ormai “classico” di Franco Bandini Vita e morte segreta di Mussolini (Mondadori, 1978) per la prima volta la morte di Mussolini e della Petacci viene collocata nella mattina del 28 aprile dinanzi a casa De Maria, mentre alle 16,30, davanti al cancello di Villa Belmonte, furono “rifucilati” i due cadaveri, per accreditare la versione ufficiale nel frattempo decisa nel corso delle frenetiche telefonate tra “Valerio” e i vertici del PCI e del CVL (Comando volontari della libertà). Già nel 1950, il grande giornalista Paolo Monelli, nella sua opera storica Mussolini piccolo borghese (di cui possiedo copia regalatami da Monelli con dedica personale), sottolineava le contraddizioni che rendevano inverosimile la ricostruzione “ufficiale” della morte di Mussolini. Lo storico mantovano Alessandro Zanella, prematuramente scomparso, nel libro «L’ora di Dongo» (Rusconi, 1993), ricostruisce la fucilazione di Mussolini e della Petacci come avvenuta la mattina del 28 aprile davanti a casa De Maria, a opera del “capitano Neri” (Luigi Canali), della partigiana “Gianna” (Giuseppina Tuissi) e dei loro compagni, basando tale sua ricostruzione su un documento giudiziario coevo da lui ritrovato, in cui il fratello della partigiana “Gianna” attribuisce alla sorella e a “Neri” il merito (o la responsabilità) dell’evento. Il che può ben valere anche nel caso che i mandanti o gli esecutori materiali siano stati agenti agli ordini dei servizi britannici, come apertamente affermato da Bruno Giovanni Lonati, che dopo 50 anni di silenzio, rivela, nel suo libro «Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità» (Mursia, 1994), di essere stato lui, agli ordini dei servizi segreti britannici, ad uccidere il Duce, mentre l’inglese “capitano John” sparava a Claretta. Ma non è tutto. Anche secondo la testimonianza di Dorina Mazzola, raccolta da Giorgio Pisanò e pubblicata nel libro «Gli ultimi 95 secondi di Mussolini» (Il Saggiatore, 1996), Mussolini e la Petacci furono uccisi la mattina del 28 aprile sotto casa dei De Maria a Bonzanigo.

Luciano Garibaldi ha pubblicato “La pista inglese” con le Edizioni Ares nel 2002; il libro è costantemente in ristampa

Perché Churchill avrebbe tramato per togliere di mezzo il Duce?

Numerosi documenti pubblicati nel fondamentale libro di Ricciotti Lazzero «Il sacco d’Italia» (Mondadori, ’94) offrono ben di più di una semplice traccia sull’effettività dei contatti segreti tra Mussolini e Churchill negli anni 1944-45, dando anche un’indicazione attendibile sulla natura degli stessi. Da alcune registrazioni di telefonate e da varie lettere tra il Duce e la Petacci (lettere tutte fotografate, prima di venire consegnate ai due destinatari, dai tedeschi di guardia a Mussolini), materiale “venduto” a Lazzero dal generale Karl Wolff, comandante delle Waffen SS in Italia (che non rilasciava mai interviste senza farsi lautamente pagare), si evince come Churchill nel ’44 avesse già individuato in Stalin il pericolo più grande per l’Occidente, e premesse su Mussolini per un maggior coinvolgimento di Hitler sul fronte sovietico. Con la caduta del Reich e del fascismo, sullo sfondo degli accordi di Yalta tra Washington, Londra e Mosca, i servizi segreti britannici avrebbero avuto comprensibili motivi perché su quei contatti tra Churchill e Mussolini calasse il sipario. Questa è la sostanza del cosiddetto “carteggio Mussolini-Churchill”. Personalmente ne ebbi una definitiva conferma dall’attendente del Duce, Pietro Carradori, che mi rivelò i numerosi incontri riservati tra Mussolini e gli agenti britannici inviati dal premier di Londra. Lo scopo finale era persuadere e convincere Hitler a cessare la resistenza in Occidente per rivolgere tutte le sue forze contro l’avanzata dell’Armata Rossa verso l’Europa. Tutto raccontato nel mio libro «Vita col Duce» (Effedieffe editore, 1999). La mia ricostruzione avrà poi una clamorosa conferma nel libro di Peter Tompkins «Dalle carte segrete del Duce» (Marco Tropea editore, 2001), che sposerà senza riserve la “pista inglese”. Non dimentichiamo che Tompkins era stato, negli anni 1944-45, agente della CIA americana in Italia.

Si continua a parlare di un misterioso “carteggio Mussolini-Churchill”, che sarebbe stato sottratto al Duce al momento della sua cattura nel camion tedesco sulla strada occidentale del lago di Como, poco prima di Dongo. Carteggio requisito dai partigiani della 52.ma Brigata “Garibaldi” e da essi consegnato agli agenti di Churchill.

L’ipotesi è sicuramente verosimile e attendibile. Ma c’è di più. E si tratta della storia, tutta da ricostruire, della copia di quel carteggio, che Mussolini avrebbe consegnato all’uomo di cui si fidava al cento per cento: il suo ministro dell’Educazione Nazionale Carlo Alberto Biggini. Me ne sono occupato a lungo nel mio libro «Mussolini e il Professore. Vita e diari di Carlo Alberto Biggini» (Mursia, 1989). La morte di Biggini, amico personale di Mussolini e depositario delle sue più riservate confidenze, resta avvolta nel mistero. Fu ricoverato in clinica a Milano, appena 43enne, all’indomani della Liberazione, per una grave forma di tumore fulminante. Ma ci sono autorevoli dichiarazioni, come quella di padre Agostino Gemelli, che smontano una tale diagnosi. Quel che è certo è che Biggini morì lontano dai congiunti e chi lo assistette negli ultimi istanti negò in seguito ogni contiguità con lui. Certamente la sua scomparsa ebbe come principale conseguenza il più totale silenzio sui documenti che il Duce gli aveva consegnato in copia poco prima della fine. Quei documenti, nelle speranze del capo del fascismo, avrebbero dovuto salvargli la vita e rendere ragione della politica italiana sul finire della guerra. Quei documenti scomparvero e non furono d’aiuto né a Mussolini né tantomeno al suo fedele ministro. Le tracce che danno per certa l’esistenza di un carteggio segreto Mussolini-Churchill, posteriore al 1940, e che passano perfino attraverso la bocca cucita dell’allora ambasciatore giapponese a Roma Shinrokuro Hidaka, conducono a quella borsa ricevuta in consegna da Biggini. E scomparsa per sempre.

*In copertina: Rod Steiger come Mussolini e Oliver Reed come Rodolfo Graziani in “Il leone del deserto” (1981)

Gruppo MAGOG