09 Agosto 2019

“Ma chissenefrega delle fake news… il giornalismo che sapeva raccontare storie è morto. Buzzati e Montanelli sono numeri 10; Brera è un genio, Parise pure, la Cederna era bravissima…”

Ma tu pensa. Anche un giornalista-giornalista come Enzo Biagi – per alcuni l’icona del mestiere – voleva fare lo scrittore. Il drammaturgo, per la precisione. Qualche anno fa, negli archivi del ‘Premio Riccione’, ho trovato tracce della sua ‘passionaccia’ in forma di pièce: Noi moriamo sotto la pioggia (con cui partecipa all’edizione del 1951) e soprattutto Giulia viene da lontano. Siamo nel 1953, Biagi ha poco più di trent’anni, il Premio nazionale Riccione per il Dramma è suo, in uno sfolgorio di applausi. Una carriera pare avviarsi ma lui, proprio quell’anno, accetta di dirigere “Epoca”: con cinica felicità, penso, dimenticherà le mire e le foghe shakespeariane nel cassetto. Voglio dire: fare il giornalista (anche il giornalista-giornalista), nell’epoca in cui i giornali esistevano (cioè: vendevano), significava avere in dote lo ‘stile’, il graffio, la tempra, l’uncino narrativo. E Biagi – pur giornalista-giornalista – l’acuto drammaturgico l’ha sempre avuto. Basta leggere l’attacco del ‘pezzo’ firmato il 26 luglio 1976 sul Corriere della Sera: “Ha appena cessato di piovere. I camion dei carabinieri si muovono lenti nel fango. Il geometra del Comune tiene in mano la carta, segnata con righe rosse, o righe blu: zona A e zona B, c’è scritto”. Frasi brevi, decise, ciascuna è un fotogramma autonomo. Tutto l’opposto dello scrittore-giornalista (ma simili didascalie sono una idiozia dacché la ‘notizia’ esiste non perché la scrivi, ma per come la scrivi) Goffredo Parise, che sullo stesso foglio, il 17 maggio 1970 firma un reportage dall’Indocina, scritto con indole tolsojana: “In basso, dentro gole che serpeggiano nel fondo della valle, si intuiscono lenti corsi d’acqua che improvvisamente si aprono alla vista in larghe anse stagnanti e nebbiose di zanzare. Quando la foresta, di colore uniforme e come polveroso, si squarcia, allora appaiono illuminate valli ricoperte dalla peluria verde e tenera delle piantine di riso. Cerco gli abitanti e solo a stento riesco a distinguere sui pendii terrosi le case su palafitte, color terra, delle tribù dei Meo e dei Muong” (d’altronde, diceva Zanzotto, “Il Parise giornalista aveva un’incredibile audacia e una capacità speciale per ficcarsi nei pasticci e finire nei posti più tremendi e anche quando sciava prendeva sempre le piste nere”). Così, nell’antologia di testi memorabili che raccontano la mostra sull’“Epoca d’oro del giornalismo italiano (1950-1990)”, Piccoli tasti, grandi firme, in atto a Ivrea, Muso Civico ‘Garda’, fino a fine anno (cura, con genio, Luigi Mascheroni; stampa, con pregio, La Nave di Teseo), si batte il muso contro il talento quadrato di Giorgio Bocca (reportage da Vigevano, 14 gennaio 1962, Il Giorno, titolo tonante, “Mille fabbriche, nessuna libreria”), che inizia così, “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste”, e quello, da flûte – o da ciliegina nel maraschino – della Cederna che anatomizza le mode ‘sociali’ (26 agosto 1962, L’Espresso: “‘Mi sono fatto il cecáp, tu non ti fai il cecáp?, sto andando a farmi fare il cecáp’. È una parola di moda, è una cosa importata dall’America e praticata dai previdenti, va bene farla due volte all’anno. Seguiamo dunque la signora un po’ pallida che alle nove del mattino esce per compiere questo rito, senza nemmeno aver bevuto il caffè, e non chiediamole cos’ha dentro le due bottigliette ben tappate e ben incartate che porta nella borsa, con due etichette diverse a seconda dell’ora”). Il ‘pezzo’ più spassoso è quello di Mario Soldati che mette al muro Ingmar Bergman, denudandolo – o meglio, facendo scempio delle mode blasé del tempo (es., dire che Bergman è perennemente geniale): “Ho preso allora il coraggio a due mani e sono andato a vedere Sussurri e grida. Di nuovo la serie delle mie impressioni fu la stessa: ammirazione, noia, disgusto, finale perplessità” (da La Stampa, 23 novembre 1973). Poi, certo, c’è la Fallaci, in una micidiale intervista a Lech Walesa (pubblica il ‘Corrierone’, 7 marzo 1981; domanda da teatro elisabettiano, “Lech, cosa significa essere un leader?”, risposta tonda: “Significa avere determinazione, essere decisi dentro e fuori, cioè con sé stessi e con gli altri. Io sono sempre stato così, anche da ragazzo quando ero un povero campagnolo e volevo diventare aviatore. Sono sempre stato il capobanda come il caprone che guida il gregge, come il bove che guida la mandria”). C’è il magnetismo di Pasolini, che il primo febbraio del 1975, sempre sul Corriere della Sera, va a pugnalare “il regime democristiano”, con concetti gridati, “La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta”. L’articolo indimenticabile, però, lo firma Gianni Brera, è il ‘coccodrillo’ a Giuseppe Meazza, su Il Giornale, il 24 agosto 1979. Incipit che è un cammeo flaubertiano (“È morto a Lissone Peppìn Meazza. Se n’è andato in silenzio, vergognoso di morire come si dice dei gatti, alla cui specie sorniona apparteneva. Era da tempo malato. Un chirurgo amico, Minolo Pizzagalli, gli aveva dovuto asportare mezzo pancreas e mal volentieri parlava, poi, della sua sorte più o meno vicina”), chiusa fatalmente omerica: “avendo io a lungo delirato per lui, mi dico oggi che gli eroi quelli veri, andrebbero per tempo rapiti in cielo, così come usava una volta, che non debbano restare fra noi a morire accorati e offesi della loro ingiustissima sorte”. Si dice che Montanelli vibrò di commozione, mentre Brera gli leggeva il pezzo al telefono. Me lo dice Mascheroni (firma de Il Giornale, bibliomane aguzzo, arguto curatore per Aragno, di una collana editoriale, ‘Ante Litteram’, dedicata “ai grandi scrittori del Novecento italiano che hanno frequentato letteratura e giornalismo”), con cui starei ore a discutere di libri e di come il giornalismo, fino all’altroieri, foraggiasse – economicamente, certo, ma soprattutto nel tripudio di ispirazioni, nel trionfo degli esperimenti verbali – i grandi scrittori, perfino i poeti. “Fu un’epoca, soprattutto, che credeva nell’informazione certo, ma anche nella narrazione, forte di quell’antica abitudine che è il piacere di raccontare (e leggere) le storie, e soprattutto le storie ben scritte, che sono da sempre l’anima del giornalismo. Autori attenti al “chi”, “cosa”, “quando”, “dove” e “perché”; ma anche al come, alla forma, all’eleganza, alla ricercatezza e alla cura della parola, della lingua, della frase”, scrive lui, nel testo che funge da catalogo alla mostra, ma che è di fatto un libro (con gli studi di Franco Contorbia, Sara Calderoni, Giuseppe Lupo, Stefano Salis, Vittorio Macioce, Tony Damascelli, Mauro Gervasini), una antologia, perfino una risposta, fiorita, all’idiozia giornalistica che impera, al florilegio di notiziari che dissanguano i ‘fatti’ dalla nitidezza narrativa. Senza storie – senza miti, addirittura – però, i ‘fatti’ muoiono nel fiume del divenire e l’uomo, semplicemente, un avvenire non l’ha più. (d.b.)

Indro Montanelli fonda ‘il Giornale’ nel 1974.

‘Musealizzare’ il giornalismo? Fare una mostra sul giornalismo significa in qualche modo, perdonami, che un certo giornalismo è morto, che lo osserviamo come un fossile? Quale giornalismo è morto?

È morto il giornalismo che sapeva “raccontare storie”, cioè dare notizie scritte come fossero storie, e facendolo con un’alta qualità di scrittura, con una lingua curata, con i tempi giusti  – senza spaventarsi, come invece accadde oggi, se un pezzo supera le 70 righe – con una certa varietà di generi e di stili… Ma quel giornalismo – quello che ho provato a raccontare in mostra, il giornalismo della “macchina per scrivere”, quello che dà il suo meglio tra il gli anni Cinquanta e i Novanta, prima dell’arrivo dei computer nelle redazioni – non deve essere osservato come un fossile: la mostra non vuole essere un pianto greco davanti a qualcosa che è scomparso e non può più tornare… Ma un modo per ritrovare quella maniera di fare giornalismo e recuperare tutti i consigli e i trucchi del mestiere che possono essere ancora utili oggi per tornare a farsi leggere dal lettore.

Preciso. Un certo modo di fare giornalismo in cui l’accuratezza dello ‘stile’ assecondava la veridicità della notizia, dove raccontare un fatto significava anche immaginarlo dal punto di vista narrativo, mi pare ormai defunto. È così? Cosa è successo?

È successo che i giornali, e i giornalisti, hanno progressivamente rinunciato a raccontare il mondo, a interpretarlo e a offrire chiavi di lettura per capirlo, ma – anche per una questione di tempi, spazi e risorse (gli inviati sono sempre meno e i reportage e le inchieste scarseggiano) – spesso si limitano a “dare la notizia”. E raramente dal posto in cui succede, più spesso dalle scrivanie. Col tempo si è preferito la quantità e la velocità delle notizie rispetto alla qualità della scrittura della notizia. Si è scelto di arrivare prima invece di raccontare meglio… Gli editori alla fine risparmiano, anche se alla lunga falliscono. I direttori non sanno scegliere che strada prendere, e tutto rimane com’è. I giornalisti, anche per pigrizia, si adeguano. E i lettori smettono di comprare i quotidiani usa-e-getta… E attenzione. La famosa “verità” dei fatti c’entra nulla. Anche quei giornali erano pieni di faziosità, notizie inventate e fake news. Camilla Cederna fece dimettere un presidente della Repubblica, Giovanni Leone, sulla base di un gigantesco abbaglio ideologico. Montanelli e la Fallaci, per dire due nomi, erano bravissimi ad “abbellire” i loro reportage e le interviste. E Buzzati spesso nei suoi pezzi “sognava” più che “riferire”. Per non parlare del conflitto di interessi che sembra l’abbia inventato Berlusconi. Quando nasce il Giorno, nel 1956, gli italiani per due anni non sanno che dietro c’è l’Eni… Ma la mia risposta a tutto questo è: “Chissenefrega”. Resta il fatto che mediamente erano più belli, leggibili e creativi quei giornali dei nostri.

Ti faccio qualche domanda più frivola. Chi è (e perché) il giornalista che sapeva raccontare meglio la cronaca?

Nella cronaca mondana la Cederna era bravissima, così come è bravissima ancora oggi la Aspesi – che infatti è figlia di quel giornalismo – a raccontare eventi culturali. Per la nera, Buzzati. La cronaca tra costume, economia, lavoro e cultura, Giorgio Bocca

Qual è il giornalista che era, soprattutto, un narratore straordinario? (Non vale dire Buzzati…)

Per me Goffredo Parise: dai reportage di guerra fino ai Sillabari, che nascono come racconti brevi o “cronachette” scritte per il Corriere della sera. Poi c’è Gianni Brera, maestro assoluto, qualsiasi cosa scriva: di sport, di storia, di cibo, persino di letteratura. Poi c’è Giovanni Arpino quando racconta di sport. Il Mario Soldati che racconta il mondo del cinema… Piovene e le sue cronache di viaggio… Sono tanti, sempre in bilico tra letteratura e giornalismo

A proposito: non sarà il caso, col senno di allora, di riscattare dalle offese la didascalia ‘giornalista & scrittore’? Insomma, un giornalista, mi pare, è (era) anche ‘scrittore’. A tuo avviso cosa ha portato il giornalismo alla letteratura italiana?

Il giornalismo alla letteratura ha dato tantissimo, così come la letteratura al giornalismo. Nelle redazioni si sono formati e hanno lavorato, nascendo come giornalisti, nomi che hanno fatto la storia della nostra letteratura. Due per tutti: Montale e Buzzati. E prima di loro Malaparte, Guareschi, Longanesi… E poi pensa a Pasolini: è l’intellettuale più famoso del nostro secondo Novecento. Eppure: i suoi romanzi oggi sono letteralmente illeggibili, il teatro irrapresentabile, le poesie grondano ideologia, e le uniche che si salvano sono in friulano, quindi impossibili da capire, il suo cinema – al di forse di Teorema e del Vangelo – è inguardabile… Insomma, quale è la cosa più bella che ci rimane di Pasolini? Il suo giornalismo di impegno civile. Anche se prese molte cantonate, le Lettere luterane e gli Scritti corsari, entrambe raccolte di pezzi giornalistici, sono vera letteratura.

Lo scrittore italiano Goffredo Parise legge il reportage “Il grande silenzio del Cile” da lui scritto per il Corriere della Sera, 1973

Il ‘pezzo’, in assoluto, che ti è piaciuto di più rileggere.

Tra quelli antologizzati nel catalogo della mostra, il coccodrillo di Meazza firmato da Gianni Brera. Uscì sul Giornale. Era il 1979, agosto. Indro Montanelli era in montagna, a Cortina. Alla sera chiamò la redazione e si fece leggere al telefono il pezzo. Si dice che rimase in silenzio per tutto il tempo, e si commosse, tanta è la bellezza di quell’articolo.

Il giornalista-Maradona, il numero dieci, chi è?

Dovrei dire Montanelli. È da 10 in tutto. Editoriali, corsivi, commenti, elzeviri, pezzi di costume, di analisi politica, e soprattutto nei ritratti: imbattibile. Però non sono mai stato un montanelliano. Quindi dico Buzzati. Oltre alla scrittura, era un uomo macchina eccezionale, cosa che ad esempio Montanelli non fu. Buzzati, per dire, era un titolista fantastico.

Il giornalista, invece, che avrebbe potuto essere un Maradona ma è rimasto un classico fenomeno da metà classifica.

Beppe Viola, ma solo perché non ha avuto tutto il tempo che meritava, e perché scelse di dare tutto, o almeno troppo, allo sport. Anche lui sapeva giocare a tutto campo: cronaca, commento, ritratto, intervista, pezzo di satira, di costume… Aveva il talento dei fuoriclasse: il colpo di istinto che risolve la partita, vale a dire la metafora, o il giro di frase, che ti risolve il pezzo…

Il giornale, piuttosto, a tuo dire, più audace, colto, intelligente. 

Sono tanti in quegli anni, tutti diversissimi tra loro. Ne cito qualcuno in ordine sparso. Il Candido, il settimanale umoristico di Mosca e Guareschi: dal punto di vista satirico, immenso. Il Giorno, che negli anni Cinquanta cambia il modo di fare i giornali, dal punto di vista grafico e della gerarchia delle notizie, e diventa un modello. La Notte di Nutrizio: da lì sono usciti tutti i migliori. Il quotidiano il Manifesto, che nasce nel 1971, e a suo modo fu una rivoluzione. Il Giornale e la Repubblica per la battaglia delle idee che combattono negli anni Settanta su fronti contrapposti… E poi cito due “inserti” che arrivano proprio alla fine del periodo d’oro su cui è incentrata la mostra – ossia quello che sarà il dorso culturale della Domenica del Sole24Ore di fatto creato da Armando Torno, e naturalmente Cuore, l’inserto satirico dell’Unità – e poi un giornale che cronologicamente supera l’ambito della mostra: L’Italia settimanale di Marcello Veneziani e poi di Pietrangelo Buttafuoco… Come vedi, non sopporto i giornali che vogliono essere “terzi”, la menata dei fatti separati dalle opinioni, e l’obiettività della stampa… No, grazie. Io voglio giornali che prendano posizioni forti, di parte, in modo esplicito certo, e che mi facciano vedere il mondo da un punto di vista preciso, magari parziale, ma preciso. La visione a 360°, nel giornalismo, non esiste. Il panorama totale te lo ricostruisci tu mettendo insieme tutte le visioni parziali.

Piccola profezia sul futuro del giornalismo e sull’evoluzione del giornalista (d’altronde, una mostra serve a seminare futuro). 

Il quotidiano di carta – in Italia, non così nel resto del mondo – è morto, già da qualche anno. Qualcuno galleggia ancora, stancamente. Ne resterà uno solo: in Italia non c’è spazio per più di un quotidiano generalista, vista la nicchia sempre più ristretta di lettori. Poi possono sopravvivere ancora dei fogli corsari, uno nell’area della cosiddetta sinistra e uno in quella conservatrice, ma devono essere dimensionati ad hoc: redazioni snellissime, costi contenuti, foliazione ridotta e una linea editoriale super precisa, molto targhettizzata, con scelte chiarissime: no alla cronaca generalista, no alle pagine “leggere”, no a tutto ciò che è già stato sviscerato durante il giorno dai siti; sì ad analisi, inchieste, pochi commenti ma autorevoli, grandi interviste, reportage, molta cultura (l’unica che non trovi free nella Rete), grandi storie – locali o mondiali poco importa – raccontate e scritte bene… E fuori dalla carta, per quanto riguarda l’online, in Italia Dagospia è il prodotto migliore che esista e un modello per il futuro, migliorabile certo, ma ormai un punto di riferimento: è nello stesso tempo – a costo zero…– la miglior rassegna stampa ragionata che esita (con il consenso implicito dei giornali di carta, per i quali essere “ripresi” da Dagospia è un merito, anche se forse toglie lettori) e in più aggiunge contributi propri, che spesso si rivelano scoop o comunque notizie che poi vengono riprese dai giornali di carta, anche autorevolissimi, spesso senza citare la fonte… In realtà, nessuno sa cosa succederà al giornalismo. Le uniche cose certe sono: che la strada della gratuità dell’informazione non è più praticabile, e che la sfida la vincerà chi alzerà l’asticella non chi la sta abbassando. Il lettore è disposto a comprarti – in edicola o con un abbonamento digitale – se gli dai qualcosa che vale, non i gattini, le pagine green, le “buone notizie”, la gastronomica chic e cazzate del genere… quello serve a tirare su pubblicità, almeno ancora per un po’. Per vendere un giornale serve altro.

*In copertina: Dino Buzzati, grande scrittore, grande giornalista

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