16 Novembre 2019

Monica Rossi, l’editor che fa vendere milioni di copie ai suoi autori, disintegra le vacue velleità degli scrittori presunti e vi spiega come funziona l’industria editoriale

Leggo quasi per caso i post di Monica Rossi, pseudonimo. Ne deduco in fretta quel che vuole che si sappia di sé: ha a che fare con una CE importante, di professione editor, o direttore di collana, o direttore editoriale. Sfarzosa villa circondata dal verde, interni di gusto, vetrate allo studio, esterni forse pacchiani, con scalinate da architettura modernista e prato all’inglese. Deve essere di ottima famiglia. Per ottima intendo ricchissima. Ha studiato al Berchet. Ma questa è una mia intuizione senza fondamento. È un uomo di straordinaria intelligenza. Ha un tumore.

Scrive con schiettezza verità sull’industria editoriale, smaschera le personalità fragili degli autori, mette alla berlina il narcisismo che rappresenta la principale fonte di reddito del settore economico in cui lavora. Leggi Monica Rossi e capisci che il mondo del libro si fonda su quell’unico fattore di produzione: l’ego smisurato degli scrittori. È uno dei modi che il sistema capitalistico si è dato per trarre profitto dall’apparire. La vicinanza dei temi “libri” e “cancro” illumina, seppur con lentezza, ciò che rileva, per lui: la morte. Leggo i sui post e vedo la morte al lavoro.

Ho la sensazione che chiunque intraprendesse l’avventura di leggere Monica Rossi andrebbe incontro inesorabilmente a un unico destino: innamorarsene. Perché avere a che fare con la morte rende tutto autentico. L’autenticità ha questo potere di attrazione: costringe chi la incontra ad affidarsi, a sprofondarci dentro, a non volere uscirne mai.

Chi si nasconde dietro la maschera di Monica Rossi? “Se ti definisci scrittore vuol dire che, in concreto, quello è il tuo lavoro. Con i proventi dei tuoi libri ci paghi l’affitto, le bollette, la spesa, la macchina, le vacanze, i vestiti, la scuola per i figli? Allora si, sei uno scrittore. Se invece con i proventi dei tuoi libri ci paghi giusto una cena, una cassapanca, una borsetta, una vacanza o un motorino allora vuol dire che sei uno che fa tutt’altro e poi scrive”

Ho avuto il dubbio, leggendo i tuoi post, che tu in realtà fossi Aldo Busi, dopo un’opera molto attenta di travestimenti. Come rispondi a quest’accusa?

Beh, che non sarebbe un’accusa. E poi che sono assai più giovane, assai più bello e assai più etero. E lui sa scrivere, io no. Detto questo, permettimi di chiarire alcune cose. Io non sono un editor, non sono un direttore di collana e men che meno un direttore editoriale. Il mio lavoro è stato (è, sarà?) un altro. Tanti anni fa, casualmente e grazie ad amici comuni, mi è capitato fra le mani il testo di un autore sconosciuto. Ho capito che sarebbe potuto diventare un successo a patto di eliminare alcune parti e di approfondirne altre. Gli ho dato dei suggerimenti pratici su quali corde toccare e su quali tacere.

Quindi sei un editor…

Una sorta di. In sintesi – non essendo coinvolto – gli ho fatto vedere le cose dalla giusta prospettiva. Io capisco (o credo di capire) cosa potrebbe interessare alla gente e nello specifico cosa vorrebbe leggere e in che modo lo vorrebbe leggere. Ha venduto milioni di copie, mi ha riconosciuto una percentuale, la simbiosi è continuata e la voce si è sparsa. Da li si sono susseguite molte altre collaborazioni.

Milioni? Dici davvero, milioni? Chi è, la Rowling? Dan Brown? Gli autori che vendono milioni di copie e pur di italiani credo, se esistono, che siano al massimo un paio. Camilleri, pace all’anima sua, e con una sfilza di libri, forse Elena Ferrante, con una saga.

E ma che pignolo! Milioni era un’iperbole. Comunque si tratta di un numero di copie significativo, sommando il totale. Volo, Giordano, Faletti, Tamaro, Saviano, Carofiglio, Ammaniti, Piperno, Baricco, Carrisi… Potrei continuare. Tu sei a casa ora? Sei in ufficio? Se ti giri e vai verso la libreria di sicuro ci troverai almeno due testi frutto di alcuni miei ragionamenti o pensieri. Riscritti in bella copia da questo o quell’autore, s’intende. In ultimo, la mia famiglia era ricchissima. Di colpo, molti anni fa, ci siamo trovati in una condizione ben peggiore della povertà. Ovvero la miseria con i debiti. Poi però mi è capitato un testo tra le mani di un autore sconosciuto.

Come sopravvivere tra umani lenti di ragionamento e dall’orizzonte ristretto? Quali strategie adotti?

Mentendo, cammuffando, indossando maschere. Ma una volta. Ora inducendo la controparte a mentire, cammuffarsi e ad indossare maschere. È un gioco: se mi accorgo che le persone con cui devo avere a che fare sono ottuse, incompetenti o poco intelligenti è l’unico modo per combattere la rottura di palle di doverci avere a che fare. Se sono brillanti, preparate e intelligenti allora zero giochini: verità assoluta senza se e senza ma.

Hai la tendenza a non fidarti di chi elimina il sesso dalla propria riflessione. Ho l’impressione poi che la tua curiosità per abitudini, atteggiamenti, gusti e scelte sessuali sia un modo per affrontare le tue proprie. Esiste un legame tra le tue fantasie sessuali e la violenza?

Il sesso – fatto, immaginato o percepito – condiziona gran parte della nostra vita, dei nostri legami e del nostro inconscio. In quell’ambito non si può mentire. Dai gusti sessuali di una persona, dalle sue fantasie e da come fa l’amore si capisce tantissimo. Oserei dire tutto. Prima c’era Lombroso e poi si è passati al linguaggio del corpo. Ora sarebbe bastevole vedere la cronologia dei siti porno visitati, la frequenza e in particolare la categoria preferita. No, le mie fantasie (e pratiche) sessuali non contemplano la violenza, il dolore e la sottomissione fisica o mentale. La complicità, la gioia e il rispetto si. Questo non vuol dire che non possano essere comunque torbide e perverse. Anzi.

Dai, osa!

Intendi confessare le mie fantasie? Che poi sono diventate realtà? Ma manco morto.

Vorrei portarti a riflettere sulla differenza che c’è tra l’editoria come industria, settore economico che ha la sua dignità, e l’amore per i libri che accomuna certi lettori. Vorrei cioè farti parlare di letteratura. Intanto, è possibile o è un inganno? E quale rapporto esiste tra i due (editoria e letteratura)?

A oggi io non ho ancora capito che cosa sia la letteratura. O meglio, che cosa s’intenda per letteratura. So che esistono dei libri belli e dei libri brutti. So che un libro bello per me può essere un libro brutto per un altro. So che entrambi abbiamo ragione. So che è sbagliato pensare di avere più ragione. L’editoria è un’industria. E fra tutte è la meno dignitosa quando in modo codardo si nasconde dietro ad una delle parole più astratte ed equivocabili: cultura.

Ecco qui sta un punto chiave, proviamo ad articolare. La sensazione che ho io è che alcuni, da una parte della barricata, abbiano piena consapevolezza che l’editoria è un’industria, tutti gli altri (carne da cannone), no. Poi ci sono i lettori consumatori che credo facciano parte della seconda categoria.

Sostituisci ‘alcuni’ con ‘molti’ e hai articolato benissimo.

Se tu dovessi scrivere un libro come “Ritratti e Paesaggi” di Andrea Caterini, quali autori tratteresti? E in che modo?

Non potrei mai perché ne verrebbe fuori un mattone da 5.000 pagine. Però, visto che in quest’intervista si parla anche di morte allora parlerei di quelli che – ahimè, ahitutti – ci sono passati ma non ne possono scrivere. Quindi direi Calvino, Buzzati, Rodari, Cerami, Levi, Cassola e Vittorini. Che tratterei con amore. E poi Pasolini, Moravia, Eco e Pratolini. Che tratterei con sospetto.

Esiste un libro che ha sconvolto la tua vita, o ribaltato il modo di vedere le cose? Quale? In che modo ha agito su di te, quali le conseguenze?

A dodici anni, quando ho scoperto che mi piacevano le signorine ma non sapevo come conquistarle “Il manuale del Playboy” di Renzo Barbieri comprato con la mia paghetta settimanale mi ha insegnato un’attitudine. Che pare una cazzata, ma così è. E poi “The Underground City” di Harold ‘Doc’ Humes, padre del mio fraterno amico Malcolm Einaudi che mi ha insegnato a non essere prevenuto. La Bibbia, che considero il miglior trattato di psicologia mai scritto. Il Mein Kampf che considero il secondo miglior trattato di psicologia mai scritto. “Walden, ovvero La vita nei boschi” di Thoreau che mi ha aperto la mente. Quasi come il saggio “Nature” di Emerson ed in particolare il capitolo “Discipline”. In ultimo, anche se non è un libro – ma sono pur sempre parole scritte su carta e grazie al cielo corredate da immagini – tra i testi che mi hanno insegnato qualcosa non potrei non citare Le Ore.

Ecco, ti prego di perdonare la mia curiosità da comare, a proposito di Malcom, che rapporto c’è tra te e la famiglia Einaudi? E cosa pensi dell’avventura di Giulio?

Malcolm è una persona intelligente, competente e divertente. E poi ha quel senso dello humor così dannatamente inglese… Parlare con lui è un piacere. Sempre. Che rapporto c’è? C’è un buon rapporto, che altro bisogna sapere? Penso che Giulio sia stato un uomo con due palle così. Non scevro da errori.

Esiste un modo per parlare della morte, per raccontarla? O meglio, dato che mi pare che ovunque, anche nei tuoi contributi più sprezzanti e caustici, di quello stai parlando, qual è per te il modo migliore per parlare della morte?

Il miglior modo per parlare della morte è essere consapevoli che nessuno può parlarne. Buio totale? Chi può dirlo. Luce bianca e angeli biondi e sorridenti che ti prendono la manina? Chi può dirlo. Reincarnazione? Come sopra. Personalmente non ho nessuna paura dell’ignoto. Anzi, affrontarlo sarà un’avventura. La sofferenza fine a se stessa, quella può far paura. Ma è anche vero che può insegnare qualcosa e aiutare a guardarsi dentro e in profondità Intimamente credo che la vita non sia che un’esperienza minima dell’esistenza. Credo. Spero. Ma anche il buio totale non sarebbe così male. D’altronde quando suona la sveglia chi non vorrebbe continuare a dormire?

Forse hai frainteso. Non intendo per morte la vita dopo una soglia uguale per tutti. Intendo la limitatezza, la temporalità, l’essere fenomeni accidentali che dunque guardano il limite e non l’assoluto. Lo vedo in te perché nelle tue parole trovo sempre il pragmatismo che potremmo tradurre in: “niente retorica, guardiamo alle cose come stanno”.

Ah! Allora il miglior modo per raccontare la morte è vivere. Che è l’esatto contrario di sopravvivere.

Sostieni che la distribuzione è uno dei principali fattori di successo (di vendite) di un libro. Con il tuo solito stile ironico e pratico, raccontaci (nei particolari) un caso di successo, un esempio di ottima distribuzione e uno di perfetta distruzione.

Un caso di successo: prendi un uomo di circa quarant’anni, sconosciuto, aggiungici un padre scrittore ben inserito nel mondo editoriale, un amico d’università che fa il critico letterario, una casa editrice autorevole, un ufficio stampa che non lascia nulla al caso e adotta tecniche evolute, la creazione a tavolino di siti e blog che osannano un libro basato sui luoghi comuni, su una città, impostato sulla semplicità e sulla banalità con interi paragrafi copiati dai film più conosciuti. Ecco come otterrai 2,3 milioni di dollari all’esordio prima ancora che il tuo libro venga pubblicato. E molti altri dopo. Marketing ad alti livelli. Chapeau. Mi riferisco a “City on fire” di Hallberg pubblicato da Knopf. Ripetibile? Complicato. E infatti ha scritto solo quel libro, quattro anni fa.

Un caso d’insuccesso: prendi un uomo di circa quarant’anni, conosciutissimo, aggiungici che è ben inserito in qualsiasi ambiente, che ha amici che occupano i posti di potere più ambiti, una casa editrice irrilevante, un ufficio stampa che adotta tecniche che Herbalife già scartava negli anni ’90, inutili post ripetuti ossessivamente su Facebook e Twitter che osannano un libro impostato sul nulla, scritto male (neanche da lui) e senza alcun filo logico. Ecco come otterrai un anticipo che per l’editore sarà un bagno di sangue ed un numero di copie vendute del tutto irrisorie. Tipo 400. Mi riferisco a “Io sono Matteo Salvini” pubblicato da Altaforte.

Mi sembra però che tu qui parli di promozione. La distribuzione che ruolo gioca?

C’è poca da dire a riguardo: in Italia un editore è anche il principale distributore. E voilà.

L’industria editoriale sembra allevare cavalli nell’epoca dell’avvento dell’automobile. Come uscirne?

Perché uscirne? Ci sono cavalli che non chiedono altro, all’inizio…Poi ci sono i muli, all’inizio e a metà… E per finire gli asini, dall’inizio alla fine e oltre… Detto per inciso: ho tre asini adorabili. Arturo, Grock e Alfonso.

Stai dicendo che l’industria editoriale serve solo alla vanità degli scrittori?

Anche. Direi che essere pubblicati serve soprattutto ad illudersi di aver affermato il proprio io. ‘Sono stato pubblicato da Mondadori’ è il sogno di tutti gli scrittori. Non capiscono, anzi, peggio, lo capiscono ma non lo vogliono sapere, che essere pubblicato da Mondadori se poi Mondadori non punta su di te è peggio di essere pubblicati da Tiziocaio Edizioni. E poi c’è la competizione: un manoscritto su mille viene pubblicato. Ecco, tu non immagini sperare di essere quell’uno quanti soldi muove.

Alcuni pionieri stanno indagando strade nuove per fare editoria. Non ne cito alcuna, pensa tu agli esempi che ti sembrano più azzeccati. Cosa ne pensi?

Non ho pregiudizi se non verso chi prende per il culo quei poveretti che pensano che scrivere un libro possa cambiar loro la vita. Peggio chi continua a farlo illudendoli che prima o poi possa capitare. Tenendo così in sospeso le loro vite. E no, purtroppo non mi riferisco all’eap (editoria a pagamento), che è il male minore.

Ma allora, cerca di svelare l’enigma: lo scrittore è un mestiere? Ultimamente ha prodotto una certa cagnara la discussione sull’identità degli scrittori. Te la faccio breve con due esempi concreti e reali: un bravo economista che è anche ottimo giardiniere, dopo aver appreso le tecniche del giardinaggio ed essersi lungamente sperimentato, si considera ancora economista. Un bravo ingegnere che ha scritto un libro, pur continuando a campare con la progettazione industriale, si considera uno scrittore. A me questa cosa infastidisce. Mi sembra uno svuotare di dignità il lavoro inteso non solo come espressione di sé e del proprio talento, ma come impegno e responsabilità. Mi sembra un abdicare alla mentalità borghese o peggio élitaria da parte dei lavoratori, come se ci si vergognasse di essere operatori dei centri per l’impiego, manager d’impresa, addetti alla sicurezza, manutentori di giardini o postini.

Non sai quante discussioni a riguardo. Su questo punto sono intransigente. Se ti definisci scrittore vuol dire che, in concreto, quello è il tuo lavoro. Con i proventi dei tuoi libri ci paghi l’affitto, le bollette, la spesa, la macchina, le vacanze, i vestiti, la scuola per i figli? Allora si, sei uno scrittore. Se invece con i proventi dei tuoi libri ci paghi giusto una cena, una cassapanca, una borsetta, una vacanza o un motorino allora vuol dire che sei uno che fa tutt’altro e poi scrive. E allora no, non puoi definirti uno scrittore. Certo, puoi ‘sentirti’ uno scrittore. Ma è molto, molto diverso. Ancora, se con i proventi dei tuoi libri ci puoi comprare giusto un’automobile ma nel contempo insegni scrittura creativa, collabori con un quotidiano, hai un blog e fai tutto ciò che è inerente all’editoria e arrivi agevolmente a fine mese, beh mi spiace, non sei comunque uno scrittore. Oppure lo sei nella misura in cui se io mi riprendo col mio telefonino mentre faccio l’amore penso di essere Rocco Siffredi.

Un giudizio allora sulla Scuola Holden e sulla Bottega di narrazione.

In entrambe ci sono docenti che fanno questo lavoro con passione e trasparenza. Per contro alcuni, pochi a dire il vero, lo fanno esclusivamente per arrivare a fine mese. Direi che c’è di peggio. Ti piace scrivere? Ti piacciono i libri? Vuoi imparare le tecniche, non il talento?  Vuoi condividere una passione comune ad altre persone? Frequentare le scuole di scrittura è una buona idea. Vuoi solo essere pubblicato? Vuoi solo scrivere un bestseller? Vuoi solo essere introdotto nell’ambiente? Frequentare le scuole di scrittura non è buona idea.

Pagare migliaia di euro solo per condividere una passione potrebbe sembrare un passatempo esclusivo e chic per hobbisti facoltosi, o figli di genitori facoltosi, con buona disponibilità della risorsa tempo. A meno che non si insinui l’illusione che possa diventare un mestiere, e allora il giudizio è ancora peggiore.

Non sta a me quantificare il prezzo di una passione, che è sana fino a quando non si trasforma in un’ossessione. E non si tratta solo di condividere una passione, perché qualcosa di concreto lo puoi imparare.

Facciamo finta che Linkiesta ti affidi una rubrica di stroncature. Nelle prossime millecinquecento battute hai lo spazio per una stroncatura fulminante.

Oh che bello. Lascio fare la critica ai libri a chi sa farla davvero. Tipo Cavalleri, Coscia, Brullo, Ottaviani. Vorrei invece criticare chi critica. Tipo quelle scrittrici che per ogni libro che hanno pubblicato hanno venduto un numero di copie così risibile da non essere bastevole a comprarci neppure un frigo. Eppure si pongono con tale saccente autorità. In verità, inevitabilmente, fanno la fine di chi per portare la pagnotta a casa non può che riciclarsi come insegnante di scrittura, blogger, critica letteraria, autrice che con tanta pomposità si definisce scrittrice, editor, ghost, correttrice di bozze, giornalista e chi più ne ha più ne metta ponendosi su un piedistallo costruito sulle conoscenze, sugli amici degli amici, sull’egocentrismo e soprattutto sulla percezione (percezione!) che da della propria competenza. Curioso: i loro libri non vendono nulla ma pretendono d’insegnare agli altri come si dovrebbe scrivere. Bella cazzata. E poi vorrei stroncare tutti quegli scrittori che utilizzano Facebook a sproposito. Di più, fossi un editore metterei nero su bianco la clausola per cui ogni autore non dovrebbe pubblicare più di un post al giorno. Hai un pensiero? Hai un’idea? Vuoi proprio dire qualcosa al mondo (virtuale)? Ecco, se proprio è più forte di te scrivi questo benedetto post alle 8 di mattina e leggi gli eventuali commenti durante il tè dalle 10:30 alle 11 o, meglio, durante quello delle 17. E il resto del tempo magari usalo per lavorare, progettare, inventare, vivere, scopare, o, ad esempio, scrivere. Se invece pensi che passare la giornata su Fb a scrivere tutto quello che ti viene in mente pensando così di farti conoscere, apprezzare e magari vendere anche i tuoi libri allora vuol dire che si, sei proprio quel cavallo di cui si parlava poco sopra. O asino. Vedi tu.

Volevo dirti che hai una piscina di pessimo gusto. E anche la scalinata è un tantino pacchiana. Il tuo rapporto con il kitsch? O anche, in chiusura, il kitsch fa vendere?

Prima del tumore ero indeciso se affittare la mia casa per i matrimoni o convertirla in un club privè di lusso: la vita nel suo momento di massima gioia e spensieratezza. In entrambi i casi il kitsch pagava. Ora la mia idea, che sta diventando realtà, è ricavare delle camere dotate di ogni comfort da offrire, insieme a molto altro, gratuitamente, a chi deve affrontare in completa solitudine la chemio, il post operazione, la morte: la vita nel suo momento di massima sofferenza e dolore. Come cambia la vita eh? Lo trovo meraviglioso. Uno scrittore (vero), nominato da me poco sopra, mi ha suggerito di riservare una camera agli scrittori che vorrebbero scrivere standosene in pace, in mezzo alla natura, in mezzo ad un bosco, con gli animali, con a disposizione una libreria infinita, in un posto stimolante. “Piuttosto la lebbra” è stata la mia risposta. Si, il kitsch ragionato fa vendere. La mia piscina, studiata, disegnata e materialmente fatta da me è stata fotografata, ammirata, descritta, copiata e portata ad esempio come espressione di buon gusto e raffinatezza. Tiè.

Simone Cerlini

Gruppo MAGOG