05 Ottobre 2019

Giocando a battaglia navale con Monica Guerritore. Ovvero: alla ricerca del “sorprendente”, lasciando che la vita ci azzanni ai fianchi, divorandoci

A un certo punto sai che bisogna vivere a torso nudo, lanciati – e che tra presenza e sparizione, tra precipizio e salvezza, in fondo, non c’è differenza.

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Vuole camminare e io l’accontento. Ma c’è altro: ci sono persone fuori scala, che sfigurano il nuovo, che sono il calco della possibilità. Con evidenza, Monica Guerritore è la sua biografia artistica, extranota – il Cechov, leggendario, con Strehler, a sedici anni, La lupa, i film con Gabriele Lavia, Non uccidere – ma soprattutto è avvenire, avventura, il passepartout dell’insolito. Non è detto, in effetti, che, scombinando i piani preposti, ci mettiamo a supporre un libro, una gita ad Avignone, una partita a carte con un mazzo di sconosciuti, sulla panchina. Magari ce ne andiamo verso Est, in surf. Più tardi, a Palazzo Buonadrata, Rimini, sala colma – perché infine adempiamo con militare precisione al compito: la diva arriva in anticipo, squalificando ogni vieto divismo – leggo un passo dal suo libro, Quel che so di lei (Longanesi, 2019). La scena è questa: 2001, la Guerritore è una Carmen che volteggia, in aria, sotto la regia di Giancarlo Sepe. Patroni Griffi la rimprovera: “Ma come? Una primadonna come te che entra volando, sospesa lassù, in penombra? In prima scena? No! No! Devi entrare dopo almeno mezz’ora, farti desiderare dal pubblico, incedere da una scala…”. Lei è laconica. “Come spiegargli che il sorprendente, se è ricerca di autenticità, è energia, vita creativa che si rinnova?”. Il sorprendente, credo, mentre cammino con Monica lungo le mura di Rimini, a predicare assalti, è questo vivere lasciando che la vita ci azzanni di lato, lasciandoci divorare.

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Più tardi, quando la sera ha impugnato Rimini, con ferma delicatezza, io e la Guerritore cantiamo Venditti nella macchina guidata da Mario Guaraldi, “Ma tutto quello che voglio, pensavo, è solamente amore ed unità per noi, che meritiamo un’altra vita…”, mi pare, o qualcosa di simile. All’ingresso del ristorante ci indicano il tavolo, “A 1”, dice il cameriere, “Affondato!”, faccio io. Monica, la diva, si diverte, “giochiamo a battaglia navale… quante portaerei hai?”. Rilancio: senti, alla prossima presentazione, al posto di parlare del libro, facciamo una grande battaglia navale con il pubblico. Ci sta.

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Prima però bisogna commisurare le mani agli occhi – questa è la sola misura dell’uomo. Le mani della Guerritore sono piccole, conoscono le giunzioni della terra, sanno afferrare. Gli occhi, invece, si gettano a capofitto: dove? Oltre all’interprete, che seduce con i tempi e le parole, con tecnica micidiale, oltre alla donna, che si diverte e rompe i canoni della fama, c’è altro. Qualcosa che non ammette alcuna domanda. L’ostia d’ombra.

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Tra le donne interpretate da Monica Guerritore ricordo Giovanna d’Arco e Teresa d’Avila. Il suo libro, è vero, si centra sul “femminicidio terribile” di Giulia Trigona, nobildonna uccisa dal suo amante nel 1911, con atrocità di sangue. Lei è il paradigma, per Monica, di donne che amano fino ad annientarsi. In altro orientamento, anche Giovanna d’Arco e Teresa d’Avila si annientano: una nel compito l’altra in Dio. In quel caso, però, annientarsi, farsi niente all’altro, in devozione, significa amplificare il sé.

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Dopo l’incontro, gita inattesa verso il Fulgor: alla festa di partito hanno invitato il Ministro Dario Franceschini. Quando vede la Guerritore, il Ministro ha un sorriso, raro, la saluta. Poi torna a fare il Ministro, s’imbuia, dice cose poco illuminanti su Art Bonus e rapporto “pubblico-privato”, pare già sgretolato dal ruolo, accerchiato dai valvassini. Dov’è la vita, la furia, la fierezza, finisci per chiederti, mentre la sera rotola, come una cesta di vipere rovesciate lungo le vie.

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Del fatidico “deputato di Nancy”, figura che ha fiocinato la nostra fantasia serale, non dirò nulla. Per strada, ci siamo divertiti a sbozzarne il carattere, come se fosse un personaggio tratto da un romanzo di Balzac.

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Amo la tensione con cui Monica Guerritore dice l’“Enigma Fallaci”, perché nell’uomo, sempre, entriamo valicandone la morte. “Interpretandola, sera dopo sera, sono stata penetrata dalla morte che l’ha avvolta durante tutta la vita: la malattia, gli aborti, i cadaveri sotto cui l’hanno ritrovata viva a Città del Messico, tutta la sua famiglia decimata dal cancro, la morte della madre. Fallaci si oppone, vivendo, scrivendo, testimoniando, strappandosi il velo davanti a Khomeyni, denunciando le torture subite dalle donne giapponesi. Si oppone al potere maschile della guerra e sfida la morte, la combatte. Ma poi è esausta. I tumori la piegano, il suo corpo è devastato, il suo viso è devastato. Si nasconde, non esce più. Io stessa sentivo su di me questa febbre nervosa su un corpo – il mio – non abbastanza esile come il suo. Ed è con il mio corpo che mi opponevo con forza alla visione che invece ha schiantato lei: davanti a quel vetro della sua casa di New York, nel 2001, dove ancora una volta la morte le si è parata davanti sotto forma di carneficina atroce”.

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“Non chiedo più permesso… Sono una donna fiera”. Alla fine, recito Monica Guerritore. Lei smorza il rigore in leggerezza, cita Woody Allen. Dice, “dobbiamo imparare ad amarci in un modo più delicato”. Prima di capire chi siamo bisogna annientarsi, forse, morte&resurrezione, leccare il niente, sapere l’anticamera dell’ombra, i confini tra carne ed esplosione. Poi sono solo applausi. (d.b.)

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