18 Marzo 2019

“Molti vivono al margine del loro destino”: le lettere (inedite) di Cristina Campo ad Alejandra Pizarnik

Quando comprendo l’entità del materiale, stampo tutto, prendo la penna, leggo, sottolineo, dall’entusiasmo le falangi diventano fasi lunari, poi api. Un libro a cui convertirsi. Non sono uno Sherlock Holmes dei libri perduti, premetto. Facendo qualche ricerca superficiale intorno alla vita e all’opera di Alejandra Pizarnik, il ‘Rimbaud argentino’ – didascalia brutale ma efficace – nata a Buenos Aires nell’esilio, da ebrei russi immigrati, suicida nel 1972, intima di Julio Cortázar, incrocio un fatto di cronaca culturale, una poesia, un nome. La cronaca culturale c’informa, ne ho già scritto, che parecchi documenti della Pizarnik, sulla cui vita aleggia il pudore e in parte il disdoro, sono stati donati dalla sorella alla Biblioteca National argentina; la poesia, nota, accoglie questo poker di versi molto belli, “C’è, nell’attesa,/ un mormorio di lillà che si rompe./ E c’è, quando arriva il giorno,/ una divisione del sole in piccoli soli neri”. Il nome è Cristina Campo, a cui quella poesia, Anelli di cenere, è dedicata. M’informo meglio. Nei primissimi anni Sessanta – nel 1962, probabilmente – la Campo e la Pizarnik si conoscono, a Parigi. La prima studia, guarda, incontra; la seconda traduce, fatica, cerca di farsi largo nel fango del mondo letterario. Nel 1962 Cristina Campo, bellezza di algida eleganza, intoccata, ha 39 anni; Alejandra ne ha 26. Sembra un incontro tra la santa e l’ossessa, due caratteri, opposti, della stessa divinità ambigua. Le due, in qualche modo ignoto, si riconoscono – e si scrivono. Come si sa, attraverso le lettere – l’opera somma della Campo, fautrice di un epistolario tra gli assoluti e rapaci della storia letteraria – Cristina sonda, denuda, immerge alla sapienza. L’epistolario, di una trentina di lettere – non ci sono pervenute quelle della Pizarnik – in francese, è stato scoperto, una decina di anni fa, da Stefanie Golisch, autrice di studi su Uwe Johnson e Ingeborg Bachmann, traduttrice verso il tedesco, tra gli altri, di Antonia Pozzi, Charles Wright e delle poesie di Cristina Campo. Leggendo i diari della Pizarnik, nell’edizione tedesca, la Golisch viene a conoscenza dei legami tra la poetessa argentina e la Campo. Il passo successivo è snidare le carte della Pizarnik, custodite alla Princeton University, da cui sbucano una trentina di lettere, alcune di formidabile bellezza. Il rapporto epistolare è censito dal gennaio del 1963 al 7 aprile 1970, concentrato per lo più, con tenace assiduità, fino al 29 gennaio del 1966. A testimonianza dell’importanza di questo legame vi sono anche una manciata di lettere di Elémire Zolla alla Pizarnik, tra il 1963 e il 1965. Il momento più alto del rapporto tra due personalità così dispari, tanto spaiate e inarrivabili, spiate dall’ispirazione costante e dal delirio della forma – “Davvero, che libro si è dissolto in tutte quelle lettere che ho spedito o non spedito a C.C.”, annota la Pizarnik nel suo diario – coincide con la morte dei genitori della Campo (tra il dicembre del 1964 e il giugno del 1965), a cui Cristina dedica la poesia più celebre, La tigre assenza – in esergo: pro patre et matre – inviata, in un biglietto dell’estate 1965 all’amica argentina, con altro dedicatario, A Alejandra Pizarnik. Dal carteggio, ancora inedito, prova di un rapporto d’elezione ustionante (“Non si può mettere uno contro l’altro l’angelo nero della notte e l’angelo bianco del giorno senza che ci sia una disfatta di entrambe le parti”, scrive Cristina nell’ottobre del 1963; “…il poeta, cioè l’aristocratico, ha la sua patria, la sua religione la sua famiglia: ce l’ha, in ogni caso: la religione della parola, la patria della lingua, la famiglia dei morti meravigliosi e severi. È sorvegliato ovunque, controllato da un seguito implacabile, da un cerimoniale più duro e più puro di quello degli imperatori di Bisanzio”, così nel gennaio del 1965), e che raggela nella meraviglia il lettore, pubblico un residuo. Non prima di aver reclamato al dialogo la Golisch, autrice di una scoperta così importante. (d.b.)

Lei è Alejandra Pizarnik (1936-1972)

Le chiedo, intanto, sommariamente, di dettagliare alcune cose. Quando e come ha scoperto il prezioso epistolario? La Campo e la Pizarnik si conoscono a Parigi nei primi anni Sessanta: in quali circostanze? Quanti anni dura l’epistolario?

Fu proprio tramite l’edizione tedesca (2007) dei diari della Pizarnik, apparsi per la prima volta in spagnolo nel 2003, che scoprii che le due scrittrici si conoscevano. Come traduttrice della Campo, questo fatto suscitò subito la mia curiosità. Dopo una breve ricerca in rete trovai la segnalazione di uno scambio di lettere tra loro due. Mi feci spedire il carteggio dalla Princeton University e immediatamente intuii i tratti di una relazione molto intensa, ma altrettanto complessa e tormentata che per un determinato periodo doveva aver occupato uno spazio assai importante nella vita di entrambe le poetesse. Infatti, nei diari di Alejandra, i quali più che avvenimenti reali contengono riflessioni sul proprio stato d’animo, si trovano abbastanza spesso commenti riguardanti la sua relazione con Cristina. È naturale, però, che questi non possano compensare minimamente l’imperdonabile perdita delle lettere. Non so – e credo che non si possa sapere – in quali circostanze precise le due autrici si conobbero, probabilmente tramite comuni conoscenti in occasione di un viaggio di Cristina Campo a Parigi. L’epistolario è durato dal 1963 al 1970.

Nelle lettere, la Campo si prodiga in consigli, in suggerimenti relativi a relazioni che la Pizarnik avrebbe dovuto coltivare. È materna, e colta. Dalle frasi dei diari, che lei ha riportato, però, pare che la Pizarnik non amasse l’aristocratica freddezza della Campo, è così? Soprattutto, cosa pensava della poesia della Pizarnik la Campo (dedicataria di una poesia dell’argentina, per altro)?

Possiamo ricostruire ciò che Alejandra pensava della sua relazione con Cristina, ma non sapere con quale tono lei si rivolgesse effettivamente all’amica. E questo fa una grande differenza. Io intuisco – anche dal tono delle riposte della Campo che rimane sempre molto pacato – che Alejandra non si era lasciata andare come lo fa nei diari, dove si sfoga e rimprovera alla Campo, appunto, di essere fredda, non umana, una specie di cervello su due gambe. Bisogna considerare, credo, che si trattava di un vero e proprio innamoramento reciproco, destinato quindi a seguire tutte le tappe: dall’entusiasmo iniziale, l’illusione di aver davvero trovato l’anima gemella, fino all’inevitabile delusione nello scoprire la diversità dell’altro, la separatezza definitiva, la solitudine ultima. Sicuramente la Campo stimava la poesia della Pizarnik, ma credo che la spaventassero anche.  Comprende i tormenti dell’altra, ma non li tollera, così come non li può tollerare in se stessa. E assume un atteggiamento quasi materna, è vero, lo stesso atteggiamento, direi, che assume anche davanti a se stessa e che deve combattere.

Nella sua esegesi, lei afferma che la Pizarnik raffigura il caos della vita e la Campo la ricerca dell’armonia, una è la rottura con i tradizionalisti l’altra una geniale interprete della tradizione. Sembrano gemelle opposte. Cosa le accomuna, allora?

Sicuramente l’intensità del vivere. L’altissimo grado di sensibilità e la ricerca di un assoluto. E non solo ogni tanto o solo nella scrittura, ma in ogni singolo istante della vita. E quindi l’enorme fatica di vivere. La stanchezza. La disperazione. Diceva la scrittrice Ivonne Bordelois, una amica di Alejandra Pizarnik, sul suo rapporto con Cristina Campo, che si davano a vicenda ciò che nessun’altro riusciva dare loro. In Cristina e Alejandra si incontrano due antipodi sui generis che nella massima diversità dell’interlocutrice riconoscono una parte fondamentale del proprio essere. Cristina in Alejandra, la sua fisicità repressa, Alejandra in Cristina la sua spiritualità sommersa. Sembrerebbe uno di quegli incontri necessari che si fanno nella vita, bellissimi, dolorosissimi, ma senza i quali è impossibile diventare ciò che si è – per dirlo con un motto antico. Cristina Campo e Alejandra Pizarnik si sfiorano soltanto, poi, come delle comete smarrite, tornano nella propria orbita, per andare laddove devono andare.

In che contesto, nella vita di entrambe, si colloca questo scambio di lettere? A suo avviso si può parlare, nell’opera dell’una e dell’altra, di una reciproca influenza, per quanto parziale? 

Vorrei insistere su questo concetto: quando Cristina e Alejandra si conoscono, si conoscono già. Per quanto apparentemente diverse se non opposte, c’è qualche cosa che le accomuna e cioè l’ossessione del proprio io. Delle sue ferite e delle sue potenzialità. La convinzione che tutta la bellezza della vita si gioca dentro ogni singolo essere umano. Cristina Campo, la raffinata scrittrice e studiosa, molto discreta con la sua vita volutamente appartata, la sua naturale eleganza di altri tempi, che disprezzava i cosiddetti circoli letterari, dicendo di se stessa  di aver scritto poco e di aver voluto scrivere ancora meno e Alejandra Pizarnik, l’eterna ragazza dai tratti geniali, psichicamente labile che si compiaceva nel ruolo di uno sfrenato Rimbaud al femminile e che voleva fare del suo corpo il corpo della poesia. Sostiene George Bataille che quando due persone s’innamorano, sono le loro ferite che s’innamorano. Il compimento dell’amore sarebbe dunque il momento del massimo dolore: quando le due ferite si posano una sopra l’altra. Probabilmente ciò che Alejandra e Cristina avvertono istintivamente una nell’altra è la radicalità con cui la vita si misura in loro secondo i gradi d’intensità. Sotto la soglia della massima intensificazione di ogni attimo, nulla vale. Ciò che conta non sono tanto i mezzi della ricerca – abbandono incondizionato ai piaceri del mondo o elevazione spirituale – quanto il bisogno di bruciare vivi. Cristina Campo sublimerà la sua natura seguendo l’ideale della perfezione – a tutti i livelli –, per Alejandra significa: resistere giorno per giorno nella spietata battaglia tra l’io e il mondo. Perché soltanto a chi non diserta e non si risparmia, a chi si espone coraggiosamente alle sfide mortali che la vita gli lancia, sarà concesso di formulare – per dirlo con un’espressione di Ingeborg Bachmann – wahre Sätze, frasi vere.

Ultima. Della Campo è stata setacciata parte cospicua dell’epistolario. Oltre alle celebri “Lettere a Mita”, all’epistolario sontuoso con Alessandro Spina, sono state pubblicate le lettere a Remo Fasani, a Gianfranco Draghi, a Leone Traverso. Sembra strano che il rapporto con la massima poetessa argentina del secondo Novecento non abbia ancora avuto una eco editoriale: come lo spiega?

Il libro è pronto per chi lo voglia leggere! Non è stato ancora pubblicato perché la portavoce degli eredi di Cristina Campo mi ha vietato – per motivi a me inspiegabili – la pubblicazione.

***

Domenica, [fine] 1965 

Mia cara Alejandra,

la morte che svela il proprio volto – e la scoperta della propria appartenenza: credo che siano due avvenimenti della stessa natura che si manifestano volentieri assieme. Il male non è nell’innocenza che ignora questo fatto, ma nella letteratura volgare che il mondo pone come uno schermo tra l’innocenza e la sua lacerazione definitiva, inevitabile e giusta. E così succede che molti vivano tutta la loro vita al margine del loro destino. Questa gente parla della morte, dell’appartenenza e di tutti gli altri misteri come di esperienze: parola satanica che impedisce ogni iniziazione… Li sfugga. Stia lontana da loro. La sua innocenza non chiede altro che trasformarsi in coscienza. Lei sa meglio di me che l’infanzia non si ritrova che in fondo al cerchio: è perduta ogni volta che ci si volta verso di essa, come Euridice. Essa non vuole altro che ritornare, da se stessa, incontro a noi. Mi perdoni se sentenzio e predico – e abbastanza caoticamente per giunta. So che Lei sa leggere altrettanto velocemente quanto io sappia scrivere. Credo d’altronde di avere già risposto, senza saperlo, alla Sua lettera angosciata. Le parlavo, nella mia ultima, della Sua tradizione: ed è proprio questo che si è manifestato al Suo spirito sotto la maschera della paura. La Sua appartenenza, come la morte stessa, non può che ridiventare tradizione, se Lei vuole che sia salvata in tutta la sua ricchezza. Non ci resta veramente che questo catecumenismo in extremis: sola distinzione assoluta di fronte alla normalità dell’orrore. Non riesco a dirLe di più. Non si può che toccare con estrema prudenza questi luoghi di salvezza, questi arbusti ardenti. Non vada, la supplico, dallo psicoanalista. Oltre che del tutto inutile, è una cosa veramente indecente, e che ostruisce tutti gli ingressi al destino col pretesto di aprirne alla libido. (Parlo con una certa ingratitudine, in quanto l’unico psicologo che abbia conosciuto fosse un bravo uomo; e sa quale fu la sua prima domanda? “A che punto è lei con la sua tradizione?” Allora non compresi questa parola centrale; compresi tuttavia che fosse un uomo raro). Le sue “assenze”, per quel che mi sembra, sono una sorta di “fuga verticale”, davanti alla volgarità. E Borges può benissimo essere volgare; le sue debolezze lo sono (dipendenza dalla madre che coltiva la sua cecità, flirts senza speranza, orrore superstizioso, veramente “da niño” per la contemplazione ecc.).

L’abbraccio, mia cara Alejandra.

Quanto al saggio, è evidente che mi piacerebbe darLe qualcosa di più recente. Ma tutti i miei nuovi saggi sono incompiuti. Quanto tempo mi darebbe, tuttavia, se la rivista si facesse? In ogni caso, grazie per il Suo gesto di benvenuto che mi commuove.

Sua Cristina

Gruppo MAGOG