30 Luglio 2020

“Volevo bene unicamente ai principi; e tanto più ne volevo ai principi uccisi o destinati alla morte”. Mishima: la neve, il vulcano, il mare

Atto III – Oltre la morte, la notte e il sangue: la neve, il vulcano e il mare

Come già detto, il Mishima di Paul Schrader (film prodotto da George Lucas e Francis Ford Coppola) mi colpì, perché aveva saputo cogliere molto e bene della personalità e dell’opera dello scrittore nipponico, ma non tutto e, a ripensarci bene, forse nemmeno abbastanza. Nel suo film del 1985 il regista americano ne ha fatto risaltare il lato ossessivo, morboso, che peraltro meglio e più direttamente si adattava alla propria poetica cinematografica e ai temi suoi più cari: la solitudine, il peccato, la colpa, la redenzione. C’è dunque nel film una forte riduzione e un lieve sviamento rispetto alla vasta gamma di tematiche e figure trattate dalla debordante produzione mishimiana.

Fondamentalmente, e in coerenza con la ricezione che della figura di Mishima e della sua opera fu prevalente nella cultura americana degli anni Sessanta e Settanta, Schrader si ispira moltissimo a Confessioni di una maschera (1949), l’esordio come romanziere che tanto clamore destò nel mondo letterario giapponese e dette notorietà pubblica al ventiquattrenne scrittore. Il racconto autobiografico svela come e quanto «l’inclinazione del mio cuore verso la Morte e la Notte e il Sangue voleva essere appagata a tutti i costi». Nelle pagine del suo esordio romanzesco si avverte il compiacimento persino un po’ kitsch di mettere a nudo ogni minimo e più recondito pensiero, ogni più sconveniente e pruriginosa pulsione che abbia avuto corso lungo i nervi, il cuore e il basso ventre di un bambino prima, di un adolescente poi. Si narra l’apprendistato esistenziale attraverso cui si educa l’istinto omosessuale di un giovane che compone pezzo per pezzo la propria identità tenendola al riparo dietro una maschera, che è costretto ad indossare al pari di chiunque altro voglia stare in società. C’è compiacimento ma anche ironia, un evidente gusto di épater le bourgeois, ma anche la confessione assolutamente sincera di alcune inclinazioni che perdureranno fino alla fine, anzi annunciano netto e chiaro l’esito fatale.

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La maschera è figura chiave in tal senso, perché al tempo stesso cela il volto e crea un doppio, ma a forza di indossarla può quasi aderirvi e diventare un tutt’uno, tanto da deformare quel volto e non sapere più distinguere cos’è maschera e cosa no. Sin da piccolo Mishima si costruisce attraverso la letteratura e l’arte, dal teatro al cinema. “La mia passione dei travestimenti si acuì quando cominciai ad andare al cinematografo. E durò segnatamente fin quando ebbi circa nove anni. […] Che cosa mi ripromettevo da quei panni muliebri? Non fu se non in epoca assai più tarda che scoprii delle speranze uguali alle mie in Eliogabalo, imperatore di Roma nel periodo del suo tramonto, quel distruttore delle sue antiche divinità, quel monarca decadente, bestiale. Il vuotatore di pozzi neri, la Pulzella d’Orlèans e l’odore di sudaticcio dei soldati formarono una sorta di preambolo alla mia vita. Tenkatsu e Cleopatra furono il secondo. Resta ancora un terzo che mi sembra opportuno riferire. Quantunque da piccoli leggessi tutte le fiabe su cui riuscivo a mettere le mani, le principesse non mi piacquero mai. Volevo bene unicamente ai principi; e tanto più ne volevo ai principi uccisi o destinati alla morte. Bastava che un giovane perisse di morte violenta perché lo amassi perdutamente. […] Mi perseguitavano tenacemente visioni di “principi trucidati”. […] D’altro canto, me la godevo a immaginarmi delle situazioni in cui io stesso morivo in battaglia oppure ero trucidato”.

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La morte violenta, data e ricevuta, persino autoinflitta, la notte e il sangue, pulsioni sadomasochistiche, eccitazioni sessuali provocate da visioni concernenti «la morte e le pozze di sangue e le carni nerborute», amplessi come Trastulli d’animali (titolo di un suo romanzo, il cui finale, si dice, fu scritto di getto in un albergo di Milano la notte di Capodanno del 1961, dopo aver assistito alla Scala ad una rappresentazione del Fidelio di Beethoven diretto da Herbert von Karajan), amplessi spesso votati all’annientamento di sé; e ancora, l’attrazione mista a repulsione per l’osceno, e sopra ogni cosa quel «senso invertito dei doveri sociali» avvertito sin da piccolo: tutto questo costituisce il fil rouge di maggior spessore e più abbacinante colore che attraversa i quattro capitoli con cui Schrader ha articolato la vita e l’opera di Mishima riassumendola in una sequenza incalzante di immagini e suoni. Ma non è ancora abbastanza. Anzi, ripeto, è persino troppo poco perché pare tutto riconducibile alla sola categoria di ciò che potremmo bollare come morboso, specie se visto dall’occhio del grande regista di Grand Rapids, città del Michigan in cui ha ricevuto una rigorosa educazione calvinista nel seminario della chiesa cristiana riformata. Quanto messo in scena da Schrader è senz’altro la parte più nota e di più immediato impatto, la porta d’ingresso all’universo mishimiano. Eppure non basta ad esaurire la sterminata galassia artistica costruita dal giapponese, un edificio di pensieri ed immagini che svetta sul pur sontuoso impero dei sensi eretto in gioventù per essere dopo vent’anni furiosamente incendiato come il tempio buddhista de Il padiglione d’oro, capolavoro del 1956. Monumento distrutto perché troppo bello per essere sopportabile alla vista della difettosità umana, che si manifesta in molti modi, compresa quella insaziabilità incessante che è stata l’afflizione che più dolorosamente ha corroso gli oscuri recessi dell’anima di Mishima. Limitarsi all’iconografia più consueta costruita attorno allo scrittore giapponese, di cui egli stesso è stato il primo artefice, finisce per etichettarlo come l’ultimo dei decadenti, una copia orientale del nostro Gabriele d’Annunzio, per alcuni meglio riuscita, per altri peggio, ma sempre e comunque copia, imitazione tardiva.

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C’è dell’altro, molto altro. Allora riavvolgiamo ancora una volta il nastro e ripartiamo dalle origini. Hiraoka Kimitake era il suo nome all’anagrafe (qui anteponiamo il cognome, secondo l’uso giapponese). Nasce a Tokio il 14 gennaio del 1925. In concomitanza dei suoi vent’anni, nell’estate del 1945, il Giappone è messo in ginocchio dai primi due bombardamenti atomici della storia dell’umanità ed infine è costretto ad arrendersi agli Stati Uniti d’America dopo quattro devastanti anni di guerra. Nell’ora della sconfitta l’imperatore Hirohito compone un haiku, tradizionale forma poetica nipponica sorta nel XVII secolo, che consta rigorosamente di tre versi e recita così: «Valoroso è il pino che non cambia colore col peso della neve».

Recentemente ritrovato, il manoscritto di cinquantasei pagine della prima opera letteraria di Mishima, Hanazakari no mori (La foresta in fiore), scritta a soli sedici anni, reca a sinistra la firma, barrata, di Hiraoka Kimitake e, accanto, compare il nome di Mishima Yukio. Si tratta di un racconto che viene pubblicato nel 1941 sulla rivista letteraria «Bungei Bunka», curata da Fumio Shimizu, professore di lettere presso il liceo Gakushūin, dove sta studiando il giovane Kimitake. Shimizu è autorevole membro della Scuola romantica (Nihon romanha). Pare proprio che, in occasione di quell’esordio letterario, sia su indicazione di Shimizu che il giovane Kimitake assuma il nome d’arte che lo renderà famoso. Un nom de plume da adottare perché ancora studente. Nasce così Yukio Mishima.

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C’è una curiosa assonanza tra l’haiku dell’imperatore e lo pseudonimo scelto dal giovanissimo Kimitake: Yukio significa “nevoso”, mentre Mishima è una città situata tra il Fuji e il mare. La neve, il vulcano e il mare. Nella poesia classica e nella più generale cultura nipponica la neve è simbolo di una bellezza pura ed effimera. Sovente negli haiku la neve è associata all’immagine dei fiori di ciliegio e la loro combinazione rimanda, a sua volta, ad una terza immagine, quella del guerriero eroico. Affiancato al fiore di ciliegio, simbolo della caducità delle cose del mondo, la neve è portatrice di un segno di purezza, quella degli intenti che animano ogni impresa eroica, e della sincerità (makoto) che la contraddistingue.

Dal canto suo, invece, il monte Fuji è un vulcano ed è la montagna più alta del Giappone, considerata una delle tre montagne sacre del Paese insieme al monte Tate e al monte Haku. Gli shintoisti considerano doveroso compiere almeno una volta nella vita un pellegrinaggio sulle sue pendici. «La vita è una danza nel cratere di un vulcano: erutterà, ma non sappiamo quando», scrive Mishima nelle sue Lezioni spirituali per giovani samurai, redatte e pubblicate tra il 1968 e il 1970. Farà presto della sua vita un’eruzione memorabile.

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Ricorrente è poi il tema del mare. A me pare che nell’estetica mishimiana esso sia sovente la metafora del delicato passaggio dall’infanzia all’età adulta. La delicatezza, la dolcezza e la tenerezza sono caratteristiche della scrittura di Mishima altrettanto inconfondibili di quelle evidenziate da Schrader e maggiormente note al grande pubblico. Su questi registri Mishima supera forse anche il suo stimato maestro, il grande Yasunari Kawabata, premio Nobel nel 1968. La sua tastiera stilistica poggia infatti su una tavola armonica molto vasta, dalla potente e prolungata risonanza, anche quando suona le note più basse e lievi. Lo dimostra il fatto di quanto sia capace di descrivere lo sbocciare della pubertà e di amori ancora casti, come possiamo leggere sia nei primi racconti giovanili contenuti nella raccolta La foresta in fiore sia in un romanzo già più maturo come La voce delle onde, del 1954, la cui trama è semplice e scorrevole ma trapuntata con tale poesia che avvince ed incanta il lettore ancora oggi come all’epoca della sua uscita, in cui diventò il maggior successo dell’editoria giapponese. Solo un altro romanzo di Mishima, Il padiglione d’oro, di due anni dopo, lo superò, detenendo poi fino agli anni Ottanta il record di vendite nel Paese del Sol Levante. A fare da sfondo al romanzo del 1954 è Uta-jima, l’isola del canto, un piccolo villaggio di pescatori che si affaccia sull’Oceano pacifico. Ascoltiamo alcune voci di queste onde:Nessuna donna che avesse visto quei seni poteva nutrire alcun dubbio. Non soltanto erano i seni d’una ragazza che non aveva mai conosciuto un uomo, ma cominciavano appena a sbocciare e lasciavano indovinare come sarebbero stati belli una volta che avessero raggiunto il pieno rigoglio. Tra due collinette che innalzavano i loro boccioli rosati, s’apriva una valle che, sebbene bruciata dal sole, non aveva ancora perduta la fresca e delicata politezza della pelle venata: una valle fragrante d’immagini d’una primavera incipiente. Lo sviluppo dei seni di Hatsue non era certo tardivo rispetto allo sviluppo delle altre parti del corpo. Tuttavia la loro rotondità manteneva ancora la compattezza dell’adolescenza, e sembravano in procinto di svegliarsi al lievissimo tocco di una piuma, alla carezza del più tenue spirar di vento”.

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Pochi altri nel Novecento hanno saputo farsi cantori dell’adolescenza, della dolorosa ed entusiasmante fuoriuscita dall’età dell’innocenza. Pochi altri hanno saputo descrivere giovani amori ancora confusi e inconsumati, nonché i loro corpi ancora brancolano implumi e appena sbozzati. Pochi altri hanno scavato così a fondo e afferrato i primi fantasmi che insorgono ad infestare l’infanzia, mai così pura e intatta come si è soliti immaginarla, perché quasi sempre intaccata da un fato poco benigno, da dèmoni congeniti o, più spesso, da adulti poco amorevoli, non sufficientemente premurosi e tanto meno adeguatamente accorti nell’interagire con i propri figli. Le sfumature della psiche femminile sono scandagliate con maestria da Mishima, anche quando non assumono le tonalità grigie o nere della tragedia, ma solo la passeggera opacità di una malinconia adolescenziale. Qui a seguire una pagina scritta da Yukio a soli diciotto anni, tratta dal racconto Diario di preghiere, sul cui sfondo si stagliano una madre e una figlia: “Mia madre venne a prendermi alla stazione insieme alla domestica. Quando i nostri sguardi si incontrarono, sul suo volto mi sembrò di scorgere un’espressione che non avevo mai visto. Quand’ero piccola ci fu un lutto tra alcuni parenti che abitavano fuori città, così mia madre fu costretta ad assentarsi per due o tre giorni lasciandomi a casa triste e sconsolata. Ma una mattina mi alzai e mi accorsi che, nonostante fosse dovuta rientrare il giorno seguente, mia madre era già tornata. Non so se per la felicità o la sorpresa le saltai addosso con incontrollabile energia e solo in quel momento la guardai in volto. Dopo solo due o tre giorni che non la vedevo, il suo viso era cambiato, mi sembrava stranamente giovane, era il viso di un’altra persona. Il fatto che fosse più gentile del solito mi rendeva timida, me la faceva sentire distante. Ero felice e triste allo stesso tempo, a tratti avevo addirittura paura, perché pensavo di trovarmi di fronte a qualcosa che poteva spegnersi da un momento all’altro. Poi la paura si faceva più forte delle altre sensazioni: “Questa madre non è quella di sempre”, pensavo. Non era per caso una volpe che aveva assunto le sue sembianze? Doveva essere proprio così. La mia vera madre era morta, oppure era stata divorata. L’essere che avevo di fronte all’indomani sarebbe svanito nel nulla. Queste fantasie per me avevano un grande fascino e mi procuravano una sofferenza che, dapprima, mi dava un sottile piacere. Ma poi a poco a poco diventavano opprimenti, e mi spingevano nella rete di un’angoscia soffocante da cui nessuno mi poteva salvare. Allora cominciavo a far moine a questa “misteriosa” madre, vedendo in lei, che era la fonte della mia sofferenza, l’unico spiraglio di salvezza. Mia madre, che non immaginava affatto cosa stesse avvenendo nella mia mente, pensava che fossero le solite moine e mi lasciava fare senza darvi troppo importanza. Il mattino successivo io ritrovavo la madre di sempre. Tra me e mia madre c’è sempre stata come una lastra di vetro, e questo mi ha fatto affezionare ancor di più a lei. Agli occhi della gente il mio appariva semplice attaccamento infantile, ma io speravo segretamente che la forza del mio amore un giorno avrebbe infranto quel vetro che nessuno vedeva”.

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È evidente da questa pagina la capacità di descrivere in contemporanea la psicologia della madre tramite le parole della figlia e quella della figlia tramite i silenzi e gli sguardi della madre. L’una è specchio all’altra, ma anche schermo, per cui talvolta riusciamo a far vedere agli altri ciò che intendiamo proiettare, e che non sempre corrisponde a quel che dentro di noi sta effettivamente accadendo. Mishima ha squadernato in decine e decine di pagine le mutevoli facce di quell’immenso caleidoscopio che è la nostra psiche.

La magia incantatrice della sua scrittura consiste nell’essere una ininterrotta poesia lirica in forma di prosa scorrevole, che mai perde, nemmeno per un attimo, in capacità narrativa e profondità di introspezione psicologica dei personaggi. La natura, poi, come nei grandi romanzieri russi, è coprotagonista costante, interviene ora timidamente a punteggiare e commentare gli stati d’animo dei protagonisti, ora si intromette prepotente fino a penetrarli, sommuovendone i desideri, acuendone i tormenti, scatenandone le passioni.

Mishima è talmente abile nel catturare le parole e le immagini più consone per descrivere questa o quella emozione, questo o quel temperamento, quel carattere, quella personalità, che precocemente sperimenta tutta l’amarezza del limite invalicabile contro cui, alla fine, comunque s’imbatte ogni scrittura, sia essa narrativa, drammaturgica o cinematografica. Sarà forse per questo che l’azione divenne sempre più impellente oggetto di culto e solo la combustione, l’incendio di sé poteva appagare in modo definitivo quella Sete d’amore (愛の渇き, Ai no kawaki), che è anche il titolo del suo secondo romanzo, uscito nel 1950. La parola kawaki significa letteralmente “la sete”, ma associato ad un senso di secchezza da terra riarsa. Quel romanzo, come la vita di Mishima, è attraversata da una cieca bramosia, da un forsennato desiderio che cerca sfondamento ma sbanda qua e là e non sfocia, se non assecondando infine una tragedia anticipata da vari segnali angoscianti. L’atmosfera di oscuri presagi che accompagna il lettore di quel romanzo riecheggia alcuni aspetti dell’esistenza di Mishima, che, vista tramite alcune sue pagine, ci appare come pregiudicata sin dall’inizio, dalla incombente sterilità di un terreno per cui si sogna infinita fertilità. (Fine Atto III)

Danilo Breschi

*Gli Atti precedenti di questa analisi nell’opera e nella vita di Mishima Yukio li potete leggere qui e qui

 

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