14 Ottobre 2019

“Il solo modernismo degno di questo nome, oggi, è il modernismo antimoderno”. Elogio di Milan Kundera: al suo cospetto il Nobel è un gioco irrilevante

Lo scorso primo aprile Milan Kundera ha compiuto novant’anni. Non è un pesce d’aprile la sua arte del romanzo, non uno scherzo né tantomeno un divertimento effimero e vanesio, per lui che sa bene come, «nel clima della tirannide, l’umorismo, come tutte le altre manifestazioni che accompagnano la libertà, viene meno» (Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano 1993, p. 22). Lo si sarebbe dovuto celebrare con tutti gli onori che si devono ad uno che passerà alla storia della letteratura mondiale, ma, si sa, la lungimiranza è dote rara tra la critica, soprattutto nostrana, troppo provinciale anche per eccesso di esterofilia mal orientata. Emerse negli anni Ottanta, lo rese celebre una simpatica ed estrosa trasmissione di Renzo Arbore e una pagina culturale de “la Repubblica” in cerca di postmoderno, ma così facendo s’inchiodò ad uno stereotipo, ad una corrente stilizzata, ad una moda passeggera uno scrittore, saggista e drammaturgo che pensa temi come l’immortalità e la natura dell’essere e del tempo.

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In generale, avremmo dovuto guardare di più alla vasta letteratura del “dissenso” antisovietico, proprio perché, andando contro un sistema imperialistico di miseria tanto materiale quanto morale e spirituale, questa letteratura andava anche oltre, non si fermava alla denuncia e alla contestazione, ma rivendicava un diritto alla vita contro una cultura della morte, la continua (ri)creazione contro una filosofia della distruzione che millantava di trar su nuovi paradisi dalle tabulae rasae di ogni tradizione, ogni uso e costume ereditati dal passato, quasi fossero infetti da irrimediabile tabe. Dal vuoto spinto escono fuori solo miasmi fetenti. E così abbiamo perso l’occasione preziosa di nutrirci della linfa proveniente da una stagione letteraria tutt’altro che monocorde, ed invece quanto mai diversificata al proprio interno, libera e plurale. La letteratura europea centro-orientale del secondo Novecento chiede ancora antologie scolastiche da diffondersi nella parte occidentale di questo continente sempre più vecchio in spirito e corpo. E dunque ancora attendo invano il premio Nobel per la letteratura a Milan Kundera, in nome di un’intera stagione di pensiero e azione culturale, di vera cultura che fu la più nobile politica praticata per buttar giù quel Muro che crollò trent’anni fa esatti. Poi, però, ci rifletto un attimo, e mi dico che non conta nulla una onorificenza del genere ad uno scrittore che, come scrisse Fernando Arrabal, di fronte al totalitarismo comunista degli anni Cinquanta e Sessanta come alle frivolezze e mollezze postmoderne e deboliste parigine di fine Novecento, «ha continuato a camminare umilmente verso l’Immortalità». Per far capire con chi abbiamo a che fare, con chi ancora condivide con noi questa vita sul Vecchio Continente, vi lascio le seguenti riflessioni che spiegano di cosa abbiamo bisogno in letteratura, e non solo, se vogliamo sperare in un futuro da europei.

Danilo Breschi

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“Bisogna essere assolutamente moderni” ha scritto Arthur Rimbaud. Sessant’anni più tardi Gombrowicz non era sicuro che si dovesse esserlo per forza. In Ferdydurke (pubblicato in Polonia nel 1938) troviamo la famiglia Giovanotti, nella quale regna la figlia, “la liceale moderna”. Quest’ultima ama follemente stare al telefono, disprezza gli autori classici; e, in presenza di un signore che è venuto a far visita alla famiglia, “si limita a guardarlo e, ficcatosi tra i denti un piccolo cacciavite che teneva nella mano destra, gli tende la sinistra con estrema disinvoltura”.

Anche la mamma è moderna: è membro del “Comitato per la protezione dei neonati”; milita contro la pena di morte e per la libertà dei costumi; “va al gabinetto con ostentazione e con passo disinvolto” per poi uscirne “più fiera di quanto non vi fosse entrata”; la modernità, man mano che invecchia, diventa per lei indispensabile in quanto unico “sostituto della giovinezza”.

Anche papà è moderno: fa di tutto per piacere alla figlia.

Gombrowicz, nel suo Ferdydurke, ha colto la svolta fondamentale che si è prodotta durante il XX secolo: fino ad allora l’umanità era divisa in due, quelli che difendevano lo status quo e quelli che volevano cambiarlo; l’accelerazione della storia, però, ha prodotto alcune conseguenze: mentre fino a quel momento l’uomo era vissuto sempre nello stesso ambiente all’interno di una società apparentemente immobile, ora, d’improvviso, egli aveva cominciato a sentire sotto i piedi la Storia come un tapis roulant: lo status quo si era messo in moto! Di colpo essere d’accordo con lo status quo significò essere d’accordo con la Storia in continuo movimento! Così, alla fine, si poté essere progressisti e conformisti, benpensanti e ribelli!

Rispondendo a Sartre e ai suoi, che lo avevano accusato di essere un reazionario, Camus pronunciò una celebre battuta a proposito di coloro “che avevano piazzato la propria poltrona nel senso della Storia”; Camus aveva visto giusto, solo che non si rendeva conto che questa preziosa poltrona era dotata di rotelle e che, già al primo tempo, tutti quanti si erano messi a spingerla in avanti: le liceali moderne, le loro mamme, i loro papà, tutti i militanti contro la pena di morte, tutti i membri del “Comitato per la protezione dei neonati” e, ovviamente, tutti gli uomini politici che mentre spingevano la poltrona si voltavano indietro, mostrando le loro facce ridenti al pubblico che li rincorreva e che a sua volta rideva sapendo bene che solo colui che si compiace di essere moderno è autenticamente moderno.

Ed è a questo punto che una certa parte degli eredi di Rimbaud ha compreso una cosa inaudita: oggi, il solo modernismo degno di questo nome è il modernismo antimoderno.

Milan Kundera

*Milan Kundera, Il modernismo antimoderno. Il testo originale è un capitolo di un manoscritto inedito pubblicato, con altri capitoli dello stesso manoscritto, in “Le Monde” del 4 luglio 2001. Traduzione di Massimo Rizzante

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