13 Gennaio 2020

“È una cosa crudele. Per non essere soli, ci incolliamo ai primi venuti che riusciamo a sopportare”. Sul romanzo di Michelle Steinbeck, onirico e crudele. Come andare su un bob, saltare e ribaltarsi

Questo di Michelle Steinbeck è decisamente un esordio coraggioso. Se volete leggere qualcosa che sovverta i vostri ordini naturali, che vi pianti davanti agli occhi paura e verità, orrore e speranza, dubbi e ostinazioni allora leggete questo libro.

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Aprite la prima pagina, è l’inizio di un romanzo normale: la Steinbeck vi sta prendendo in giro. Nel primo capitolo pensate di avere a che fare con una ragazza o una giovane donna che ritorna alla casa natale, che riapre la sua camera rimasta nello stesso modo in cui l’aveva lasciata, c’è un bambino molesto con le scarpe che si illuminano fuori dalla finestra, si arrabbia con un cespuglio, c’è una valigia pesante e impolverata che appartiene al padre, ci sono dei bambini selvaggi nella sala.

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La scrittura della Steinbeck è esattamente come stare su un bob per la neve da bambini e ruzzolare a gran velocità dalla montagna, beccare sassi e rami sotto al sedere, sobbalzare, volare in aria e poi ribaltarsi. La sensazione è quella del ribaltamento dei bambini sapendo che però ci si può rialzare. Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena (Tunué, 2019; traduzione di Hilary Basso) è un romanzo che sfonda le porte dell’onirico e del fantastico, che fa scricchiolare le nostre insicurezze, è un libro che parla di un’avventura dove però la nostra protagonista non ha affatto le caratteristiche dell’eroina superba e altissima. La protagonista è una ragazza come tante, che non ama i bambini, non vuole averne, che ha seppellito e rifiutato la sua infanzia. Cerca il padre che l’ha abbandonata, che l’ha sempre rifiutata. Lo cerca in questo viaggio fastidioso e faticoso, popolato da figure a metà tra il reale e il fantastico. Tutto assume un carattere simbolico, niente è lasciato al caso, nonostante la scrittura sembri un masso che rotola veloce e ci schiaccia.

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L’apporto psicologico del romanzo forse è la chiave giusta da provare in questa serratura stranissima. La ragazza protagonista già dalle prime pagine compie un gesto che ci spiazza, che ci disorienta: uccide quasi per sbaglio quel bambino molesto e impertinente con le scarpe che luccicavano, il primo bambino che incontriamo nel romanzo. La questione si fa subito macabra, tutto assume il valore della putrefazione, di qualcosa che comunque si trasforma e non c’è più tempo, il tempo non è più concesso. La ragazza infila il corpo del moccioso nella grande valigia del padre: vuole riportare la valigia al suo giusto proprietario. Ma cosa è il bambino ucciso, che poi morto davvero non è, trasformato in un bambolotto purulento ma allo stesso tempo ancora fastidiosamente vivo, se non i ricordi, i traumi, le paure, le indecisioni e le ossessioni che ci lasciano i nostri genitori? Quel bambino è tutto il complesso emotivo della nostra infanzia, viva e repressa, rifiutata e allo stesso tempo esposta. Nella valigia sta tutto quello che ci rifiutiamo di ammettere: è pesante, è una ossessione, la valigia deve sempre stare vicina alla ragazza, deve essere controllata, e se si muove deve essere azzittita. La valigia c’è, ma non si deve aprire. Possiamo avere le nostre ossessioni ma devo sembrare giuste, rispettabili, non devono mai venire alla luce, l’odore guasto non si deve sentire.

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I paesaggi attraversati sono surreali, sembra di stare in un quadro di Max Ernst e a volte in uno del primo periodo di Mirò, a volte pure nei giardini di Bosch. Ci sono cani alani che hanno una cattiveria umana e una ferocia animale. E poi c’è la fame: tutto questo viaggio è scandito dalla necessità biologica di mangiare, restare in forza. Ma il cibo è il primo rapporto di amore che abbiamo dalla nascita, il nutrimento ci arriva dalla madre, mangiare è amore. Ma la protagonista mangia solo quando arriva allo stremo, ha fame, ha una fame necessaria. La fame è la fame di essere amata dal padre, è il diritto al perdono, è la cura di sé, non è solo alimentazione. Lei cede alla fame solo quando si fa estrema, cede quindi all’amore solo quando tutte le difese si sono incrinate.

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Le pagine finali sono splendide, l’avventura si scioglie, i legami vecchi si ritrovano, se ne creano altri nuovi. E in questa pace apparente che è la stasi della felicità la protagonista si confessa e lo fa in un modo che ci disarma, cade improvvisamente la fiaba, l’immaginario onirico si frantuma: È una cosa crudele. Per non essere soli, ci incolliamo ai primi venuti che riusciamo a sopportare. E per dimostrare a noi stessi che possiamo farcela, ci giochiamo il tutto per tutto, tiriamo su un muro di promesse e doveri e sbarriamo ogni via che potrebbe portare qualcosa di nuovo, di eccitante. Ma così ci infiliamo in un vicolo cieco! Sono come una platessa al mercato del pesce. So di essere nel posto sbagliato; la mia vita, il mio mare è solo a pochi metri, ma non ho le energie né le gambe per tornare indietro.

Clery Celeste

Gruppo MAGOG