11 Novembre 2019

“Va oltre ogni comprensibile misura”: sulla poesia di Michelangelo, uno che scrive azzannando

Michelangelo va letto a Roma, la città animalesca, che ha il cuore di marmo e assiste, felina, ultradentata, alla desolazione dell’uomo – nelle chiese, ad esempio, moltiplicate come pozzi (perché più è alta, la basilica, più è imponente, più si dovrebbe sprofondare accedendovi), non si entra per pregare l’invisibile ma per omaggiare il visibile, che non rimanda ad altro che a Wikipedia, a una devozione turistica, non certo drammatica.

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Quando Rainer Maria Rilke deve scegliere una costellazione di poesie da tradurre, predilige, di tutta la letteratura italiana, i sonetti di Michelangelo, a cui si applica con vigorosa venerazione. Certo, qui c’è il poeta interessato a Rodin, affascinato da Cézanne, che tenta una parola che si possa ‘toccare’, che sia vivente – antico sogno alchemico del poeta. Allo stesso modo, nei sonetti appuntati a caso, nelle rovine di versi monchi, morsi, parziali, spauriti, che Michelangelo segna intorno ai disegni, come per eccesso d’ispirazione – per darsi freno o fragore –, c’è l’artista che vuole dara alla figura, alla pittura, veridicità di verbo. Come se la parola specificasse la volontà statuaria della vita.

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Poi, affascina il disordine, l’inattualità del gesto, sganciato da altro desiderio che terminare nelle ganasce di Roma. “Michelangelo non pubblicò le sue poesie. Sfumato nel 1546 un progetto di edizione, intrapreso con l’aiuto dell’amico Luigi del Riccio, non risulta che ci pensasse più, pur dedicando ancora lungo tempo e fatica a comporre versi”, scrive Ettore Barelli. Al cospetto dell’incontenibile opera artistica di Michelangelo, le poesie sembrano giochi, avventate vanità – che errore… nella poesia Michelangelo lotta contro la morte, ama, si disossa, scava se stesso: “Con tanta servitù, con tanto tedio/ e con falsi concetti e gran periglio/ dell’alma, a sculpir qui cose divine”. L’anima, per dare forma al divino, deve stare in pericolo, pericolante.

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Rilke vede per primo ciò che gli italiani appena intravedono. Ugo Foscolo tenta di recuperare alla lettura il Michelangelo poeta – “Che Michelangelo fosse disposto a poesia non è da dubitare” – intuendo che l’artista si è fatto ispirare, nel gesto, dalla poesia, quella di Dante soprattutto (“Michelangelo diceva di aver disegnate le sue figure, disposti i gruppi, date le movenze e l’espressione alle teste col poema di Dante”). Benedetto Croce non capisce le poesie del genio, le giudica coi parametri suoi, le dice piene di “improprietà, zeppe oscurità, contorsioni, durezze, che non si possono accettare”. Ciò che agli occhi del filosofo è difetto per noi, ora, è diletto, avanguardia, eccedenza. Si limitò a dire, Rilke, “costui era l’uomo che, gigantesco, al di sopra di ogni misura, dimenticò l’immensurabilità”.

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Poeta chiaroscurale, già barocco, dell’eros e della colpa, della carne e del tormento, dell’urlo e del caos, Michelangelo è più potente dei coevi, proprio perché si muove a quattro zampe nella poesia, scrive azzannando. Va adorato, con candele negli occhi, il Michelangelo tardo, ossessionato dal morire (“Che val che tanto lume altrui prometta,/ s’anzi vien morte, e senza alcun refugio/ ferma per sempre in che stato altri assale?”), che si fa diarista della corruzione (“Vivo al peccato, a me morendo vivo”), che con un gergo sigilla l’eternità di Roma, con l’altro ne vive il baratro, l’inclinazione al nulla, la liquefazione.

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L’unico ad aver compreso la poesia di Michelangelo, elevandole a canone sinistro, a baricentro di una poesia obliqua, sconfitta, vitale, ostile alla lirica consueta (quella avvinta da maestria retorica, avvitata nell’ovvio), ad esaltare la “dura, scontrosa, indignata solitudine” di quei versi, “nel loro cupo, marmoreo e sdegnoso disparte”, poesia che “attende d’essere impietosamente sverginata”, è Giovanni Testori. “La verità è che Michelangelo non intende recedere un solo attimo dal suo forsennato, implacabile corpo a corpo col corpo; il più tragico e inesorabile che la storia della poesia conosca… Probabilmente, alla resa dei conti, tutte le Rime non sono che un efferato e sublime ricatto. La bellezza è infinita, immensa, ma soprattutto è troppo; va oltre ogni comprensibile e contenibile misura; si pone come l’insopportabilità stessa; è un dato che si disfa per troppa luce”.

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Vago per Roma con le poesie di Michelangelo in tasca: la sera, al Teatro Basilica, in San Giovanni in Laterano, va in scena Bianca, una riduzione scenica di Moby Dick, per la scrittura di Gianni Guardigli e la regia di Alessandro Di Murro, con Daniela Giovanetti a fare un Ismaele di spiritato candore, quasi Peter Pan – con lei, le musiche baleniere, gitane, piene di Norina Angelini. Il teatro è magnifico: un nido di pietra, sotto la Scala Santa, quella percorsa da Gesù per accedere all’aula dove sarà interrogato da Pilato. Secondo la storia, è la madre di Costantino, Elena, ad aver portato a Roma la scala: gradinata del giudizio, altezza che porta al baratro della morte, verticale che coincide con il vuoto – si ascende discendendo. Antonio Calenda, il grande regista, mi dice che nel santuario erano custodite tre reliquie, ora custodite altrove: un pezzo della Croce, i sandali di Gesù da ragazzo, il suo prepuzio. Più tardi, dirò che per me, a Roma, la Balena Bianca e l’Estasi di Santa Teresa del Bernini, che attende di essere fiocinata, in quella bianchezza che seduce e agghiaccia – e se sotto quell’oceano di vesti non ci fosse un corpo ma un urlo? La mano della santa che pende, dal gorgoglio del marmo: forse è quello Dio, la ragione della caccia, l’assoluto dell’assalto. Michelangelo no, lui è altro – a tratti è Achab, che fustiga se stesso (“Vivo della mia morte e, se ben guardo,/ felice vivo d’infelice sorte;/ e chi viver non sa d’angoscia e morte,/ nel foco venga, ov’io mi struggo e ardo”: ovunque è corpo che ustiona, ardimento d’ardore, doratura d’angoscia). Per lo più, Michelangelo è oceano.

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In un madrigale, Michelangelo pare, scardinando le cronologie, adombrare le lettere di Kafka a Milena, “tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso”. Michelangelo scrive che la donna “tiene/ il crudel ferro dentro a la ferita./ E così morte e vita,/ contrarie, insieme in un picciol momento/ dentro a l’anima sento”. La “ferita” non è solo quella d’amore, dell’amore atteso, disatteso, discinto, scisso: è la ferita dell’anima, l’anima che è una ferita, che è “la grazia il tormento”. D’altronde, il canzoniere di Michelangelo è una confessione, una specie di altare su cui l’artista si annienta, sciancandosi con versi-sciabolate: “Dilombato, crepato, infranto e rotto…/ L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui/ di tant’opinïon, mi rec’a questo,/ povero, vecchio e servo in forz’altrui,/ ch’io son disfatto, s’i’ non muoio presto”. Il gioco d’amore, in queste poesie piene di scatti, di estasi, di guaiti, sta, anche, nel contrasto tra la figura superficiale dell’amata – la “donna altiera”, d’irraggiungibile severità –  e “l’imagine vera”: chi siamo veramente, di chi siamo davvero stampo, a cosa rimandiamo con una precisione che acceca? (d.b.)

*In copertina: un disegno preparatorio di Michelangelo per la Cappella Sistina

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