16 Dicembre 2017

Da Michelangelo a Laszlo Toth, il sedicente Messia che mutilò la “Pietà”: un racconto di Vincenzo Gambardella

Il centuplo

 

Era da molto che volevo scrivere un racconto su Michelangelo, e ora che sono nel tempo breve della pensione, forse ci riesco, con l’occhio dilatato (l’occhio sinistro, perché il destro è segnato da un buco nella retina), a cui ho sovrapposto una lente più forte, da orologiaio, per scrutare le carte del Maestro, finanche la calligrafia, l’inchiostro, e poi stampe, rotoli, pergamene, nonché le stesse riproduzioni d’arte, in volume o personali, di amici, studenti, colleghi.

Nonostante mi sia rifugiato qui da solo (in proprietà Sgrosso, sulla via di Amalfi), mi arrivano lo stesso i rimbombi di certi storici dell’arte, o meglio, personaggi televisivi; con la scusa della divulgazione si sprecano a dire quello che era degli altri, scoperta di altri, viceversa, il sottoscritto, sempre puntando, misurando quella lente al fuoco dei fatti, all’approfondimento del vero (che non è mai il vero assoluto, ma il vero di quell’atto, di quel documento), sta, per convinzione e fedeltà, all’indicazione: il reperto che spinge lontano, verso una nuova avventura filologica, ma nel solco del vero, dell’impossibile.

E tengo a dire che gli studi non bastano, ci vuole l’esperienza, l’incarnazione, ci vuole l’esperienza incarnata del vivere. Allora io arrivo a spaccare un minerale per guardarci dentro, per capire com’è fatto, e vedo che è un mondo, un libro che si apre e si mostra; ci trovi l’essenza, lo spirito intatto… Michelangelo pensava che lì si trovava già la sua statua, nella pietra, e io m’azzardo a dire che si ospita, ha principio la verità, lì davvero assoluta, che non scompare, che ha sete: la sete, desiderio ardente delle creature animate che il cielo ammira, e che vengono da quello, per talento, e aggiungo, per grazia e per amore.

Adesso devo tener conto dello scalino, basta a sognare, è un demone il sogno!

Quando Michelangelo vide la rosa di cunei che puntellava tutt’intorno il blocco di marmo della Pietà (i cunei più grandi a destra, a sinistra e in alto, formando una croce, ché era una rosa e una croce), ebbe una premonizione, pensò a Laszlo Toth, sì, lo vide attraverso i secoli che colpiva il suo capolavoro, insieme a un grido. Laszlo dava un grido al suo capolavoro, il grido che gli mancava, nel giorno della Pentecoste, il 21 maggio 1972. Infatti la sua statua stava impassibile di fronte alla violenza di quell’uomo, rassegnata, e così pure, all’origine, quei cunei che spuntavano come gli aculei dei fichidindia, diffusi da queste parti; una corona di spine appunto, stretta alla pietra, percossa dai mazzuoli, che alla fine si arrendeva piombando nella polvere, disincagliandosi dalla sua materia, e rotolando fino a un ciglio che la fermava, e lì restava in un dondolio dolcissimo, come di bambino appena nato o prossimo ad addormentarsi, ma fra la polvere, i sassi, le schegge, la minuzia, e gli stessi cunei che erano saltati e giacevano qua e là, dove capitava, o nel segno dell’impronta che si era formata intorno al blocco non ancora smussato, ma che sembrava già ferito dalla sua nascita, di corpo staccato dalla madre montagna, o madre natura, pronto a ritornarci eterno in quel ventre profondissimo, Dio e fatto uomo, di carne e di marmo, dolcissimo, impareggiabile, trasfigurato, sovrano dell’amore e della morte, della vita e dell’amore.

Ecco l’inizio del racconto su Michelangelo che voglio scrivere:

Rosa viva degli animi, è un cuneo la Pietà, e battono, battono per staccarla dalla cava, dalla parete rocciosa.

Di seguito le quindici martellate di Laszlo, che Michelangelo – sono sicuro – intese, trasformandole in parole come se parlasse per bocca sua, del vandalo:

1) Cogli la supplica per la Tua misericordia. 2) Il mazzuolo pesa cinque chili soltanto. 3) Conosco il peso del mio male. 4) I am Jesus Christ, risen from the dead! 5) Mi ero preparato le parole, ma non capivo che lì c’era un canto. 6) Hanno recuperato i cinquanta pezzi, Vergine Santa, quelli del Tuo naso, della Tua palpebra, del Tuo braccio e del Tuo gomito. 7) Mi dichiaravo Gesù e mai potevo immaginarmi la Tua protezione, Maria. 8) Perciò non ho fatto i conti con Te. 9) Quando Ti ho colpita mi sono sentito finire. 10) Io che volevo distruggere, ho capito che avvaloravo l’Eterno. 11) Io finito, io finito, Pietà di me. 12) Ora Ti riconosco, Pietoso. 13) Io scompaio. 14) Sono un frammento dei cinquanta staccatisi. 15) Dunque raccoglimi, Sublime!

E da quel punto la Pietà s’infiamma, da quella percezione infallibile arriva fino a noi! Michelangelo accompagna il blocco di marmo diretto a Roma, compie il percorso intero per seguire, assistendo a tutte le operazioni delle corde, dei lacci, delle leve, con cinghie e sollevamenti di argani, e poi giù per i primi sgarrupi e i primi sentieri, ché erano allora le vie di comunicazione da attraversare, sempre pensando, lui, alla sua pietra, che già vedeva ritratta, scolpita, dall’inizio di quel cuneo, perciò forma piramidale, forma composta, semplice, di un triangolo solcato o intersecato dalla esse del corpo disteso di Cristo; le sue gambe magnifiche e abbandonate, levigate fino all’impossibile, in modo da permettere alla luce di scivolare, di veleggiare su quelle carni preziose, quei muscoli incantati, e la sua testa di figlio rovesciata all’indietro, sul braccio di Maria, e quel braccio che penzola nel vuoto, senza sostegno, quel braccio che ha segnato i secoli dell’arte (vedi La sepoltura di Cristo, dipinta da Caravaggio, oppure La morte di Marat, di David, la versione laica del martire!).

E chissà quante volte il Maestro si è fermato a bere, penso io, lungo una via immensamente alberata, un Maestro di soli 23 anni, e quante volte avrà guardato dentro alle nuvole per interrogarsi, per scoprire la loro forma mutevole, il loro destino, che poteva essere il suo. O avrà ammirato il paesaggio scosceso tra i fiumi, il monte piantato nel mare, le cui falde sono un disegno vaporoso di torcimenti e furori, di valloni ventilati, correnti contrarie che salgono; di pieghe, fenditure profonde, simili a panneggi regali. E’ stato in uno di questi momenti che mi sono fermato anch’io, sentendo bussare alla porta. “Chi è?” grido. “Maria” mi sento rispondere, ed ho avuto un soprassalto. “Maria, chi?” chiedo di nuovo. “Maria, quella delle pulizie, signore”. E già, perché qui mi trovo in un bed and breakfast, e occorre fare le pulizie, prima o poi.

La ragazza è dolcissima, entra con le sue scarabattole e mi sorride. E’ polacca, parla e dice: “Io questo direi che meglio mandare in lavanderia”, si riferisce a certa biancheria intima che ho lasciato sul tavolo, mescolata a disegni sgorbiati di nudi fatti per passatempo, a sanguigna, guardando le donne intorno alla piscina. “Io, questo direi di no”, dico io, e lei ride, le basta poco per ridere. Polacca di Cracovia, il paese di Papa Wojtyla, dal quale ha ricevuto il battesimo, una volta, da lui in persona, dice lei. La prima volta, penso io, l’unica. “E com’è andata”, le chiedo. “Oh, lui è fantastico, lui non ti fa pesare niente dei tuoi peccati… non so, se hai dei peccati, come si dice?…”. “Già a quell’età?”, chiedo io. “Oh, sì” dice lei. “Strano!?” dico io. “Niente strano, non c’è male con lui” dice Maria. “Davvero?” dico io. “No!, cioè, sì, sì!”. “Ma che mali può avere compiuto una bambina appena nata?”, insisto. “Non lo so” dice lei, poi guarda in basso il pavimento, come se fosse lì, per terra, il male, o dappertutto. E si china per raccogliere qualcosa, che mentre si china le si vede il costume celeste da sotto il camice. “Bene” dico io, e penso che per fortuna porta il costume. “Bene, Maria” le dico, e già un po’ le voglio bene, non so perché, forse per la sua timidezza, la sua dolcezza, che si vorrebbe proteggerla, abbracciarla, per tenerla sempre con sé. “Mària – dice lei, correggendomi – noi pronunciamo Mària, ma puoi dire Maria, tu”. “Maria o Mària” ripeto io.

I comodini sono ingombri di roba, e così pure la piccola scrivania, e il tavolo, le sedie, strapieni e sovraccarichi d’accumuli di ogni tipo, tanto che mi viene da chiedere come ho fatto a raccogliere una simile quantità trasbordante in pochi giorni (trasbordante, perché tocca l’incredibile, a causa della diversità degli oggetti, davvero fuori controllo, fuori misura, da elencare per una mania incoffessabile di mettere almeno un ordine di parole nel mezzo di quella spaventosa confusione, indiscriminata fino all’inverosimile), ma davanti alla finestra aperta da cui si ammira lo spettacolo della costa, luminosa, imponente, un monumento naturale, una sola grande scultura, marchiata a fuoco dalla luce d’estate, modellata dal vento. Mentre m’accorgo che i miei pensieri incominciano a diventare curvi proprio a modo di questi monti, e orizzontali verso la linea del mare, impervi, a somiglianza delle contrade in salita, vorticosi, a imitazione della strada, incisa sui cigli.

“E te lo ricordi?”, chiedo a Maria, per continuare il discorso, per non abbandonare l’occasione di parlare con qualcuno. “Che cosa?” chiede lei. “Il tuo battesimo!”. E lei scoppia a ridere, scoppia in una risata che trattiene per un fatto di convenienza. “Ma come faccio a ricordarmi?”. “Tu c’eri, no?”. Lei capisce che scherzo, che mi sto divertendo dietro a lei, e non so come dirglielo che una gioia o felicità incomprensibile mi ha attraversato il cuore, che non so nemmeno quale natura possa avere ‘sta cosa, che forma, se non il desiderio di tentare uno scherzo, d’inventarmi un equivoco, un’ingenuità, un’avventura: io, con la giovane Maria!

Quindi cerco un angolo di spazio, in mezzo alle cianfrusaglie del mio disordine, compio un equilibrismo assurdo, in bilico su un bracciolo di poltrona, per scrivere una breve poesia che mi scaturisce imprescindibilmente dentro, una grazia che non chiede permesso, che s’intrufola e s’afferma:

 

Non posso farmi vedere

più così innamorato,

mi snerva il desiderio,

mi offusca la vista,

di te che mi laceri

e mi rendi incerto,

diviso a me da me stesso.

 

E poi, quasi in continuità con quello che ho scritto, ecco un’annotazione, che non so che cosa c’entra, e se ha a che fare con la poesia, ma certamente ce l’avrà: Michelangelo errabondo, Michelangelo viandante.

Intanto, con un orecchio solo, sento Maria che elenca varie parti del corpo: “Prima la fronte, il Papa mi ha bagnato la fronte, cioè, la testa, voglio dire che l’acqua mi è venuta giù per gli occhi e sul naso, e forse sono stata immersa interamente, io credo che sono stata immersa nell’acqua, braccia, gambe, pancia, sedere, piedi e mani, tutta nell’acqua, per grazia dello Spirito Santo”.

“E qual è la parte migliore del corpo umano, secondo te?” chiedo a Maria, che arrossisce, stringe a sé il manico della scopa, guarda in alto, si confonde, si spreme le meningi a pensare. “Le braccia – dice lei, poi si corregge -, anzi no, le spalle”. Le chiedo il motivo di questa risposta, e lei: “Perché le spalle si abbracciano, e attraverso le spalle noi possiamo essere consolati o incoraggiati o non so… rispondo perché tu mi hai chiesto”.

Le metto una mano sulla spalla, e sento quant’è tornita, quant’è forte e che premura di vita c’è in lei, in quanto lei incarna tutte le Marie della terra, a incominciare da quella scolpita da Michelangelo, che per un attimo mi sembra di abbracciare quella Maria di marmo, ma nella carne viva di Mària.

“Mària” le dico, e di slancio le racconto di Michelangelo, di quando scolpì la Pietà, e se la portò appresso per tutto il viaggio, si portò il blocco di marmo per tutto il viaggio, da Carrara alla Città Eterna, l’accompagnò fino a Roma, la Pietà, quella Pietà non ancora scolpita, scortandola sovranamente.

“Ma perché mi dici queste cose?”, chiede lei.

E scuoto la testa, le metto di nuovo una mano sulla spalla, che lei prende e mi bacia.

“Un bacio?” dico io.

“Non ti piace?” dice lei.

“Sì”.

“E allora!”.

Sale una risata dal basso della piscina.

“Ora stendete le gambe, e cercate di toccarvi la punta dei piedi… su… solletico, vero?… ma va bene farsi il solletico… va bene… vuol dire che vi state toccando… stendete il più possibile… toccate la punta dei piedi del vostro compagno… cercate di arrivare a toccarlo…”.

Altra risata.

Sento questo linguaggio inutile, queste parole inutili, che ormai ci diciamo ogni giorno e per giorni e giorni, ci diciamo parole inutili, ecco il problema. Le sento a fianco di Maria, che le riceve anche lei (ma senza ansia, o, almeno, con molta minore di me), e penso, ho la forza di pensare, in quel momento così segnato dalla futilità, che se Michelangelo ritiene la statua già presente nella pietra, se in qualche modo la statua è preesistente, allora ogni cosa ha senso, ogni piccola o grande cosa contiene, è abitata dalla verità, che è la sua anima. La verità e la sua anima: ogni cosa è assoluta, la vita è un assoluto. Noi siamo delle formiche fra le zampe di un elefante, nel centro di una immensa foresta, sperduti nell’oceano dell’aria, fra migliaia di astri infiniti, di stelle brulicanti nel cielo, a distesa, d’infiniti mondi e infiniti astri in viaggio, nella mèta di un destino senza fine.

E ora sono io che mi piego, che mi tocco le punte dei piedi, raccogliendomi nella splendida posizione dell’arco. “Fallo anche tu” dico a Maria, e lei non se lo fa ripetere due volte, d’improvviso mi prende un piede e me lo morde. “Ahò, sei matta?” le grido. “Non ti piace?” dice lei, di nuovo. “Sì – dico io -, ma un po’ di decenza ci vuole!”. “Cos’è de-cen-zia…”. “No, decenza”, dico io. “Cos’è?”, dice lei. Io scuoto le spalle. “Tu non sai mai” dice lei. “Non è vero, so un sacco di cose, e comunque non si può sapere tutto; vedi? ti do ragione… Ma tu lo sai quanti anni ho io?” le dico. “Cinquanta?” chiede lei, ridendo eccitata. “No, diciamo di più, più in là di mezzo secolo!”. “Tu hai tutti questi anni, sì?” chiede lei, con un lungo grido nella voce, che è sorpresa, e poi riso, risata che le sale su per la gola e le fa tendere il collo meravigliosamente.

“Diventiamo vecchi per via della gravità – dico io -, la forza di gravità, quasi come se la terra fosse pronta ad accoglierci, e ci attirasse a sé, capisci?”.

“Cos’è questo discorso della terra?” chiede lei, facendosi seria.

“La terra – dico io -, dove stiamo adesso”. E le faccio vedere la posizione supina del diamante, e quella della rana e quella del pesce, con le gambe piegate e le piante dei piedi incrociate in alto, contro il pube, arcuando fortemente la schiena e gettando la testa all’indietro, in modo da formare un ponte fra bacino e spalle, e dilatando tutta la cassa toracica in un respiro, che unisce il nostro respiro all’universo, al Dio infinito che ci ama. E mentre mi risollevo, dopo cinque secondi, scorgo di nuovo le mutandine di Maria, che è rimasta là immobile, e io a chiedermi come è possibile che abbia potuto creare un simile incantamento in lei.

“Senti – le dico -, domani devo andare alla festa di un famoso regista, mi annoio terribilmente ad andarci da solo, ci stai ad accompagnarmi?”.

“Dove?” dice lei, riscuotendosi dalla sua posizione, rossa in viso e nelle mani.

“A Positano” dico io.

“Io e te?… con uno che è un vecchio?… Io non credo che tu hai più di mezzo secolo, mi prendi in giro, tu!… Tu non dimostri cento anni, non ce li hai è vero?.. è vero che tu non hai più di mezzo secolo?”.

“Quasi” dico io.

***

Prendiamo un taxi e Maria è portentosa, ha indosso un jeans attillato e sopra ha messo una maglietta a colori delicati, da acquerello, su cui spiccano dei brillantini. La guardo seduta di fianco a me, nel buio che si alterna alla luce dei lampioni, e vedo che si tocca le labbra, mi fissa, mi spia dal suo posto toccandosi le labbra. Stavolta sono io a baciarla, e lei mi rovescia i suoi capelli corvini intorno al collo, che è tutto invaso da quella carezza. L’abbraccio, la prendo per le spalle e in un passaggio di luce mi appaiono i suoi occhi celesti, bagliori anche quelli, sperduti nel buio immenso e stellato.

“Chi è questo regista?” di colpo chiede lei.

“Zeffirelli, lo conosci?”.

“Davvero tu conosci Zeffirelli?, tu conosci lui?” dice Maria, ed è un canto la sua voce nella meraviglia.

Si stacca da me e mi interroga continuamente su chi sono e cosa faccio e quando e come ho conosciuto lui, e che rapporti intercorrono fra lui e me. Ma più le spiego e più mi sale alla gola (ma che dico, nel petto, mi arriva nel petto, lo avverto nel torace, e lì ristagna) una sorta di paura immotivata, ho come delle botte di panico, degli attacchi, che mentre il taxi svolta o accelera dopo una curva, mi aggrediscono l’anima, mi fermano il respiro, diffondendo una fiacchezza fenomenale per tutto il corpo. Poi non so come la scena si rasserena, cerco di non dare a vedere che sono in difficoltà e che la cosa mi preoccupa. E pensare che, prima di uscire, avevo letto The story of a panic, di Forster, che è ambientato a Ravello, e adesso mi scopro nei panni del narratore, mi sento preso da quella storia e dai personaggi, insomma dall’atmosfera, e più la scaccio da me più mi ritorna con le sue spire invisibili, suggestionandomi enormemente. Possibile che quella lettura mi abbia condizionato a tal punto? Ma si tratta proprio di panico?

La macchina ci ha scaricato vicino a un cancello sulla statale; poco lontano, stagliate nella conca, le luci di Positano, disposta nel teatro magnifico delle sue gradinate, e dei suoi giardini. Il tassista ci chiede del ritorno, e io balbetto qualcosa che non riesco nemmeno ricordare, mi mancano le parole. Maria si fa dare il numero di telefono su un biglietto da visita e poi mi corre incontro, giacché io mi sono allontanato, cercando una tregua nel buio.

“Così possiamo andarcene quando vogliamo” dice lei, che sembra felice, eccitata, direi che pare non accorgersi di me, del mio disagio, della mia angoscia. E nell’angoscia affronto gli scalini che portano giù alla villa; le cime delle palme e dei pini marittimi salgono e io discendo, discendo nella mia apprensione, finanche il vocìo della festa mi da fastidio, mi tiene sulle spine, ché provo il peso del mondo sulla mia schiena, lo sento pesante sul mio corpo, che preme e mi piega: io, diventato piccolissimo, senza misura e senza forze.

Mi viene in mente Atlante (nella mitologia: l’eroe smisurato), ma io sono meno di lui, molto meno, un minuscolo uomo, curvo e inquieto, e se quello del mito doveva fare una bella fatica a portare la volta del cielo, figuriamoci io. Intanto scendo, accostandomi alla parete, che è calda, e penso che quella parete ha la febbre, è la dimostrazione che tutto il mondo soffre di una febbre che non conosco. Sono le parole inutili che ci diremo, penso io, che dovrò ascoltare ancora una volta, le parole inutili che mi troverò a dover dire e quelle che dovrò ascoltare, le parole che ci diciamo oggi, comprese quelle dei critici d’arte. Chissà quanti ne incontrerò, il mondo è diventato pieno di critici d’arte, o di storici dell’arte, o di specialisti di non so cosa, gente che vuole sapere che cos’è l’arte, senza chiedersi prima chi è lui, anzi: chi sono loro. E nella calca degli invitati che si addensa intorno al buffet, stordita dalla musica, sebbene soffusa, e in giro per il vasto giardino, e lo spazio davanti al mare, separato dalla spiaggia che dorme nel buio, da cui proviene il fruscio delle onde (quanto l’amo, quanto l’amo!), mi appare di sfuggita l’amico Zeffirelli, saettante e in piena forma, una sagoma splendente, di capelli d’oro e denti perfetti, bianchissimi, luminosi.

“Vecchia quercia – mi fa lui -, come ti va la vita?”.

Mento: “Bene”, poi mi fermo girandomi verso Maria, in modo da spostare l’attenzione su di lei, perché io non ce la faccio, non ce la faccio proprio. Se gli altri sapessero quanto deprime lo spettacolo della loro salute, o l’esibizione tronfia del proprio star bene, se gli altri sapessero, forse si vivrebbe meglio, la vita sarebbe più umana a cominciare da questo.

Ma il regista insiste, ostenta il suo charme, rivolgendosi a Maria in varie lingue.

“E tu – dice Zeffirelli -, stai scrivendo?”.

“Come lo sai?” dico io, e un po’ mi rianimo.

Ecco l’ennesima prova che io sono un vetro trasparente, l’ho sempre pensato, fin da quando ero ragazzo, guardavo a terra e tutti si accorgevano di me, di cosa mi circolava nella testa, di ciò che avevo dentro. Sì, ma banalizzandolo, rendendo banale il mio dolore, e schiaffeggiando la mia sensibilità, come a dire che non lo sapevo di che razza d’illusione era la vita?, di quale fregatura incredibile ci si trova a vivere fra capo e collo?, con l’artrosi che già ti fa scricchiolare le ossa e il carattere malinconico che incomincia a farsi più intransigente, che diventa tutto, tutto il mondo diventa il tuo io, vale a dire: carattere maniaco depressivo, ovvero incompreso, irrealizzato, perciò frustrato, perché nessuno capisce tu chi sei, o non sei stato abbastanza capace di farti capire, di darti agli altri.

Invece sei sempre lo stesso.

Mi guardo intorno e vedo un tizio che in quanto a capigliatura non scherza, pare la caricatura del regista, con i suoi capelli ultra luminosi, vistosamente tinti, di un rosso fuoco che dà il capogiro, soprattutto perché si nota dovunque, nonostante sia di statura bassa, ma quel colore e quella vaporosità non si possono ignorare, risultano carismatici. Lui va dietro a una spilungona; anche lei con la sua acconciatura non scherza, è ossigenata, e cammina sopravanzando l’uomo, a volte ridendo, altre volte annuendo in piena comprensione di lui, dei suoi discorsi.

“Chi è quello?” chiedo io.

“Gregory Corso – dice Zeffirelli -, il poeta della beat generation, l’amico di Kerouac, di Ginsberg, non lo conosci?, fra scrittori non vi conoscete?”.

“Ma io non sono uno scrittore” dico freddo, e vorrei dire che non sono nessuno, non sono nemmeno quello che credo di essere, un presuntuoso, che crede di essere un professore, che crede di far conoscere il senso dell’arte, ovverosia della cultura, ma in realtà un illustre nessuno, che sta morendo di angoscia per la vita che se ne va, che non ha più niente da dire, dall’alto di un mezzo secolo e oltre, a sentire parole fruste, già dette e ripetute, nella gran parte pronunciate pensando che sono già state dette e di nessuna importanza.

Appena il poeta si avvicina, lasciandosi precedere dalla Barbie (una specie di rompighiaccio, che spacca e attraversa la folla gelida, cattiva, incurante di me, di noi, di tutto), ecco che il poeta prende la parola, ed è un tuono acuto la sua voce: “Alt, alt!, voglio dirvi una cosa – dice in inglese, tenendo il suo bicchiere in mano, rigorosamente di carta, e creando un cerchio di curiosi intorno a sé -… voi dovete pensare una cosa, che gli Stati Uniti sono la più bella invenzione di ogni tempo, davvero…”.

Fischi, e il poeta si compiace. Sembra di assistere a uno di quei reading in cui si leggevano versi gridando, in genere con molto alcol in corpo.

“Questo secolo – continua -, che volge alla fine, preserva molte sorprese, e l’America è diventata il mondo, il mondo!, gli Stati Uniti d’America sono la vera sorpresa di questo mondo, dunque tutto è America”.

E dondolando, biascicando, dice che anche lui ha comprato una carta di credito, un bancomat, o come diavolo si chiama, che adesso tira fuori dalla tasca mostrandola al pubblico.

“In America – dice lui – oggi va di moda questa, se non ce l’hai sei finito, sei fuori, il mondo intero finirà per pagare a questo modo, senza più monete, eccetera eccetera, e sostituendo il povero vecchio denaro con questa cosa qui, di conseguenza tutti avremo una carta, prima o poi”.

Resisto, il male mi attanaglia, sto per crollare, non pensavo di finire così, sotto i colpi di un poeta beatnick.

“La quantità di cose che ha inventato gli Stati Uniti è indescrivibile – dice lui -, dalla costituzione al computer, dalle riserve degli Indiani, all’energia atomica, e poi metteteci voi il resto, visto che di resto non ce n’è più, mi spiego?”.

Ride. A ogni pausa ho l’impressione che guardi me, che mi abbia preso di mira, che intuisca che io sono la sua preda, il capro espiatorio della cerimonia.

“Dunque mi trovavo a Manhattan – continua a dire – senza un soldo, e vado a uno di quei bancomat per prelevare il mio minuscolo gruzzolo da niente, che avevo ancora… Sante banche, dovevate avvertirmi che lì avrei incontrato il mio uomo, voglio dire: l’uomo della provvidenza”.

E lascia andare un verso che mi fa rabbrividire: giiiaaaaaaaa… Un “già” prolungato, che s’insinua nel mio cervello provocando un’inquietudine spaventosa, demoralizzante.

“Sante banche – urla -, sante, io nomino la vostra grandezza, attraverso di voi io mi ritrovo il centuplo, il centuplo di quello che avevo e che adesso non ho più, perché in un modo o nell’altro, il senso della mia vicenda è proprio questo, state a sentire”.

Dio mio, aiutami, fammi morire, io sono in balia, e ascolto poco e male la storia di questo poeta, per quanto inventata o di pura fantasia o simbolica, che m’interessa e non m’interessa, o rappresenta il confine ultimo fra il mio malessere e questo luogo, una sorta di catarsi che frulla nella mia coscienza, che sta per franare verso la conclusione.

“L’uomo – dice lui, sospendendo la voce -… del destino si avvicina a me e pretende di conoscermi, in effetti sapeva ogni cosa di me, per non dire che conosceva ogni sfumatura della mia vita, ogni particolare, ogni mia frase o verso o comportamento o emozione o o o…”.

Silenzio panico, interrotto solo da qualche brusio soffocato, ma sono io che soffoco, quindi mi aggrappo a Maria, e sudo freddo.

“Lui – di nuovo fa sfoggio della sua retorica -… è il mio biografo, mi racconta la mia vita, lui a me, e io che dovevo fare, ditemi voi che dovevo fare se non fidarmi, non era giusto fidarsi?”.

Come è lontano ora Michelangelo, i quaderni che ho scritto per lui, più di mezzo secolo tramonta dentro quelle carte, svanisce in me con il Maestro dei maestri, considerato, in vita, superiore persino ai greci. La terra mi attira, questa beata terra di giardini, profumata di limoni, fiorita di anemoni, e di vigneti, di palme, che tanto avrebbe amato Michelangelo. Il mio Michelangelo finisce qui, anche se non c’è mai stato in questo luogo, ma sono io che l’ho portato con me, e da me si diparte: non scriverò mai il mio racconto!

“E a un certo punto – dice il poeta – lui mi parla di mia moglie, che aveva recitato per un periodo con il Living, perciò pensai che era il suo amante, sapete com’è… E poi mi parla di quando sono finito in carcere per quella roba che prendevo e che mi avevano trovato addosso dopo la rapina, e dei libri che avevo letto là, di Dostoevskij, di Rimbaud, di Dickens, dei Salmi che amavo tanto, del prete che mi ha fatto leggere tutte queste cose, e sia benedetto lui, padre Ralph, che mi ha dato la possibilità di istruirmi, di diventare un poeta, di farmi capire qual era la mia strada, che passava tramite i libri, in quanto io ero destinato a scrivere libri, poesie… Sapete che cos’è la poesia?, ebbene io nemmeno la conoscevo, voi sì, siete istruiti, ma che ne potevo sapere io, un ladruncolo come me che ne sapeva di poesia, e che io ero fatto per quella, che avrei sfondato il mondo con la mia poesia”.

Sento arrivare la fine del suo racconto come la fine della mia vita, e mi accascio per terra, totalmente arreso alla terra, al fruscio lontano delle onde, all’estate che terminerà senza di me, ma proprio in questo momento il poeta insiste nel suo grido, nel suo finale che non vuole lasciare incompiuto, ha deciso che non sarò certo io a impedirgli di concludere, a strappargli l’applauso.

“Che ne potevo sapere, gente, chi era lui, l’uomo del destino, che mi aveva fermato vicino al bancomat, che avevo conosciuto nei pressi di un bancomat; ma ora lo so, signori, eccome se lo so, perché quando finì la nostra conversazione e io arrivai a casa, ero di nuovo a casa e la mia mogliettina, sapete com’è, mi chiese dove avevo messo i soldi, che le servivano per la cena, e per la luce, la benzina, il telefono, il gas, l’acqua, e non so per quante cose ancora ci servivano, servono a tutti, così come stiamo messi nel tempo attuale, ebbene io mi frugai le tasche davanti a lei, e non ci trovai più niente, le tasche erano vuote, e la mia testa era vuota allo stesso modo delle parole del tizio che mi avevano ingannato, ma ebbi il coraggio di quella furia della mia mogliettina, la stessa furia che in genere sfodera lei, di dirle che quello era il centuplo, sì, come mi aveva insegnato padre Ralph, quando mi disse che quello che perdevo era proprio il centuplo di quello che avrei guadagnato un giorno… Sì, cento volte tanto, un giorno, qui sulla terra e lassù, proprio questo ho detto alla mia bella mogliettina, sebbene lei fosse desolata”.

Ora, per una frazione di secondo, mi sento sollevare e abbassare, e poi ripormi e adagiarmi la testa (la mia povera e inutile testa!), e prendermi per le braccia e per le mani; mi prendono le mani, mi stringono i polsi, sento forte la stretta dei polsi, che avverto come se me li tagliassero, o me li lacerassero con gran dolore, e poi ancora mi risollevano, mi tastano, e per un’altra frazione di secondo vedo un salone ampio con ampie conchiglie, immense conchiglie di marmo appese ai muri, che sembra di stare in un set di Hollywood o in un film surreale, e mi chiedo che cosa ci faccio io in quel film, e poi dico alla mia giovane compagna di tirarmi fuori di là, l’invoco di tirarmi fuori. Lei mi tiene per le spalle (le spalle che vogliono essere accolte!), e più di mezzo secolo mi viene incontro. Addio, sono nelle braccia di Maria. Grazie al cielo.

Vincenzo Gambardella

 

Vincenzo Gambardella è nato a Napoli nel 1955, e attualmente vive a Milano. Suoi racconti sono apparsi sulle riviste letterarie Nuovi Argomenti, il Racconto, clanDestino, Achab, oltre che su alcune antologie di nuovi narratori italiani. Ha pubblicato i romanzi: “Seduto sulla tempesta” (Marietti editore, 2006), “Il cappotto istriano” (Marietti editore, 2008), “Vinicio sparafuoco detto Toccacielo” (Ad Est dell’Equatore, 2014), il romanzo per ragazzi “Celestino sospeso” (Piccola Casa Editrice, 2015), “Splendore dei randagi” (Ad Est dell’Equatore, 2016), il volume di racconti “Scricchiolii” (Iemme edizioni, 2017), e il monologo “Soffio placentare” (Edizioni Ensemble, 2017).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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