17 Febbraio 2018

Mi chiese se facevo l’amore e mi disse che Moravia aveva paura di lui: Alessandro Moscè ricorda Giorgio Saviane, il grande eretico della letteratura italiana

Giorgio Saviane aveva i baffi come Einstein, a manubrio, il naso pronunciato. Era altero, ironico. Conservò sempre due grandi passioni: la letteratura e le donne. Nel 1992, in un giorno caldissimo di giugno, Daniela, la ragazza con la quale studiavo, mi accompagnò a trovarlo. Saviane viveva in un attico sul Lungarno fiorentino, che si affacciava vertiginosamente sul fiume giallastro dove i gabbiani avevano scacciato i piccioni in quel corridoio stretto che caratterizza Ponte Vecchio: sembrava che i volatili stessero a guardia delle piccole botteghe degli orafi. Il panorama, dal balcone della casa frequentata da Giovanni Spadolini, Oriana Fallaci, Luigi Baldacci, Alfonso Gatto, era mozzafiato. Giorgio Saviane è stato un grande scrittore, che esercitò parallelamente la professione di avvocato finché non pubblicò un romanzo da più 800 mila copie vendute, Eutanasia di un amore (Mondadori 1976) e lasciò la professione. Fu investito dal successo e dalla notorietà. Dal libro trassero un film con Tony Musante e Ornella Muti, diretto da Enrico Maria Salerno con il quale Saviane entrò in contrasto sulla scelta dei luoghi dove girare la pellicola. Finse di stare male e non collaborò più di tanto alla sceneggiatura. “Se mi volete esigo il trasporto con la Croce Rossa”, tuonò. Non possedevo Diario intimo di un cattivo, edito da Rizzoli nel 1987. Quella volta non c’era Internet e i libri non si reperivano facilmente. “Glielo regalo io, l’aspetto a casa mia”, mi disse entusiasta. Saviane si comportava da ragazzo. “Lei ha degli occhi bellissimi”, esordì arricciandosi i baffi, guardando Daniela accesa dallo sguardo azzurro. Ci chiese subito se facevamo l’amore e quanti esami ci mancassero per arrivare alla laurea. Sprofondò nella poltrona bianca della sala. Si fece portare un caffè dalla domestica e invitò Daniela ad andare nella stanza della biblioteca per prelevare una copia del libro, che ci dedicò con l’auspicio che ci fidanzassimo. Incominciammo a parlare. SavianeRicordò che all’Isola del Giglio Alberto Moravia, nella plancia della barca, ammise che Eutanasia di un amore faceva paura, nel mondo letterario italiano. Saviane tolse momentaneamente lo scettro di priorato agli autori ideologici di sinistra. Loro non riscuotevano il suo consenso. “Scrissi la mia storia, ma anche la storia degli altri. La sofferenza dell’essere lasciati e di lasciare. Gli amori, all’inizio e alla fine, si assomigliano tutti”. Per vincere le nevrosi d’ansia Saviane si circondava di donne: “La più giovane è la più gelosa”, riferì sottovoce, ridacchiando. Giocava a biliardo, a golf, scalava le montagne terrorizzato dall’incubo di cadere nel vuoto. La paura, in fondo, lo attirava. Gli piacevano il mare estivo e le isole del Tirreno. Bizzarro quanto imprevedibile, umorale. Brindava con lo champagne e le ostriche. Dormiva con la testa orientata a nord e sceglieva i migliori alberghi d’Italia. Quando soggiornava da qualche parte si portava una bussola per captare con precisione il punto cardinale. Scriveva a mano, in un quaderno, la prima stesura dei romanzi, servendosi di una penna rigorosamente dall’inchiostro verde (come Ungaretti). Ci sentivamo spesso al telefono e se voleva ascoltare le mie impressioni sui suoi testi, si concentrava mangiando una mela. La moglie, Alessandra, sposata poco prima di morire, una volta dichiarò pubblicamente: “Era un pazzo nel senso buono della parola, ma soprattutto un donnaiolo impenitente circondato da conviventi, ex amanti, ex compagne. In tutto questo marasma ho cercato di barcamenarmi. Adesso mi batto per farlo ricordare”.

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Nato a Castelfranco Veneto nel 1916, venuto a mancare a Firenze nel dicembre del 2000, Giorgio Saviane può considerarsi solo erroneamente un minore della narrativa italiana secondo-novecentesca. In realtà è stato e rimane uno degli scrittori più complessi e originali. Dopo anni di colpevole silenzio dell’editoria italiana, Guaraldi, grazie anche all’impegno della moglie Alessandra Del Campana, ha pubblicato gli stralci di quattro romanzi di successo: Il Papa (1963), Il mare verticale (1973), Getsèmani (1980) e Voglio parlare con Dio (1996). Saviane viene rivisitato in un romanzo autonomo, Mio Dio (2014), che ne racchiude ben quattro. Negli anni raccolse una confluenza di giudizio esaltante di critici niente affatto indulgenti: Natalino Sapegno, Carlo Salinari, Giuliano Manacorda e Geno Pampaloni. Pose al centro della sua produzione affascinanti tematiche filosofico-religiose con l’assillo della tenuta psicologica. Ripercorrendo a ritroso la sua opera, in un arco temporale che va dal 1957, con Le due folle, al 1996 con Voglio parlare con Dio, l’utopia consapevole appare un concetto chiave. SavianeNon è forse utopia cercare di scalfire, come avvenne nel celebre L’inquisito, la convinzione che un imputato sia già colpevole e condannabile per l’opinione pubblica? Il libro contribuì idealmente al cambiamento del codice di Procedura Penale per espressa volontà del giurista Giovanni Leone, ex Presidente della Repubblica e allora Presidente della Camera. Non è utopia voler evitare l’infamia pubblica anche se l’imputato viene assolto da un reato di omicidio attribuitogli per errore? E ancora, non è utopia pensare che proprio l’errore giudiziario sia eclissabile per una giustizia superiore? Giorgio Saviane sapeva di cozzare contro un mondo dalle regole sociali predeterminate, per questo difese il valore di vittima nel significato morale della parola. “Inquisito fu anche Gesù”, ripeteva. “La storia ci ha consegnato Galileo Galilei, Girolamo Savonarola e Giordano Bruno”. È utopia, certamente, cercare di insegnare Dio “attraverso le stelle”, come nello splendido romanzo Il Papa, ribaltando, nelle convinzioni di un sacerdote coraggioso, ordinato sul soglio pontificio, concetti tradizionali di ogni religione oppressa dalla paura. È utopia proclamare attraverso le parole di un Papa la negazione dell’inferno e una fede che ponga al centro del suo credo l’uomo. E che dire di Eutanasia di un amore, dove Saviane parla della madre che non dovrebbe essere una madre biologica, cioè solo la madre del proprio figlio? La natura ha fornito le difese egoistiche per sottrarre il figlio dalle insidie naturali, ma se una madre fosse madre di tutti i figli (come nell’archetipo della terra-madre), avremmo un valore squisitamente culturale da conferire alla vita. Non più solo simboli, ma vere e proprie scelte esistenziali. Non è utopia immaginare la reincarnazione e il ritorno di Gesù nel romanzo Getsèmani, che confermò radicalmente la tensione religiosa dei romanzi? Non è utopia far compiere un miracolo al protagonista del libro, oltre i limiti conoscibili dell’uomo? Ritorna il percorso volto ad un segno ambizioso e simbolico nel romanzo Il terzo aspetto (1987) dove la vecchiaia recupera la giovinezza con la provocazione della morte: le emozioni reali (primo aspetto) e quelle del sogno (secondo aspetto) si incontrano in ciò che le rende più vicine, cioè il terzo aspetto. Giorgio Saviane, in un passo iniziale del suo romanzo, afferma: “Tornare indietro, cosa nasconde questa utopia?” Il patto scellerato che Mefistofele propone con gli occhi rossi e indiavolati, resta sospeso per tutta la durata del racconto nel mito di Faust. In una sintesi allegorica di una delle prove più convincenti, la vicenda tende a rappresentare un altro mondo, come nell’ultimo romanzo Voglio parlare con Dio. Non è utopia voler parlare con Dio, in una sorta di epistemologia salvifica? In questo struggente racconto narrativo, che risuona come il bilancio di tutta un’esistenza, lo scrittore giunge al punto d’approdo più alto delle sue capacità sensoriali e visionarie, immerso nell’avventura della carne che si tramuta in energia spirituale.

Ma con quale Dio parlare? Gandhi lo sentiva ogni giorno come un flusso, un velo, un’onda bianca e soffice. Forse quando si è colmi di dolore non si riesce a portarne il peso. E però alzare il capo e guardare il cielo lo stesso. È lì Dio, asserisce Giorgio Saviane, auspicando di non perdersi nell’ipotetico per rendersi testimoni di un piccolo esistere degli uomini che non saprebbero di essere l’universo. In conclusione, è facile rendersi conto che ci troviamo dinanzi ad uno scrittore, come sosteneva Salinari, del tutto atipico. Il cammino di Giorgio Saviane è stato solitario, ai margini della letteratura ufficiale. Ha cercato di far valere nuove istanze culturali nel segno di un’ideologia umanistica, con valori autentici che gli permettessero di scavare in profondità, nel culto della ragione per rovesciare idee negative, ostative. Ha tentato, dunque, di annullare norme consolidate. L’utopia rimane la battaglia contro la cronaca e il presente per un diritto alla felicità, che è l’ultima grande scommessa da vincere.

Alessandro Moscè

 

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