20 Luglio 2020

Il “Metodo Murgia”: trattare chi non la pensa come te come un nemico da abbattere, per attirare l’attenzione, accedere al successo, titillare l'ego

«Finalmente un hater. Ora sei davvero consacrata. Non prima» (Michela Murgia su facebook, marzo 2017).

Questa sentenza lapidaria della nota scrittrice, attivista, agitatrice politica Michela Murgia riesce a sintetizzare in poche parole il fondamento del suo annoso imperversare nel panorama culturale italiano. La sua compiaciuta esternazione venne poi spiegata da Marco Ciriello nello stesso social, il 19 marzo 2017: «Questa mattina ho scoperto che la critica letteraria è diventata odio. Dopo aver scritto del libro di Teresa Ciabatti su Il Mattino, nella mia rubrica “Herzog”, per una scrittrice, che commentava il post della Ciabatti, Michela Murgia – che in tv esercita il mio stesso lavoro – sono diventato un hater. A parte trovare conferma in una mia vecchia convinzione – tutto quello che è superficiale e banale in Italia comincia con una parola inglese –, mi colpisce come dieci righe su un giornale, che pongono un problema di lingua nel romanzo della Ciabatti, si trasformino in odio rispetto a una marea di righe positive su tutti gli altri giornali. Vuoi vedere che quelle dieci righe misurano un’assenza?».

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Già qui diventano chiari i primi elementi del murgia-pensiero. Uno: parlare male di un libro significa odiare il suo autore o la sua autrice. Infatti, nel noto spazio televisivo assegnatole nella trasmissione della Rai “Quante Storie”, Michela Murgia ha saputo trasformare la “nobile arte” della stroncatura – che vanta una lunga tradizione – in un’arte ignobile, rozza, esercitata davanti alla telecamera con irrisione e malcelato compiacimento, col piglio e cipiglio beffardo di chi scredita l’avversario tenendo gli occhi piccoli appena deviati per leggere il gobbo. Uno spettacolo posticcio, ingessato nelle scalette della finzione televisiva, in cui l’odio per lo stroncato si recita davanti a un pubblico, e in cui nemmeno la Murgia sembra essere completamente a suo agio. Due: l’odio che viene sparso in Rete dagli haters, un fenomeno che si è sempre voluto combattere e debellare per il benessere della collettività, per Michela Murgia diventa invece un segno di distinzione, un alimento, diventa ciò che serve per essere “consacrati”. Per lei, attrarre il tanto temuto hate speech diventa non solo utile, ma necessario per potersi fare strada, per acquisire e accrescere credito, per aumentare le proprie quotazioni. Con le sue ricorrenti esternazioni Michela Murgia lo suscita, l’hate speech, lo cerca, lo alimenta, richiama apposta gli odiatori, perché è con essi che si nutre, per poterne capitalizzare l’azione e trasformarla in moneta di scambio, aspettando il momento opportuno per passare all’incasso e fare carriera. E poiché è necessario avere odiatori per poter costruire una strada di successo e di visibilità, ecco che si concretizza il concetto tipicamente fascista di “molti nemici, molto onore”.

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Il vero tuffo nell’arena di Michela Murgia risale a dieci anni fa, quando la giovane Silvia Avallone si classificò seconda al premio Strega e vinse il premio Campiello Opera Prima con il romanzo Acciaio. Fu sul palco del Campiello che Bruno Vespa – sconvolto dalla scollatura profondissima dell’abito bianco della Avallone – si lasciò andare ad apprezzamenti lubrichi e a qualche accenno di palpeggiamento, suscitando le ire di chi era già pronta a fare carriera e a passare davanti a tutti. Secondo il Corriere della Sera, infatti, l’uscita di Vespa “non è affatto piaciuta a Michela Murgia, la scrittrice che ha trionfato al Campiello con il romanzo «Accabadora». Fatto sta che, calato il sipario, il giorno dopo si accendono altri riflettori. Con una dichiarazione, secca, riportata da un’agenzia di stampa, della tosta Michela: «Vespa non mi è piaciuto. Il suo comportamento verso la Avallone e gli apprezzamenti sono stati di cattivo gusto. Se li avesse fatti a me, avrebbe avuto la risposta che si meritava». Commento a caldo? Neanche per idea. La Murgia, appena atterrata nella sua Sardegna, risponde al telefono e rincara la dose: «Quando c’è di mezzo una donna, si va sempre a parare sul corpo. Non importa la sua intelligenza, non importa se viene festeggiata, premiata, perché ha scritto un libro importante. Tutto si svilisce, si riduce alla carne». Quindi, aggiunge alcuni dettagli sull’episodio. «Ho sentito bene le parole di Vespa – racconta – che ha perfino invitato la regia ad inquadrare il bel decolleté di Silvia. Inqualificabile. Io e Gad Lerner abbiamo incrociato gli sguardi, sbalorditi»”.

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Era il 2010 e la “tosta Michela” già ci dava dentro, affinandosi fino a diventare una maestra ineguagliabile, al punto che oggi ogni sua provocazione suscita giorni di discussioni, di scontri, di recriminazioni, di veleni, per la gioia del suo ego e delle sue tasche. Tralasciando ogni osservazione sul bellicoso «Se li avesse fatti a me, avrebbe avuto la risposta che si meritava», o sul raccapricciante «Io e Gad Lerner abbiamo incrociato gli sguardi», cerchiamo di focalizzare alcuni punti. È ormai chiaro che l’obiettivo principale dell’operato di Michela Murgia è di acquisire popolarità e consolidarla, per scalare posizioni e ottenere i conseguenti spazi di carriera e di potere, che alla fine, soprattutto nell’ultimo anno, sono arrivati. La sua caratteristica principale è anche il suo punto di forza: riempire di sé ogni ambiente in cui si trova, che sia una stanza o uno spazio virtuale, anche nelle interviste riportate sui giornali o nelle presenze in video, annullando ogni altra figura intorno, a cominciare da quella dell’intervistatore o intervistatrice. Quando entra in scena c’è posto solo per lei, e molte sue affermazioni sono scelte e finalizzate a suscitare polemiche, indignazione, rabbia, in modo da attrarre su sé tutta l’attenzione disponibile. Poiché le altre figure spariscono, tutto si concentra sulle conseguenze delle sue sparate e si perde la cognizione del resto, ottenendo così l’effetto voluto.

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In una recente conversazione trasmessa in Rete durante la pandemia, ad esempio, Michela Murgia ha pensato bene di dire cose che avrebbero fatto infuriare buona parte del pubblico, affermazioni dirette e offensive, non solo irriverenti, ma irridenti e sprezzanti, liquidatorie, rivolte a bersagli deboli che nemmeno si sarebbero potuti difendere: i testi delle musiche di Franco Battiato sono «minchiate»; coltivare oggi la musica lirica è inutile e non ha più senso. Questo espediente così rozzo e diretto, così proditorio e immorale, ha ottenuto l’effetto cercato: grandi discussioni si sono scatenate e inseguite per giorni in Rete e sulla stampa, con al centro la figura pervasiva, detestata e adorata di Michela Murgia, mentre il resto di quella conversazione perdeva senso e significato, con la figura dell’intervistatrice che si riduceva a un ectoplasma di cui non ci si ricorda né il volto né il nome.

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Queste tattiche rientrano in una strategia nota, tipica di ciò che viene definito “populismo di sinistra”: dividere, estremizzare le posizioni, inasprire il conflitto, alimentare il caos, mantenere un’incompatibilità e un’incomunicabilità permanenti, che sole possono giustificare il proprio primato di aggressione; non contemplare, anzi impedire una composizione costruttiva delle divergenze; imporre la propria posizione come quella giusta, l’unica a esser degna di tutela, contro tutte le altre. Un esempio elementare di questo meccanismo è offerto dalla lite in diretta tv avvenuta in un talk show lo scorso novembre. Durante un acceso dibattito su discriminazione e razzismo nelle nostre città, un personaggio di orientamento destrorso polemizza con una giornalista in studio in un modo aggressivo che non piace al noto vignettista Vauro, il quale balza dalla sedia e va a piantarsi di fronte al personaggio urlandogli in faccia «Sei un fascio di merda!»: ne segue un accenno di parapiglia, in cui il conduttore interviene per evitare lo scontro fisico. Tutta l’attenzione e l’emotività del pubblico viene risucchiata verso i due contendenti, la giornalista che stava discutendo viene letteralmente oscurata, e nei giorni seguenti tutti i media martellano sull’episodio epicizzando lo scontro virile fra l’aggressore fascista e il difensore dell’onore della donna, che nel frattempo è stata eliminata dalla scena, al punto che quasi nessuno ricorda il suo nome e nemmeno perché fosse lì. Successivamente, oltretutto, pare che i due “omaccioni” abbiano ricomposto la contesa a tarallucci e vino: una rappresentazione quasi plastica di cosa può diventare l’esercizio patriarcale della sinistra populista, con l’invincibile esibizione narcisistica – e sostanzialmente malata – del proprio ego.

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Allo stesso modo, in qualsiasi confronto è Michela Murgia a stabilire le regole d’ingaggio, è lei che conduce il dibattito verso la messa in difficoltà e l’umiliazione di qualsiasi avversario, che per lei diventa spesso nemico, non una persona con cui ragionare, ma una figura da abbattere e da finire quando è a terra. Il tutto alimentato dall’indispensabile protagonismo da copertina, protagonismo da schermo tv, protagonismo da esposizione social, protagonismo da agone politico. In pratica, tutti i campi che si possono battere vengono battuti, lasciando in second’ordine l’interesse del pubblico. Fino ad arrivare alla beffa ordita insieme al direttore dell’Espresso, Marco Damilano, col quale ha inventato la trappola del cosiddetto “fascistometro”: una specie di test con una lunghissima serie di domande che portava invariabilmente – qualsiasi fosse stata la compilazione – a definire fascista anche solo in nuce chiunque vi si fosse sottoposto. Una trovata essenzialmente idiota, ma presentata con sussiego e supportata dal connivente editore Einaudi, creata per far discutere, per indignare, per far litigare, per suscitare odio, per mettere come sempre Michela Murgia al centro dell’attenzione e far vendere l’instant-book.

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I maligni sostengono che Michela Murgia abbia in odio anche le ragazze molto magre, perché incarnerebbero una forma femminile a cui lei non potrebbe mai arrivare. Non siamo d’accordo: non crediamo che un’intellettuale tanto scaltra possa essere vittima di una simile trappola cognitiva. Ma fatichiamo a capire il perché di tanto livore, quando attaccò violentemente la copertina della rivista femminile Marie Claire, che raffigurava una ragazza molto magra con l’espressione triste, dichiarando il suo “disgusto” per “una simile idea di donna”, contro la quale bisognava “reagire sul serio e tutte insieme”. Qui l’errore è tutto concettuale: come si fa a definire disgustosa un’intera fetta della popolazione femminile, che ha uguale diritto a veder rispettata la propria dignità, una parte della quale potrebbe anche subire la propria magrezza senza desiderarla, o esserne vittima e lottare per uscirne? Come si può incitare a “reagire tutte insieme” contro un’immagine che non lede nessun diritto, visto che il problema dell’anoressia non nasce da ciò che mostrano le copertine, ma da ben altro? E quel “tutte insieme” cosa può significare, se non il tentativo di vietare le immagini di ragazze “troppo” magre, come in un regime totalitario? Noi non ci sogniamo nemmeno di definire “disgustosa” l’immagine sovrappeso di molte donne, che può dare gioie ma può dare anche dolori e nuocere alla salute. Il fattore estetico non può essere soggetto a giudizio in quel modo: Murgia sembra voler imporre una contro-estetica “buona” in cui la carne deve rimpolpare bene il corpo, sintetizzata dalla sua presenza scenica nello studio televisivo delle stroncature, dove però non ci è sembrata molto sicura, forse per la consapevolezza di non riuscire a “bucare” il video come faceva Alessandro Baricco ai tempi d’oro di Pickwick, e forse per la carenza di quell’alone d’ironia e di senso dell’umorismo che sono necessari per svolgere certi ruoli. Il metodo giudicante, i toni malcelatamente sprezzanti, la pesantezza del procedere fanno pensare più a un comitato di salute pubblica che a un dialogo generoso con i lettori.

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Non resta che concludere con una citazione di Milan Kundera a colloquio con Philip Roth nel 1980, offerta da Marco Ciriello: «Ho scoperto il valore dell’umorismo nel periodo del terrore stalinista. Avevo vent’anni, e riuscivo sempre a riconoscere le persone che non erano staliniste, le persone che non dovevo temere, dal modo in cui sorridevano. Il senso dell’umorismo era un segno di riconoscimento affidabile».

Paolo Ferrucci

 

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