12 Gennaio 2018

Ho messo sotto torchio i filosofi. Ovvero: come ti spiego la verità con un barattolo di fagioli

Nel 2017 ho realizzato otto interviste filosofiche per il Giornale, uscite nelle pagine culturali ogni mercoledì da marzo a maggio. Si trattava di interviste genuinamente filosofiche, ben poco giornalistiche. Questi erano i patti. Volevamo fare una cosa potente, approfondita, che restasse. E così è stato. L’iniziativa ha avuto un grande successo. Numerosi i lettori, gli apprezzamenti, segno che la filosofia pare sonnecchiare ma quando viene rispolverata suscita molta curiosità e trova sempre lettori attenti e appassionati. Il fatto è che molti si sentono intimiditi quando si parla di filosofia. Il timore è sempre quello di non essere in grado di comprendere, di dover scalare l’Everest. Ma non è necessariamente così, vi assicuro. Le interviste che ho realizzato sono sì vera filosofia ma si svolgono attraverso un linguaggio piano, colloquiale e accessibile a tutti. idee viventiOra queste interviste sono diventate un libro, edito da Mimesis, editore specializzato proprio in filosofia. S’intitola Idee viventi. Il pensiero filosofico in Italia oggi, ed è in libreria da pochi giorni. Tredici i filosofi interpellati (già perché nel frattempo, per realizzare il libro, le interviste si sono ampliate e sono cresciute di numero): Emanuele Severino, Maurizio Ferraris, Dario Antiseri, Stefano Zecchi, Remo Bodei, Giulio Giorello, Silvano Tagliagambe, Franca D’Agostini, Marcello Veneziani, Roberto Esposito, Luciano Floridi, Roberta De Monticelli, Massimo Donà. Tutti nomi prestigiosi e autorevoli. Sicuramente tra i massimi filosofi italiani. Ho cercato di indagare i diversi ambiti della filosofia senza trascurarne nessuno, per fare il punto su una materia eclettica che investe tutti i campi del sapere: linguaggio, mente, scienza, comunicazione, politica, giustizia, etica, bioetica, estetica, metafisica e molto altro ancora. Un libro che fa il punto della situazione sullo stato della filosofia in Italia oggi, su cosa fanno i filosofi in concreto nei loro “antri segreti”. La filosofia è una disciplina davvero speciale, unica. Essa non cessa mai di interrogare se stessa e il mondo. La filosofia vuole capire, comprendere ciò che vi è al di là delle apparenze. La filosofia cerca la verità di ogni cosa, anche laddove non sembra esistere alcuna verità. La filosofia non è ancillare a nessuna delle discipline con cui entra in contatto, siano esse scientifiche o umanistiche. La filosofia è fondativa. È la quintessenza dell’atteggiamento critico e autocritico. È analisi dei fondamenti, messa a fuoco delle problematicità. E questo da solo – la storia delle idee è lì a dimostrarlo – vale più di qualsiasi scoperta o invenzione. Ecco perché la filosofia era e resta importante, decisiva. Perciò, chi ancora si domanda a cosa serva la filosofia oggi non ha che da leggersi il libro. Non c’è miglior risposta che leggersi le tredici interviste di Idee viventi. Personalmente trovo che le uniche cose veramente interessanti che sentiamo in televisione o sui media provengano dai filosofi, le poche volte che vengono interpellati (non certo dagli economisti, che vanno tanto di moda, ma dicono solo banalità e di rado riescono a liberarsi dall’indottrinamento). Se non altro perché i filosofi dicono sempre cose fuori dagli schemi, originali e acute. E spesso ci spalancano mondi, ci fanno affacciare su paesaggi mentali inediti e sorprendenti. Non ci credete? Non vi resta che provare leggendovi Idee viventi o anche solo, a mo’ di assaggio, l’intervista a Maurizio Ferraris che riporto parzialmente qui sotto e che mi pare rappresentativa del modo in cui ragionano e argomentano i filosofi oggi. A voi giudicare.

Gianluca Barbera

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In un famoso articolo comparso su “la Repubblica” nell’agosto del 2011 (che anticipa il suo Manifesto del nuovo realismo, Laterza, 2012) lei ha suggestivamente esordito così: “Uno spettro si aggira per l’Europa. È lo spettro di ciò che propongo di chiamare New Re­alism”. Quale promotore di questa nuova corrente di pensiero, ce ne può illustrare i fondamenti concettuali, le idee che vi gravitano intorno e ne costituiscono le premesse?

“Quando ho coniato il termine ‘nuovo realismo’, un paio di mesi prima dell’articolo a cui lei fa riferimento, volevo indicare la neces­sità, per la filosofia, di superare la stasi in cui era venuta a trovarsi di fronte alla duplice irrilevanza del postmodernismo diventato puro paradosso e della filosofia analitica ridottasi a tecnica minuta. Non davo vita a un movimento, e i nuovi realisti sono accomunati, per dirla con Montale, da quello che non sono e da quello che non vogliono. Se dovessi esprimere la mia idea di nuovo realismo, è quella di una filo­sofia di grande respiro chiamata a dar conto della realtà in cui viviamo rispondendo a domande come: quando e quanto abbiamo accesso alla realtà? Quali sono le origini, i limiti e i condizionamenti della nostra iniziativa morale e della nostra azione politica? Che cosa è l’umano e qual è il suo posto nell’ambiente e tra gli altri viventi? Le grandi domande che la filosofia non può non porsi, e alle quali i miei maestri, per quanto grandi fossero, davano risposte limitate e sfuggenti, tra lo scetticismo del ‘non ci sono fatti, solo interpretazioni’ e il settoria­lismo di ‘la filosofia è un lavoro ben fatto, che non serve a niente’”.

Lei ha incardinato le concezioni del “nuovo realismo” in tre pa­role chiave: ontologia, critica, illuminismo. Può illustrarci il senso profondo di queste parole nel contesto in cui le inserisce?

maurizio ferraris
Maurizio Ferraris insegna all’Università di Torino

Ontologia significa chiedersi: che cosa c’è? Qual è la realtà in cui viviamo? A questa domanda si risponde spesso con un ‘chiedilo alla scienza’ che non risolve nulla, perché la scienza ha poco da dirci, per esempio, sul mondo sociale. Oppure si risponde evocando figure arcai­che, come il Capitale, che sarebbe ancora la realtà del nostro tempo: no, non è così, il Capitale c’era una volta, oggi c’è dell’altro, quello che chiamo ‘Documedialità’, un intreccio tra burocrazia e media che non riflette in nulla la logica del capitale, e che va studiato con altri mezzi. Critica vuol dire che, contrariamente all’idea del pensiero pigro se­condo cui il realismo è accettazione della realtà, l’accertamento della realtà è la condizione indispensabile per poterla trasformare. Se non lo si fa, ci penserà il reale a smentirci, come è puntualmente avvenuto in ogni momento della storia, e il nostro presente non fa eccezione: siamo sicuri che quello che si chiama così oscuramente ‘populismo’ non sia il risultato di una analisi pigra e insufficiente delle nuove forme della re­altà sociale? Conoscere la realtà non significa necessariamente riuscire a trasformarla, ma non conoscerla è una garanzia di fallimento. Illuminismo vuol dire, come diceva Kant: avere il coraggio e la vo­lontà di sapere, cercare di pensare con la propria testa, e di farlo anche mettendosi nei panni degli altri. Sono regole di comportamento che vanno al di là dell’Illuminismo, un fenomeno storico ormai lontano, e che possono sembrare molto semplici, eppure non lo sono: basti dire che un fenomeno come la ‘post-verità’ di cui tanto si parla sorge pro­prio dal rifiuto dell’Illuminismo”.

Da una parte il mondo esterno e dall’altra i nostri schemi concet­tuali. In che rapporto stanno?

“Un idealista risponderebbe che il mondo esterno è costruito dai nostri schemi concettuali, trovandosi nell’imbarazzo di spiegare per­ché, allora, il mondo non ubbidisce ai nostri desideri. Un naturalista risponderebbe che gli schemi concettuali sono il risultato diretto di disposizioni fisiologiche, e si troverebbe nella difficoltà di spiegare perché, allora, il pensiero abbia tanta forza e indipendenza rispetto alla natura. Il realista dice: c’è l’ontologia, quello che c’è, in gran parte indipendentemente da quello che sappiamo (che io lo sappia o no, mangiare troppo fa ingrassare); poi c’è l’epistemologia, quello che sappiamo o che crediamo di sapere, e che interferisce molto poco con quello che c’è (il solo sapere che mangiare troppo fa ingrassare non fa dimagrire); infine c’è la tecnologia, quello che facciamo, e che assicura il transito tra quello che c’è e quello che sappiamo, e vice­versa, e, per quella via, la trasformazione (so che mangiare troppo fa ingrassare; mi metto a dieta; dimagrisco)”.

Se, come lei crede, è sbagliato ritenere che “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, al tempo stesso non è forse vero che ogni de­scrizione della realtà, così come ogni modello scientifico, non è che frutto di antropomorfismo? Ossia, che in ultima istanza il mondo de­scritto dalle scienze (anche quelle sociali) è un mondo umano, fatto per occhi umani, sensi e percezioni umane, strumenti umani, menti umane? Insomma un mondo antropocentrico, assai diverso da quello che descriverebbe, se lo potesse, un animale o un essere con differenti caratteristiche razionali e sensoriali? E non è forse plausibile che, come ha sostenuto Michael Dummett, il mondo come è in sé, ossia come è veramente, può essere colto solo dalla mente di un Dio?

“Direi di più: il mondo visto dalla mente di Dio sarebbe a sua volta un mondo visto da una prospettiva, sia pure totale, dunque non sarebbe il mondo in sé, ma il mondo per Dio. Quello che mi chiedo, però, è come si passi da questa considerazione di buon senso a una tesi del tutto insensata circa l’inesistenza dei fatti. All’origine dell’equivoco ci sono due errori. Il primo è confondere l’ontologia, quello che c’è, con l’epistemo­logia, quello che sappiamo o crediamo di sapere: io penso (poniamo) che la Luna sia fatta di formaggio, dunque la luna è fatta di formag­gio; lei pensa che sia fatta di pietra, proprio come la Terra. Significa che non c’è un fatto rispetto alla Luna ma solo interpretazioni? Ovvio che no, e allora perché sostenere che non ci sono fatti, solo interpre­tazioni? Poniamo poi che la Luna sia fatta di gas talmente ben coeso da avere la parvenza della pietra: sarebbe un fatto (sebbene ignoto a me e a lei), e le altre due sarebbero non ‘interpretazioni’, ma errori (sebbene ignoti a me e a lei). Il secondo errore è sopravvalutare l’importanza di quello che sap­piamo o pensiamo di sapere, sottovalutando non solo la larga autono­mia di quello che c’è, ma anche la sfera di quella che chiamo ‘tec­nologia’, e che è una sfera di azioni che non necessariamente sono accompagnate da pensieri, conoscenze, comprensioni. Io gioco con il mio gatto, anche se indubbiamente i nostri schemi concettuali sono diversi. Io uso il computer, cammino senza cadere (in genere), pago il caffè al bar: dietro a tutto questo ci sono tonnellate di fatti, e ovvia­mente di interpretazioni di quei fatti, ma compio quelle azioni senza pensarci, e non cambia niente, sia che io creda che non ci sono fatti, solo interpretazioni, sia che io creda che non ci sono interpretazioni, solo fatti, sia che non abbia alcuna opinione in proposito”.

Veniamo alla nozione di “verità”. Posto che lei considera la verità come intimamente connessa con la realtà, può darcene la sua defini­zione? La verità è una nozione relativa o assoluta?

“La verità è il risultato tecnologico del rapporto tra ontologia ed episte­mologia. In un barattolo ci sono 22 fagioli (ontologia); li conto (tecnolo­gia); enuncio la frase: ‘in questo barattolo ci sono 22 fagioli’ (epistemo­logia). La frase è vera. Il barattolo ha un certo peso (ontologia); lo metto su una bilancia (tecnologia); enuncio la frase ‘il barattolo pesa 100 gram­mi’ (epistemologia). Anche questa frase è vera. Se fossi negli Stati Uniti direi che il barattolo pesa 3 once e mezza, e sarebbe ugualmente vera, sebbene 3,5 e 100 siano due numeri diversi. Morale: la verità è relativa agli strumenti tecnici di verifica, ma assoluta rispetto alla sfera ontologica a cui fa riferimento, e alla esigenza epistemologica a cui risponde. Ciò che designiamo, nel linguaggio corrente, come ‘relativo’ e ‘assoluto’ indica, nella versione che propongo, due forme diverse di dipendenza della verità, rispetto alla ontologia e rispetto alla tecnologia”.

Meglio una verità che, se pronunciata, produce danni o una bugia che salva?

“Kant dice che non bisogna mai mentire, nemmeno per il bene dell’umanità, e Woody Allen obietta che allora se la Gestapo mi chie­de se Anna Frank è nel solaio, io sono costretto a dire che sì, è nel solaio. Io direi: nel caso di Anna Frank, è giusto mentire, avendo però piena consapevolezza del fatto che questa azione, giusta, non ci mette al riparo dal causare involontariamente delle conseguenze indesidera­te (per quello che ne sappiamo, Anna Frank avrebbe potuto diventare leader di un partito xenofobo). E soprattutto avendo piena consapevo­lezza del fatto che il più delle volte la ‘bugia che salva’ è pronunciata da noi a nostro vantaggio, dunque con un certo interesse di parte”.

Da studioso di ermeneutica qual è, lei ha riconsiderato il rapporto tra lo spirito e la lettera di un testo secondo un ribaltamento delle gerarchie tradizionali o comunque novecentesche. Può chiarire gli aspetti salienti del problema nella loro prospettiva storica e concet­tuale, precisando la sua posizione al riguardo? Non è lei che ha scrit­to che “l’oggettività e realtà, considerate dall’ermeneutica radicale come principi di violenza e di sopraffazione, sono di fatto – e proprio in conseguenza della contrapposizione tra spirito e lettera di cui si è detto – la sola tutela nei confronti dell’arbitrio”?

“Se io scrivo ‘è vietato orinare sui muri’ (come si leggeva un tem­po in Francia, dove la tradizione del vino e della birra è anche più forte che da noi) mi aspetto che ci si astenga dall’orinare sui muri. Chi, interpretando non secondo la lettera, ma secondo lo spirito, decidesse che si tratta di un invito a una ermeneutica radicale che interpreti gli orinatoi come opere d’arte (d’accordo con Duchamp) e i muri come orinatoi, deve essere consapevole, appunto, della de­vianza della sua ermeneutica rispetto alla interpretazione secondo la lettera. Non dimentichiamoci poi che, se l’ermeneutico radicale in questione è un povero diavolo, potrebbe essere multato, e se è invece un potente potrebbe cavarsela con l’aiuto di un buon avvo­cato che sostenga che non ci sono fatti, solo interpretazioni, o di un addetto stampa che si richiami alla possibilità di ‘verità alternative’ – con un’interpretazione secondo lo spirito che sarà ancora più effi­cace se il proprietario del muro è un povero diavolo”.

Se il mondo esterno è “inemendabile”, come lei sostiene, e ciò che è accaduto non lo possiamo cambiare nei fatti (malgrado i tentativi di manipolazione operati nella storia, ad esempio dalla propaganda o dal revisionismo storico), tuttavia, se una sentenza decreta che A ha ucciso B, questa diventa la realtà anche nell’opinione comune, nelle cronache e forse anche nella storiografia. E non basta affermare che una sentenza si limita a produrre una verità processuale, dal momen­to che a tutti gli effetti (sociali, giuridici, storici ecc.) quella diventa la verità, addirittura la realtà. È così?

“No. È e resta un errore o una menzogna, anche se gli effetti sono realissimi. Almeno questo lo dobbiamo al povero disgraziato che, inno­cente, viene condannato. Così come il rimorso di chi, colpevole, viene assolto è la prova che non basta una interpretazione per cancellare un fatto. Non sono così ingenuo da pensare che tutti i colpevoli provino rimorsi, e so bene che la debolezza umana spinge ognuno di noi a cre­arsi degli alibi, o a rimuovere dei fatti. Ma, appunto, si tratta di alibi e di rimozioni, che provano l’indipendenza dei fatti dalle interpretazioni proprio come l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù”.

Un’ultima domanda. La filosofia è qualcosa di elitario o può essere con­divisa da un ampio pubblico? È una faccenda da specialisti o può es­sere divulgata senza che perda qualcosa della sua natura? Insomma, la filosofia è campo di attività per specialisti o pratica di vita?

“Se fosse elitaria, dovrebbe avere delle altre capacità, per esempio guarire, come la medicina. Ma così non è. Il fine della filosofia è sem­pre ampio e pubblico, sebbene la filosofia abbia necessità di quelle tecniche che sono la sua storia, la logica, la capacità di argomentare, l’ampiezza culturale. Un medico, che salva la vita, può permettersi di essere solo uno specialista (a parte che comunque prima o poi dovrà farsi capire, se non altro per ottenere dei finanziamenti). Un filosofo no, ed è per questo che considero, ad esempio, questa intervista come una parte essenziale, e non accidentale, del mio lavoro”.

Maurizio Ferraris è professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Torino (dove presiede il Laboratorio di Ontologia) e responsabile di ricerca presso il Collège d’études mondiales di Parigi. Ha insegnato in università eu­ropee e americane, collaborato con Jacques Derrida e Gianni Vattimo e scritto oltre cinquanta libri, tradotti in varie lingue. La sua Storia dell’ermeneutica (1988) è diventata un classico, Estetica razionale (1997) ha inaugurato l’inter­pretazione dell’estetica come teoria della sensibilità, Documentalità (2009) ha trasformato le prospettive dell’ontologia sociale con ricadute che, dalla filo­sofia, si sono allargate al diritto, all’architettura, ai media studies. Ricordiamo anche: Storia dell’ontologia (Bompiani, 2008), Manifesto del nuovo realismo (Laterza, 2014), Mobilitazione totale (Laterza, 2015), L’imbecillità è una cosa seria (il Mulino, 2016), Emergenza (Einaudi, 2016). Dal 1989 al 2010 ha col­laborato al supplemento culturale de “Il Sole 24 Ore”; dal 2010 scrive per le pagine culturali de “la Repubblica”. Dopo aver scritto e condotto Zettel – Fi­losofia in Movimento per Rai Cultura, dal 2015 conduce Lo Stato dell’Arte, su Rai 5, dedicato all’approfondimento di temi d’attualità, politica e cultura.

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