27 Maggio 2019

Si viaggia soltanto per perdersi. Scegliete il vostro compagno: Melville, Kerouac o Chatwin?

L’esito del viaggio è lo smarrimento.

Che sia Ulisse nel fallito tentativo di tornare a casa, a Itaca, valicando il Mediterraneo o Leopold Bloom che esce di casa per vagare a Dublino, l’esito è lo stesso. Lo smarrimento. Se non ci si smarrisce, il viaggio non è viaggio ma gita turistica. Si viaggia perché c’è la possibilità di non tornare più, di morire – non si viaggia per capire chi si è, ma per perdersi del tutto, per azzerarsi.

La storia di Israele comincia da un esodo, da un viaggio da Egitto vero il poi, in forma di promessa, una premessa di massacri. Dio chiede sempre di “mettersi in cammino”. Non si stanzia, devi cercarlo.

La scrittura è l’equivalente del viaggio. Si scrive cancellandosi, si dà vita a un mondo che ci distruggerà, è il Verbo, sempre, a mangiarci, non noi a nutrirci di lui. Chi scrive sa che al termine di un romanzo o di una poesia riemerge analfabeta – deve costruirsi un nuovo vocabolario, cioè, una nuova nave, per dissiparla ancora e ancora nel nuovo libro-viaggio. Cosa si impara? Nulla. Se non il desiderio della catastrofe, la pretesa di quel linguaggio che ci sarchia la gola fino al deserto.

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La storia della letteratura moderna nasce in Italia con la narrazione di due viaggi: quello celeste di Dante e quello terrestre di Marco Polo.

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Bruce Chatwin, che pare essere il più viaggiatore tra gli scrittori, teorizza, piuttosto, il nomadismo come atteggiamento connaturato all’uomo e l’irrequietezza come motore di ogni gesto – un po’ come Leopardi fa nel Canto notturno del pastore dell’Asia, votandosi anche lui, in effetti, a una vita raminga. I suoi viaggi sono pretesti narrativi, un cestino di storie, ciascuna delle quali dà origine a un viaggio ulteriore. Chatwin ci insegna che la casa è una contraffazione della tenda, è una rottura dell’ordine che perfeziona l’uomo alla natura, che la mente umana non è salottiera, ma sconfinata. La casa incide in una forma unica e consueta la volubilità della tenda, la sua proprietà al cambiare.

Herman Melville, che è stato un grande narratore, in Moby Dick non racconta un viaggio ma un esodo, una maledizione. L’oceano è il deserto, al posto di Mosè la guida è Achab, che “Fece ciò che è male agli occhi del Signore… Servì Baal e si prostrò davanti a lui irritando il Signore, Dio d’Israele” (1 Re 22, 53-54), la rincorsa non è verso la terra promessa ma l’aggiogo della Balena Bianca, l’istinto non è obbedienza ma vendetta, non c’è norma che l’anormale. Il viaggio narrato da Melville è iniziatico, anche se non c’è altra rivelazione che navigare dentro il Giorno dei Giorni.

Jack Kerouac riprende la grande tradizione melvilliana del viaggio – il viaggio come disfatta senza assoluzione – mescolando il linguaggio della liturgia cristiana e buddhista – Gesù impone il vagare e una maestranza di mendicanti, al Tempio fisico sostituisce la Chiesa delle anime libere, dei discepoli; il Buddha va per cercare la ragione del dolore, fino a sconfinare nel senza confini – a quello jazz, al giovanilismo libertario, dove la macchina è una specie di Pequod. L’oceano sono gli Stati Uniti e il Messico, gli squali sono gli uomini, la Balena Bianca la propria sorridente sconfitta. In Kerouac si viaggia per recidere i rapporti con società, mondo, famiglia, il viaggio è mistico prima che fisico.

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In Melville si viaggia per inseguire Dio; per Chatwin si viaggia per scoprire il mondo; per Kerouac si viaggia per scoprire se stessi e perdersi.

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Tutti e tre – Melville Kerouac Chatwin – scrivono in prima persona (ma Melville attraverso l’ater ego, Ismaele) per rendere efficace la narrazione del viaggio.

Certo, uno scrittore può essere stanziale: ma è la lingua, allora, il viaggio, l’oceano da varcare, la pianura da pattugliare.

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In Melville tutta la tensione è mistica – d’altronde, in vecchiaia, scriverà un poema immenso, Clarel, che narra un simbolico “pellegrinaggio in Terra Santa”. Moby Dick è una specie di Gerusalemme celeste sull’oceano: Achab è il folle che vuole uccidere, il bianco, quell’Everest sospeso sulle acque. Vuole uccidere Dio. “Questo è un viaggio maledetto”, è detto, a più riprese, nel romanzo. La stessa pratica di catturare uccidere e scotennare le balene, a bordo, è mistica: nel corpo della balena è celata la preziosa “ambra grigia”, con cui si realizzano profumi di pregio, per cui Melville scrive, con sagacia, “Chi l’avrebbe mai detto che dame e gentiluomini così raffinati si delizino di un’essenza trovata nelle budella ingloriose di una balena ammalata? Eppure, è così”. L’ambra grigia, soprattutto, è detta “incorruttibile”, ha aggettivazione divina. D’altra parte, il capo dei capodogli è ricco di spermaceti, necessario per fare le candele e le lampade a olio. La balena dà la luce.

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In Kerouac, la tensione a dissiparsi è una liturgia di gioia. “Ai loro occhi sarei apparso strano e male in arnese e simile al Profeta che aveva camminato attraverso le terre per portare il Verbo oscuro, e l’unico Verbo che io avessi era ‘Evviva!’”. Viva significa vivere, evviva è un inno alla vita: chi è stanziale rovina in sé, atrofia dell’ego, chi viaggia vive, libra l’ego verso l’ignoto. L’Evviva, terso, immediato, di Kerouac è paragonabile all’Eccomi! di Abramo chiamato da Dio (Gen 22). Come si sa, la chiamata di Dio non è di vita, ma di morte: chiede ad Abramo di scannare per lui il figlio Isacco. L’esito, però, è una vita decuplicata, ricca di onori. Il viaggio di Kerouac, però, è anche la ricerca del padre, dopo aver scelto l’esilio dalla società. Dean Morarty, l’icona di Sulla strada, nell’ultima riga del romanzo, è detto “il padre che mai trovammo”. Il libro, dopo una evocazione divina – “e non sapete che Dio è l’Orsa Maggiore?” – finisce, sfinito, sull’unica sapienza che si ottiene dopo il viaggio: “e nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi”.

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Bruce Chatwin, piuttosto, è il teorico dell’irrequietezza – che coincide con la sostanza inquieta del cuore umano. L’uomo va nei luoghi insperati – poli, deserti, impervie montane – per cercare l’insperabile, a cui non osa dare nome ma ascolto, orecchio. La stanzialità lega l’uomo all’ossessione delle stesse cose più che alla visione, claustrofobia locale più che apertura, il ‘privato’ che priva d’aria più che lo sconfinato – oggi, poi, i viaggi interstellari si fanno via iPhone, ennesimo strabismo. L’impero più vasto, a suon di cavalli, fu creato da Gengis Khan, che preferiva la yurta mobile al palazzo visibile, assediabile. All’unico, preferiva il molteplice. Viaggiare davvero significa non avere nulla di cui avere paura, nessun legame o proprietà che ci lega, essere pronti al mutamento. “La cosa migliore è camminare. Dovremmo seguire il poeta cinese Li Po ‘nelle fatiche del viaggio e nelle molte diramazioni della via’. Infatti, la vita è un viaggio attraverso un deserto”. In una delle sue sgargianti descrizioni di luoghi e fatti, Chatwin racconta l’incontro con Werner Herzog, che dal suo Viceré di Ouidah trae nel 1987 il film Cobra verde. La descrizione di Klaus Kinski è statuaria: “un adolescente di sessant’anni, tutto in bianco, con una criniera di capelli gialli”. In realtà, Heezog e Chatwin si conoscono qualche anno prima, sul set di Fitzcarraldo. Quello è davvero il viaggio terminale: il percorso folle di Brian Sweeny Fitzgerald, ‘Fitzcarraldo’, scozzese, nel cuore dell’Amazzonia è quello dentro il ventre dei ricordi. Vuole portare la musica classica, la quintessenza del genio europeo, in Amazzonia. Fitzcarraldo si dice eroe dell’inutile… l’Eccesso e il Soprannumero. Io sono l’Ultima Battaglia. Io solo lo Spettacolo nella foresta vergine”, e ce la fa. Guizzano i musicisti sulle chiatte, nel Rio delle Amazzoni, il canto stordisce i coccodrilli, l’armonia sembra addomesticare il selvaggio: ogni viaggio è un ritorno in sé, il superamento supremo. (d.b.)

*Su questi appunti è costruita la piccola lezione tenuta nell’ambito di “Nostos. Festival del viaggio e dei viaggiatori” curato da Fulvia Toscano e svoltosi a Siracusa

**In copertina: Jack Kerouac

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