28 Ottobre 2019

“Nella plaga tenebrosa in cui stava scomparendo…”: l’amicizia stregata tra Hawthorne e Melville

L’amicizia tra Nathaniel Hawthorne e Herman Melville, si sa, è capitolo capitale per la storia della letteratura, l’istante in cui il caso dimostra di avere istinto. L’amicizia è testimoniata dall’esergo di Moby Dick (1851), “In segno della ammirazione per il suo genio questo libro è dedicato a Nathaniel Hawthorne”. Tatuaggio sul corpo della Balena Bianca.

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Melville e Hawthorne si incontrano il 5 agosto del 1850, diventano amici. “Oggi Hawthorne e Melville sono andati a pranzare a Pittsfield… Melville è molto piacevole e vivace, un uomo veramente di cuore e anima e intelletto, con la vita sulla punta delle dita”, scrive, il 4 settembre di quell’anno, Sophia, la moglie di Hawthorne, alla madre. Poi sfoggia il particolare, indicativo, animalesco: “Ha una facoltà di percezione acutissima, ma quel che mi sorprende è che i suoi occhi non sono grandi e profondi. Sembra vedere tutto accuratamente, e come faccia con i suoi occhi piccoli non so”.

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Hawthorne pubblica La lettera scarlatta nello stesso anno in cui conosce Melville. Melville onora l’amico con un saggio importante, Hawthorne e i suoi muschi, pubblicato nell’agosto del 1850 sul “New York Literary World”. In questo articolo voglio infilarmi tra le fessure di un libro, la seconda edizione aggiornata delle Lettere a Hawthorne di Melville, stampa Liberilibri, sia lode, cura Giuseppe Nori. L’amicizia tra i due titani della letteratura americana e anglofona, in effetti, è testimoniata dal loro epistolario. Monco. Melville, infatti, pare abbia buttato via le lettere dell’amico. “Il carteggio fra Melville e Hawthorne si cristallizza e si esaurisce dunque negli anni cruciali del 1851 e 1852. E, seppur breve e incompleto (mancanti sono le lettere di Hawthorne, distrutte, con molta probabilità, dallo stesso Melville), esso costituisce il cuore del loro rapporto”.

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Melville ribadisce a Hawthorne la sua estraneità dal mondo letterario dominante – “Mio caro signore, ho un presentimento: alla fine mi consumerò e morirò come una vecchia grattugia per noci moscate, grattugiata e ridotta a pezzi dal costante attrito del legno, cioè, dalla noce moscata. Ciò che mi sento più spinto a scrivere, quello viene bandito, non rende. Eppure, nell’insieme, non riesco a scrivere nell’altro modo”, 1 giugno 1851. Mentre Melville, dopo aver affettato la Balena Bianca, si appresta a sfidare il “Kraken” (così definisce Pierre, o delle ambiguità, il romanzo del 1852, principio dell’insuccesso editoriale), e a sprofondare negli abissi dell’incomprensione, la carriera di Hawthorne levita. Nel 1853 lo scrittore è eletto console a Liverpool, incarico che mantiene fino al 1857: giusto premio per aver redatto, con funzione elettorale, la biografia dell’amico Franklin Pierce, eletto Presidente degli Stati Uniti d’America, democratico.

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M’interessano, ripeto, i pertugi, gli spazi inquieti, indicibili. Il desiderio di Melville – che nel 1847 sposa Elizabeth Knapp Shaw da cui ha quattro figli, tra il 1849 e il 1855 –, ad esempio, di introdursi nella famiglia dell’amico. Scrive alla moglie, Sophia, “La vita è un lungo Stretto dei Dardanelli, mia cara signora, le cui sponde risplendono di fiori, che vogliamo cogliere, ma l’argine è troppo alto; e così continuiamo sospinti sull’acqua, sperando di arrivare infine ad un punto d’approdo – ma all’improvviso, giù!, ci avventuriamo per il mare immenso! Tuttavia i geografi dicono che neppure allora dobbiamo disperare poiché al di là del mare immenso, per quanto possa apparire vuoto e deserto, si trovano l’intera Persia e le piacevoli terre che circondano Damasco” (8 gennaio 1852). Nata a Salem nel 1809, Sophia, nei disegni di Stephan Alonzo Schoff, pare donna di robusta bellezza.

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L’8 febbraio del 1852 Melville scrive al figlio di Hawthorne e di Sophia, Julian, che ha sei anni. “Sono molto felice di avere un posto nel cuore di una piccola persona raffinata come voi. Mi dite che la neve a Newton è molto alta. Ebbene, è ancora più alta qui, m’immagino. Sono andato nei boschi l’altro giorno, e mi sono ritrovato immerso nei banchi di neve accumulati fra i grandi abeti e gli aceri che ho creduto di rimanervi saldamente incastrato fino all’arrivo della primavera, come un Pupazzo di Neve”. La lettera è importante perché Julian, che avrà una lunga ma non troppo luminosa carriera di scrittore – condita, nel 1913, da un anno di detenzione in carcere per aver venduto le azioni di una miniera d’argento inesistente –, andrà a cercare il vecchio Melville, nella palude dell’oblio, nei recessi di New York, per scrivere la biografia del padre.

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Nathaniel Hawthorne and His Wife esce, a firma di Julian, nel 1884. Il padre è morto nel 1864, la madre nel 1871; Melville – che morirà nel 1891 – è l’anello fondamentale per ricostruire la carriera letteraria di Nathaniel. L’uomo che incontra Julian, però, è cordiale e chiuso, sorridente e serrato in una inesplicata solitudine. “Nel 1883, mentre scrivevo una biografia di mio padre, andai a trovare Melville, in una silenziosa via di New York, dove viveva quasi da solo. Mi accolse cordialmente, con voce bassa e con riserbo; sembrava ansioso, e ogni tanto, ad intervalli di pochi minuti, si alzava per aprire e poi per richiudere la finestra che dava sul cortile. All’inizio era restio a parlare; ma alla fine disse varie cose interessanti, la più straordinaria delle quali fu che era convinto che Hawthorne avesse nascosto qualche grande segreto per tutta la vita, il quale, se rivelato, avrebbe spigato tutti i misteri della sua carriera”. Julian torna costantemente a Melville, un uomo per cui l’esattezza di un verbo può cambiare il corso dei destini, assemblare le parallele in una sfera. Anche questo dettaglio mi pare interessante: al di là della biografia del padre (“un’opera che la moglie di Melville poi acquistò nel 1885”), Julian scrive del suo incontro-non-incontro con Melville diverse volte, nel 1901, poi nel 1903, per ribadire, ogni volta, la stessa cosa. “Mi disse che era convinto che ci fosse qualche segreto nella vita di mio padre che non era mai stato rivelato, e che questo spiegava l’esistenza dei punti oscuri dei suoi libri. Era tipico, per lui, immaginare una cosa simile; c’erano molti segreti nascosti nella sua stessa carriera”. In un altro articolo, Julian conferma che le lettere di Hawthorne a Melville sono andate perse: “disse, con un gesto malinconico, che erano state distrutte da tempo”. L’ultimo articolo di Julian su Melville è del 1927 e si intitola Herman Melville and His Dog. “Fu un colloquio infelice; sembrava in parte ritrarsi dall’idea che lo ossessionava, e in parte protendersi alla ricerca di compagnia nella plaga tenebrosa in cui stava sprofondando la sua mente… mi ero rivolto a lui per chiedergli eventuali lettere che Hawthorne gli avesse scritto in risposta a molte delle sue, ma con agitazione mi disse che se tali lettere fossero mai esistite, egli le aveva scrupolosamente distrutte”.

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Melville sembra aver voluto, con scrupolo, sterminare la propria sterminata esistenza: annientare le tracce del suo passaggio terreno, ridurre la Balena Bianca a un vago vagito. Quanto al segreto di Hawthorne, una luce la troviamo nella lettera che il 4 ottobre 1840 lo scrittore scrive a Sophia, la moglie. “Mia, unicamente mia, qui siede tuo marito, nella sua solita, vecchia stanza… qui ho scritto molti racconti – molti che sono stati ridotti in cenere – molti che certo meritavano lo stesso destino. Questa merita di essere definita una stanza stregata, poiché in essa migliaia e migliaia di visioni mi sono apparse… se mai dovessi avere un biografo, egli dovrebbe far gran menzione di questa stanza, perché qui fu consumata così tanta parte della mia giovinezza, e qui si formarono la mia mente e il mio carattere, e qui sono stati lieto e pieno di speranze e qui mi sono sentito smarrito”. Non c’è altro segreto, in uno scrittore, che la stregoneria della sua mente. La stanza stregata, la stanza dei segreti, la camera alchemica, il viavai dei mondi, la sedia che diventa macchina del tempo, la scrivania che si fa armageddon e benedizione, luogo di lotte angeliche, imbuto mistico, tavola di questa e di altre galassie. (d.b.)

*In copertina: Nathaniel Hawthorne (1804-1864)

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