18 Marzo 2018

“Meglio Aldo Buzzi di Elena Ferrante”. Il ‘Canone Mughini’ va imposto nelle scuole dell’obbligo. Intervista buffa, arrabbiata, verticale

Immaginate il corpo di Leonida. Leonida, sì. Quello delle Termopili. Oggi Leonida ha questo corpo vispo, classe di ferro 1941. Capelli grigi, dedalici, cravatte audaci, occhiali che preludono all’affondo, al j’accuse, al poema imprecatorio. Leonida è passato da Lotta Continua e da Maurizio Mosca, da Adriano Sofri alla Juventus, dall’impegno politico all’esercizio della rêverie tra i libri più belli del secolo passato. Leonida, oggi, si chiama Giampiero Mughini e le Termopili sono l’ultimo lembo di libertà prima dell’avanzata dell’“armata digitale”, che, dice lui, “non è usa ‘fare prigionieri’”. I fautori delle sorti progressive della tecnica digitale – ovvero, del rimbambimento collettivo via tablet e social – “distruggono e uccidono. Hanno distrutto l’industria discografica pure talmente vitale nei sessanta e settanta. Hanno distrutto e stanno distruggendo la fotografia analogica e i fotografi che la praticavano, le aziende editoriali che pubblicano quotidiani e settimanali di carta, noi giornalisti che dello scrivere su quei giornali ci campavamo”. Il dardo che Mughini scaglia sulla fronte dell’era tecnologica è un libro. Un libro di carta. Ovvio. Una proiettile salutare. D’eleganza plurima. Mughini libroIl libro s’intitola Che profumo quei libri (Bompiani 2018, pp.208, euro 17,00) e se fosse semplicemente una ramanzina contro i tempi che avanzano, una melanconica ode sul tempo perduto, sarebbe una rottura di palle così. Il libro, invece, dopo aver ripetuto – e va ripetuto fino a far annoiare i muri – che la grandezza di un libro è inversamente proporzionale al suo successo editoriale (“molti dei libri capitali della nostra storia culturale all’inizio non ebbero mercato, furono patrimonio di pochi”) e che chi pensa che le vendite siano il metro di misura del genio è un cretino (“il parametro dominante nel valutare la riuscita e l’importanza di un libro” è “la quantità di copie vendute, il figurare nella top ten della settimana o del mese. Un parametro che non domina soltanto i conti dell’industria editoriale, il che sarebbe sacrosanto. Domina il giudizio culturale corrente, e questo è grave”), fa qualcosa di più. Stila – lo dice il sottotitolo, in piccolo – “la biblioteca ideale di un figlio del Novecento”. Ergo: siamo al cospetto del ‘canone Mughini’, di un decalogo mughiniano per vivere bibliograficamente felici. Nell’alcova di ogni libro – cullato come un cucciolo d’uomo – soprattutto, c’è la vita. Si legge un libro come si legge la mano: per imparare un destino, impetrare fortuna e ricordare il passato. Così fa Mughini. Bibliomantica, se vi va. L’arte di trarre auspici e memorie auscultando il rumore delle pagine che frusciano. Scritto con genio narrativo, il ‘canone Mughini’ parte dal Pascoli (incipit delizioso: “Se alla maniera di quel filo d’acciaio teso tra le Twin Towers di New York, e su cui nel 1974 camminò più volte avanti e indietro il funambolo francese Philippe Petit, tendeste un filo tra l’opera di Giacomo Leopardi e la grande poesia del Novecento italiano, su quel filo passeggerebbe e danzerebbe a congiungere due epoche Myricae, il libro di Giovanni Pascoli i cui ‘frammenti’ appaiono per la prima volta nel 1891, un’edizione di poche decine di copie piccoline di formato ed esigue di pagine cui aveva fatto da occasione il matrimonio di due suoi amici”), si appoggia a Italo Svevo, Federico De Roberto, Luigi Pirandello, Curzio Malaparte (“E comunque se c’è un intellettuale italiano che il Novecento europeo ce l’aveva in tasca e se lo portava appresso era lui”), parla con commozione delle Lettere dal carcere di Gramsci (“Uno di quei libri di cui puoi dire senza alcuna retorica che ti cambiano la vita, che lasciano per sempre le loro stimmate”) e di Dieci inverni di Franco Fortini (“Le strade ideali di Fortini e la mia si sono biforcate, non che per questo cessasse l’affetto e la venerazione che avevo per lui”), va in frittata per L’uovo alla kok di Aldo Buzzi (“Buzzi è morto a Milano nell’ottobre 2009. Aveva toccato i 99 anni. Ho ancora il rimorso di non avere avuto il tempo di andare a trovarlo per la prima volta, un paio di mesi prima, come pure gli avevo promesso telefonicamente e come ero strafelice di fare”). Poi, è chiaro, ci sono i ‘mughiniani’: libri introvabili, leccornie per bibliofolli, la Vucciria delle mirabilie bibliche. Le gambe di Saint Germain di Osvaldo Patani “con 11 acquaforti di Dino Buzzati”, Carezze, il “poemetto erotico” di Alberto Martini, i Di/versi di Gandalf il Viola, il “foglio volante” Rivolta Femminile, la “Rivista di estetica e tecnica grafica” Campo Grafico. Parrebbero stelle filanti gettate contro i carri armati, quando le Termopili sono l’avamposto di un sogno svanito e di Occidente non resta che l’eco, rimbambito dalle cavallette. Non ne sarei così sicuro. Non è detta l’ultima. Mughini è ancora lì, sui botri del nulla, come un impeccabile Leonida.

Un libro per difendere il libro dall’“armata digitale”: sei più un Chadzi Murat, l’eroe di un tempo perduto, fuori tempo, o un profeta di presunte apocalissi?

Se c’è una battaglia perduta in partenza, è quella del libro di carta contro “l’armata digitale” e dunque era una battaglia che valeva e vale la pena combattere. Lascio ai babbei del terzo millennio il pronunciare 24 ore al giorno parole di fuoco contro la mafia e a favore dell’onestà, ovvietà da far venire il sonno. Non è che c’è una “presunta apocalisse” all’orizzonte. L’apocalisse c’è già stata. I ragazzi di vent’anni trascorrono 4-5 ore al giorno chini su un telefonino, e mai una volta ho visto un ragazzo di vent’anni all’edicola cui vado al mattino a comprarvi i 5 quotidiani che leggo. I libri ci sono e ci saranno sempre. Purtroppo non sono più al centro della nostra vita e delle nostre usanze quotidiane e meno che mai al vertice della comunicazione diffusa. Se durante una trasmissione televisiva, pronuncio il titolo di un libro vedo il volto del conduttore impallidire per il timore che una fetta del pubblico smanetti all’istante in direzione di un altro canale.

Nel libro sottolinei patetici rapporti di vendita alterati: oggi si pubblicano decine di migliaia di stronzate in forma cartacea (beata armata digitale, allora, se tanto mi da nulla), all’epoca pochi libri, per pochissimi. Di chi è la colpa? Scrittori vanesi, editori avvoltoi (vogliono solo fare soldi), pubblico di scarsi lettori (relativamente pochini, per altro)?

66mila libri all’anno in un Paese in cui passano per “lettori forti” quelli che ne leggono sei all’anno. È pazzesco. Non c’è sciacquetta del piccolo schermo che non abbia pubblicato la sua autobiografia. Non c’è editore per quanto piccolo che non produca una valanga di titoli ogni mese. E questo mentre i grandi mezzi di comunicazione di massa puntano il loro obiettivo unicamente sui titoli di grande richiamo. Anni fa conducevo sulla radio una trasmissione dedicata ai libri. Erano molto scontenti del fatto che per nessuna ragione al mondo citassi un libro di Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Bruno Vespa, autori talmente promossi da non avere bisogno di me.

Veniamo al ‘canone mughiniano’. Pascoli nella ‘top one’… Perché? D’Annunzio ti sta sulle balle?

Figurati se sono uno che non capisce la speciale grandezza europea di Gabriele d’Annunzio. Solo che c’era l’occasione feticistica e sentimentale offerta da quel libro piccino piccino di Giovanni Pascoli da cui sgorga la grande poesia italiana del Novecento e al quale avevo fatto la corte per vent’anni.

Ammetti, nel tuo canone di libri “obliqui”, “azzardati”, “trascurati” Curzio Malaparte, trascurando, per dire, Tommaso Landolfi, Giorgio Manganelli, Saviane, Pomilio, Emanuelli… Quali sono stati i tuoi criteri di scelta per il ‘canone mughiniano’? Voluttuosamente autobiografici? 

Sì, ho scelto quei 60-70 libri con criteri “voluttuosamente autobiografici”. Ciascun libro non poteva non essere carico di un frammento della mia autobiografia, il momento in cui lo avevo letto, il perché lo avevo amato. Potrei fare domattina un secondo e magari un terzo libro con altri e diversi 60-70 libri egualmente. Per dire di Tommaso Landolfi è un autore che al punto di averne tutti i libri in prima edizione. Avrei potuto includere “Le due zittelle”, un libro sommerso dalla polvere che trovai sullo scaffale più in alto di una libreria catanese che negli anni Trenta era stata frequentata da Vitaliano Brancati.

T’interessano gli scrittori (o i poeti) di oggi, li leggi? Di certo, ti piace Michele Mari, suppongo. Davvero il mondo, esteticamente, cresce peggiorando? 

Non so se il mondo cresca davvero peggiorando. Forse no. Ammetto di avere un interesse non particolarmente acceso per la letteratura italiana contemporanea. È un mio limite, culturale e generazionale.

Lo scrittore (o il poeta) che hai conosciuto che ammiri di più, il più spassionatamente spassoso. 

Ho conosciuto, frequentato, amato Leonardo Sciascia. Il più spassoso, letterariamente parlando? Ovviamente il grandissimo Achille Campanile.

“Lui era Prezzolini, e basta. Andai a fargli visita nella sua casa di Lugano pochi mesi prima che compisse i 100 anni, alla fine del 1981. Era lucidissimo”. Aneddoto prezzoliniano. Spara. 

Quello con il Prezzolini che stava per compiere 100 è stato un incontro fra i più toccanti della mia vita. Dopo due ore di conversazione, e quando ero già sul punto di andarmene, lui chiamò sua moglie e me la indicò, “Lei è stata molto importante nella mia vita”, e le mise la mano sulla spalla. Due mesi dopo lei morì. Prezzolini le sopravvisse di due o tre mesi. Faccio l’elogio di Prezzolini una volta sì e l’altra pure. Una volta, a Firenze, mi si presentò il figlio Giuliano, che non conoscevo. “Come sarebbe stato contento mio padre di ascoltare le sue parole”, mi disse.

Definizione di scrittore ‘italiano’: sempre estremo, sinistro, periferico, provinciale lottatore che fa una pernacchia sul muso del mondo?

Non c’è uno scrittore-tipo italiano. Come si fa a mettere nella stessa categoria un Calvino, un Luciano Bianciardi, un Comisso e un Parise? E a non dire di Svevo, che è Svevo e basta, ossia il padre assoluto del romanzo italiano moderno.

Usi Gaetano Salvemini (“Come funziona la dittatura fascista”) per sottolineare l’uso smodato dell’aggettivo ‘fascista’, affibbiato a destra e a manca (“qualche imbecille dei nostri giorni appioppa un giorno sì e l’altro pure l’aggettivo ‘fascista’ al suo odierno avversario politico”). E ti faccio una domanda: forse il deficit più massacrante della nostra classe politica è che nessuno legge libri, non è così? Ricordo le parole di Iosif Brodskij: bisognerebbe chiedere a un politico cosa ne pensa di Stendhal o di Dostoevskij, più che fargli ripetere l’ennesima manfrina di politica interna, almeno avremmo armi concrete per poter votare come si deve… 

Se io fossi al posto delle “Iene” che furoreggiano in televisione, la cosa che farei è di piombare inaspettato nelle case degli uomini politici a curiosare fra i loro libri, e ammesso che ce ne siano. Quali libri hanno Salvini, e Di Battista, e l’ex presidente del senato Pietro Grasso? Laura Boldrini, la paladina delle donne, sa chi era Carla Lonzi?

Il politico più colto che hai conosciuto? E il più stupido?

Ho nella mia agenda il nome di un solo politico della Seconda repubblica, il mio vecchio amico Fabrizio Cicchitto. Lui ha caterve di libri ed è un lettore voracissimo. Conosco poche biblioteche ricche come la sua. Il politico più stupido? Io non frequento gli stupidi e i cretini, ho nei loro confronti un atteggiamento “razzista”.

Parlaci della fantomatica casa editrice ‘Scuola di mistica fascista’…

È una bellissima domanda. Purtroppo ne so poco, a parte il fatto che furono loro a editare “Il Covo” di Giuseppe Pagano, che io reputo uno dei più bei libri del Novecento italiano. Molti di quelli che insegnavano in quella scuola andarono volontari in guerra. Ben quattordici di loro caddero in combattimento, di cui cinque medaglie d’oro alla memoria. Sopraffatti da una propaganda banale che riduce il fascismo ai suoi episodi più machiettistici, gli italiani non si rendono conto a sufficienza di quanto il fascismo sia stato un fenomeno serio oltre che un fenomeno drammaticissimo. E non si rendono conto che le debolezze militari del fascismo sono debolezze che appartengono tutte intere alla storia del nostro Paese, di cui sono in molti in Europa a credere che sia un Paese di cuochi e di stilisti e non altro.

Il libro decisivo del Novecento qual è? Hai parole commoventi sui “Quaderni” di Gramsci, per dire.

Di libri decisivi ciascun decennio del Novecento ne ha avuti tanti. All’alba del secolo ci sono stati i libri di Benedetto Croce e quelli di Luigi Pirandello. Tra le due guerre ci sono state gemme quali i libri di Roberto Longhi e Mario Praz. Nel secondo dopoguerra i “Quaderni” di Antonio Gramsci hanno fatto da monumento da cui non potevi prescindere. Il Norberto Bobbio di “Politica e cultura” (1955) è quello che sferra il primo colpo mortale all’egemonia della cultura filocomunista. Da romanzieri Italo Calvino e Leonardo Sciascia hanno influenzato centinaia di migliaia di lettori. Claudio Magris ci ha insegnato a navigare lungo le sponde del Danubio, al cuore della cultura mitteleuropea. Roberto Calasso e la sua casa editrice fanno da stemma di quest’ultimo ventennio.

Sulla morte di Silone scrivi: “quando cominciai a battere alla macchina da scrivere mi misi a piangere”. Come mai?

Lo scritto in cui Ignazio Silone raccontava la sua uscita dalla “religione” comunista era stata una lettura cruciale della mia giovinezza. E poi anch’io sono meridionale, e conosco i lutti di quella condizione.

“Fortini ci aiutò a crescere e a modellarci”: nessuno parla più di Franco Fortini. Forte poeta, fortissimo intellettuale. Perché?

Sì, nessuno parla più di Fortini, né del saggista né del poeta. E del resto chi potrebbe parlarne in un’Italia in cui i canali televisivi ospitano per decine e decine di ore a settimana i leader leghisti e pentastellati. Al tempo in cui noi leggevamo Fortini come se i suoi fossero testi sacri, i leader della politica italiana erano Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Ugo La Malfa, Aldo Moro, Andreotti, e tanto per citare uno che ha scritto un paio di libri deliziosi.

aldo buzzi“A mio giudizio Buzzi è uno degli scrittori italiani più importanti della seconda metà del secolo”. Addirittura… Giudizio estetico o colpo da biliardo di un dandy bibliomane?

No, dire di Aldo Buzzi che è uno degli scrittori più grandi del secondo Novecento è cose semplice e lampante. A risponderti meglio sono adesso salito su un trespolo a prendere alcuni dei libri di Buzzi, che ho tutti in prima edizione. Non esiste un altro scrittore italiano che sappia ascendere da un argomento all’altro con tale eleganza e consapevolezza intellettuale. Il suo libro sulla cucina e sul cucinare di cui dico in “Che profumo quei libri” è un libro che non ha eguali nella cultura europea. Il suo “Cechov a Sondrio” è il più bel libro sulla Russia scritto da un italiano. Il suo epistolario con Saul Steinberg è da estasi. L’americano Steinberg non si capacitava di come in Italia Buzzi non arrivasse a 1000 copie vendute di ciascun libro. Altro che la Ferrante. Appunto.

Formidabile quanto scrivi delle femministe di Lotta Continua. Mi verrebbe da dire: “l’importanza ‘della clitoride’ nella cultura politica italiana”. Ora, la clitoride che fine ha fatto? Le femmine hanno sepolto la clitoride sotto il terreno dell’ambizione ‘virile’?

Anche qui le cose sono semplici. Le femministe dell’inizio erano delle audaci avventuriere intellettuali e rischiavano grosso nella professione e nella vita privata. Le femministe del “#metoo” sono banali e prevedibili. Ti sta parlando uno che non ha mai sfiorato con un mignolo una donna che non lo volesse.

Pubblichi alcune lettere di Bazlen così come sono state scritte, con le lettere minuscole. Nei dettagli, penso (penso a questo acuto, intrigante: “tra i poeti ti consiglio di leggere con molta attenzione sandro penna, ma non parlare di lui a saba in quanto dopo un primo grande innamoramento ora è calato un silenzio gravido di risentimenti da parte di saba”), alligna il genio letterario: è così?

Bobi Bazlen è un’entità immensa e misteriosa. Sono molto orgoglioso di avere scovato in antiquariato quelle dieci lettere battute a macchina che ti trasmettono quell’immensità e quel mistero. È un uomo che si giocava tutto in una scheda editoriale o in una lettera a Montale. Non ha mai contribuito, quando era ancora in vita, ai 50 0 60mila libri italiani all’anno di cui dicevamo prima.

Mai pensato di fondare una casa editrice solo per il gusto di stamparsi i libri per sé?

Ho fatto l’editore quanto avevo vent’anni e per dieci anni. I 37 numeri di “Giovane critica”. Più che sufficienti.

Quale libro ti corrode il cuore perché lo desideri ma non lo possiedi?

Sono tre o quattro. Il “Pinocchio” in prima edizione, “Il piacere” di Gabriele d’Annunzio in prima edizione, il primissimo libro di Ezra Pound, quello pubblicato in Italia nel 1908, “A lume spento”. Mi è piaciuto molto quel vostro articolo in cui raccontavate i “luoghi veneziani” di Pound, a cominciare dalla sua tomba.

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