04 Maggio 2019

Fate meditazione, ma non sapete cos’è la meditazione (a meno che non siate induisti che si ricongiungono all’Assoluto o buddhisti che fanno a botte con Maya). Un po’ di chiarezza…

Quando sentiamo parlare di meditazione e yoga, meditazione buddhista, zen, trascendentale o mindfulness, stiamo parlando della stessa cosa? No, per niente, ma pochi praticanti lo sanno.

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Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza in breve, perché, come sempre, per avere maggiori delucidazioni bisognerebbe scrivere un vero e proprio saggio, e ce ne sono già parecchi in circolazione.

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La meditazione è una pratica spirituale a tutti gli effetti il cui fine per i buddisti e gli induisti è simile ma non uguale. Per gli induisti aiuta a comprendere la realtà ultima, per ambire poi al ricongiungimento con l’Assoluto, non essere più prigionieri del saṃsāra, e raggiungere quindi la liberazione definitiva, il Mokṣa, e non rinascere mai più. Per i buddhisti la meditazione ha come fine l’illuminazione, la comprensione che tutto è Maya, illusione, vuoto, o meglio, coproduzione condizionata, e il tutto per raggiungere il nirvana, l’estinzione, e non rinascere mai più.

Questo per farla molto ma molto breve.

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E di cosa parliamo quando parliamo di mindfulness?

Una volta una monaca buddhista mi disse che la mindfulness è la versione laica della meditazione. Be’, non avrebbe potuto trovare definizione migliore.

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Mindfulness è tradotto con la parola “consapevolezza”, e ha “rubato” molto dalla meditazione vipassana buddhista, ma è come se si fosse fermata alla fase “dell’attenzione sostenuta”, la parte dedicata all’ascolto del respiro, al vivere il momento presente, mantenendo sempre un atteggiamento non giudicante, di osservatore, di non attaccamento e accettazione. È fondamentale, come nel buddhismo, l’equanimità, la capacità di accogliere tutto nel bene e nel male con discernimento.

È una tecnica perfetta e magnifica per la gestione dello stress, dei traumi, dei disturbi legati all’ansia e alla depressione, ed è sempre più utilizzata anche dagli psicologi.

La mindfulness iniziò a diffondersi nel 1979 grazie agli studi di Jon Kabat-Zinn, biologo e professore della School of Medicine dell’Università del Massachussets, che iniziò a introdurre questa forma di meditazione in ambito ospedaliero.

Kabat-Zinn fu il primo a capire che la relazione tra la mente e il corpo fosse fondamentale anche in contesti medici, e non solo mistici. Il biologo era un praticante di meditazione ma capì che per essere accettato anche in Occidente avrebbe dovuto eliminarne tutte le parti inerenti alla spiritualità, proprio per riuscire ad avvicinarvi ogni tipo di paziente appartenente a qualunque religione o ateo. Fu sempre Kabat-Zinn a mettere in pratica la Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) un programma ideato per persone che soffrono di dolori cronici o che sono malati terminali.

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Credo che in Occidente la maggior parte delle persone mediti in maniera laica, e che quindi pratichi qualcosa di simile alla mindfulness. Poi ci sono alcuni che si sono convertiti all’induismo, e che credono nella reincarnazione, in Shiva, nel karma, e che quindi meditano per ambire al samādhi, così come chi è diventato buddhista ambisce all’illuminazione.

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Anche nel cattolicesimo esiste una pratica simile alla meditazione che si chiama “fare deserto”, che ovviamente non obbliga ad andare davvero nel deserto, ma che ci invita a guardarci dentro, a trovare quel deserto interiore che ci permetterà di ascoltarci meglio e dialogare con Dio. “Fare deserto” non vuol dire pregare ma osservare, ascoltare, ritirarsi con se stessi nel silenzio. È un momento di raccoglimento e contemplazione, è meditazione a tutti gli effetti.

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Dalle parole del religioso Carlo Carretto tratte da Lettere dal deserto del 1967:

“Quando si parla di deserto all’anima, quando si dice che il deserto deve essere presente nella tua vita, non devi intendere solo la possibilità di andare nel Sahara o in altri luoghi desertici. (…) E se tu non potrai andare nel deserto, devi però ‘fare il deserto’ nella tua vita.

Fare un po’ di deserto, lasciare di tanto in tanto gli uomini, cercare la solitudine per rifare nel silenzio e nella preghiera prolungata il tessuto della tua anima, questo è indispensabile, e questo è il significato del ‘deserto’ nella tua vita spirituale. Un’ora al giorno, un giorno al mese, otto giorni all’anno, per un periodo più lungo, se necessario, devi abbandonare tutto e tutti e ritirarti solo con Dio. Se non cerchi questo, se non ami questo, non illuderti; non arriverai alla preghiera contemplativa; perché essere colpevole di non volersi – potendo – isolare per gustare l’intimità con Dio, è un segno che manca l’elemento primo del rapporto con l’Onnipotente: l’amore. E senza amore non c’è rivelazione possibile. Ma il deserto non è il luogo definitivo; è una tappa. Perché la nostra vocazione è la contemplazione sulle strade. […] Devi tornare tra gli uomini, devi mescolarti a loro, devi vivere la tua intimità con Dio nel chiasso della loro città. Sarà più difficile; ma devi farlo. E non ti mancherà, per questo, la Grazia di Dio. Ogni mattina prenderai la strada, dopo la S. Messa e la Meditazione, e andrai a lavorare in una bottega, in un cantiere; e quando tornerai la sera, stanco, come tutti gli uomini poveri costretti a guadagnarsi il pane, entrerai nella Cappellina della fraternità e resterai lungamente in adorazione; portando con te, alla preghiera, tutto quel mondo di sofferenza, di oscurità e sovente di peccato in mezzo al quale hai vissuto per otto ore, pagando la tua razione di pena e di fatica quotidiana”.

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Per concludere: abbiamo capito che quando parliamo di meditazione, nella maggior parte dei casi non possiamo escludere la parte legata alla spiritualità. A conti fatti, per fare un po’ d’ordine, forse sarebbe bene spiegare agli allievi se s’insegna un tipo di meditazione laica oppure no, e cioè un tipo di meditazione più simile alla mindfulness, così da permettere a tutti di avvicinarsi a queste tecniche, anche a chi non è induista, buddhista o cristiano, e non ha nessun interesse a trattare argomenti che riguardano la reincarnazione, la comunione con Dio o quant’altro, perché a volte è proprio il fatto di ignorare tutto questo a impedire alle persone di approcciarsi correttamente alla meditazione, una tecnica che invece può essere scevra della parte spirituale e arrecare benefici in molti ambiti mentali e fisici.

Perché il problema si riscontra anche nel mondo dello yoga – argomento che abbiamo già trattato nell’articolo Lo yoga è morto da un pezzo… – dove a volte viene insegnata la meditazione in maniera spirituale, ma senza che venga detto e spiegato, quando ormai sappiamo che lo yoga che pratichiamo oggi in Occidente è una versione laica di quello praticato in Oriente, con rimandi alla ginnastica e a un po’ di mindfulness, fatta eccezione per alcune scuole dove il retaggio è esplicitamente spirituale.

Dejanira Bada

Gruppo MAGOG