26 Settembre 2019

Salvador Dalí vs. Max Ernst. Il primo si infila nei nostri desideri, l’altro sfonda le porte della casa dei matti ed esce dalla finestra

Guardate i quadri e le sculture di Max Ernst: ne siete insieme schiavi e liberi. Affrancati e incatenati, l’occhio vi obbliga a guardare senza interruzione, alla fine vi sentite i bulbi asciutti, ritirati. Nelle opere di Ernst si entra nelle parti che ci neghiamo, restiamo incastrati perché Ernst frattura lo spazio, lo frana. Guardare i quadri di Max Ernst è inseguire qualcosa che ci appartiene nel profondo, a cui non possiamo dare un nome, che si muove strisciando tra tutte le nostre bellissime e sicure forme logiche. Si insinua negli spazi liberi tra le regole, nelle fessure delle passioni. La logica e il consueto sono desertificati.

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Max Ernst, “L’ange du foyer”, 1937

Siamo nella prima metà del ’900, nel 1924 il poeta André Breton pubblica il primo manifesto del surrealismo. Possiamo dire grazie all’incontro fortuito che Breton fa durante il servizio militare in un centro psichiatrico con Freud. Dobbiamo dire grazie a un sostanziale equivoco di fondo tra i due: per Freud i matti andavano curati, per Breton invece andavano preservati, tenuti come creature da salvaguardare perché esemplari unici completamente assolti alla vocazione dei poteri creativi. I matti hanno qualcosa di magico, stanno fuori dalla logica, sono meravigliosi.

Dalle parole di Breton: “Mi ha sempre stupito l’estrema differenza d’importanza, di gravità, che presentano per l’osservatore comune gli avvenimenti della veglia e del sonno. Ciò avviene perché l’uomo, quando cessa di dormire, è prima di tutto lo zimbello della propria memoria (…) Egli ha l’illusione di continuare qualcosa che ne valga la pena. Il sogno si trova così ridotto a una parentesi, come la notte. E come questa, in generale, non porta consiglio”. In sostanza nel surrealismo si smette di credere che solo nella vita di veglia si possa valere qualcosa, questo movimento vuole l’uomo puro, denudato della morale e della buona etica. L’uomo nel suo tratto più primordiale. Breton definisce con precisione anche quale deve essere il procedimento creativo di un vero surrealista “Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere (…) il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”. Ecco dove sta il nodo e la lotta tra Max Ernst e Salvador Dalí, non andateli a cercare altrove. La menzogna e l’inganno di Dalí non sono lontani, partono dal manifesto. Dalí non è un vero surrealista, toglietelo dal movimento.

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Breton è estremamente chiaro: si crea partendo dal sogno, dalla dimensione onirica, una dimensione temporale neutra, priva di progettualità passata o futura, si crea in questo stato, abitando la ragione come la abitano i matti. Con regole proprie, con visioni che ostracizzano il reale. Scansano il consueto. Ernst è ancora più avanti: usa la tecnica dell’Hasard ovvero è dall’immagine che si crea l’allucinazione e dalla quale ancora si continua a creare in un vortice senza gravità. Ernst è un innovatore della tecnica pittorica, è un creatore di mondi. Con lui abbiamo la scoperta del frottage, del grattage e pure di un inizio di dripping (tecnica poi ampliata e abusata da Pollock). Il dieci agosto del 1925 Ernst scopre a tutti gli effetti il frottage: “esso è basato esclusivamente sull’intensificazione delle attitudini della mente alla irritabilità”. Il termine deriva dallo sfregamento da cui si origina il procedimento, risulta essere quindi quasi del tutto privo dell’influenza conscia della mente, in pratica una traduzione artistica della scrittura automatica. Ernst è un forte innovatore, sta nel surrealismo e lo supera inventando tecniche di automatismi psichici. Da qui il meraviglioso ciclo grafico della Storia Naturale. Queste tecniche hanno lo scopo di “liberarsi della propria opacità, l’universo diventa la vocazione dell’uomo”, in sintesi mettere a nudo la realtà, inoltrarsi nella foresta dei significati delle cose, rendere sfumate e confuse realtà e immagine. Dal frottage e dal grattage si creano suggestioni che paiono perdere apparentemente la sostanza nitida della materia per svelare poi immagini ben più precise, la forma esatta delle nostre ossessioni.

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Il fascino delle opere di Ernst risiede nel labile e nell’ambiguo, dove la figura è in continua metamorfosi, siamo “navigatori ciechi” per usare una espressione a lui cara. L’automatismo psichico di Max Ernst è estremamente puro e pulito, libero e vulnerabile, è un uomo che si spoglia delle strutture, ritorna umile, si fa possedere dall’arte. Lui stesso si definisce “comme en spectateur” mentre crea, nella biografia scrive che la sua occupazione preferita è guardare. Ecco perché i nostri occhi perdono la messa a fuoco davanti ai suoi quadri, diventiamo miopi, scorgiamo altre figure dalla libertà di un confine non più netto. Siamo nell’allucinazione, nella liberazione completa. Fuori da ogni stanca morale.

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Dal primo segno creativo c’è la differenza tra Ernst e Dalí. Dalí lo sappiamo, è un grandissimo, certo, tecnicamente quasi insuperabile, un antipatico e perfettissimo imitatore del tutto (stupefacenti la serie pressoché infinita dei suoi egoici autoritratti riprodotti in tutte le salse delle avanguardie nella sua casa – museo a Figueres, ne siamo ubriachi). Io da quella casa ne sono uscita appunto ubriaca, disturbata, completamente piena di qualcosa che non mi apparteneva del tutto eppure mi tentava. Le opere di Dalí disturbano, creano allucinazioni, dobbiamo guardarle da più parti. Da vicino e da lontano, obbliga lo spettatore a spostarsi nello spazio, si tenta di capire ma ogni volta si fallisce. Non metto in dubbio le capacità tecniche di Dalí ci mancherebbe, direi delle eresie, quello che metto in dubbio è la sua reale appartenenza al movimento surrealista. Lui usa il movimento, piega alla sua volontà quel concetto, prende le parole di forza e ne fa quel che vuole. E quindi ne esce, non si inginocchia all’inconscio totalmente, lo indaga e lo domina alla fine.

Dalí non utilizza alcun automatismo psichico, le sue opere sono perfettamente calcolate. Esiste un progetto dietro ogni singolo quadro, dalla conoscenza perfetta dei meccanismi di illusione lui crea il mostro, non si fa possedere dal mostro. Non è l’immagine e il sogno la creazione stessa, è l’idea e il risultato che prendono il sopravvento. Dalí sfrutta tutte le distorsioni della prospettiva, usa il paradosso visivo, si trasforma in una allucinazione, entra a gamba tesa nei mondo dei paranoici senza abitarlo per davvero. Salvador si nega davanti alla condizione necessaria per cui nel surrealismo l’artista deve in qualche modo essere passivo, deve subire l’automatismo del sogno, affrontare la purezza abbagliante della libertà. Lui nega tutto questo, e allora nega il fondamento del movimento. Dalí scava e si infila nei desideri dell’uomo, che sono tutti i desideri conoscibili, apre i cardini agli spazi di una morale assente, gioca con i nostri impulsi sessuali. Di Freud a lui interessa l’indagine delle pulsioni, l’origine del male, se male si può chiamare. Dalí cerca di indagare il suo inconscio fino alle regioni più oscure, fino a rompere tutti i patti con l’etica e la moralità. Arte quindi come indagine del sé, come autoanalisi. Da questa conoscenza profonda e personale delle pulsioni Dalí tira fuori il bersaglio delle sue opere: far sprofondare lo spettatore nella paranoia, in un oscillare continuo tra disgusto e curiosità, le pupille si stringono e si allargano, cerchiamo più piani visivi in un singolo quadro.

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Insomma Dalí è stato molto intelligente e molto scaltro, ha indagato le pulsioni dell’uomo e i suoi desideri più nascosti per riversarceli addosso, stordirci e farci rendere strabici. Però non si è umiliato nella creazione, non ha fatto dell’arte un’isola di annullamento del sé, non si è piegato all’onirico, non si è fatto inghiottire dal buio e dal dismorfo.

Persino nelle sculture, che hanno il limite del tridimensionale, Ernst approda alla forma del totem per farci capire che gli oggetti non comunicano più niente, restano imprigionati nella loro forma. Subiscono la pesantezza della dimensione, sono soggetti al ritmo dello scalpello. Scarta tutte le forme organiche per sottomettersi al dominio completo della modellazione primitiva, a un linguaggio magico e apotropaico.

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Ernst basa la sua arte non solo sulla dimensione onirica, che è la fase primaria, ma anche sulla coscienza critica e ironica che avviene a opera conclusa. Ernst si aspetta che chi guarda l’opera non sappia magari privarsi del suo apparato storico conoscitivo, ecco perché considera l’arte come liberazione e come gioco. Breton scrive “Bisogna pretendere molto da se stessi per volersi stabilire in quelle regioni remote dove tutto ha l’aria di essere difficile”; ecco quindi che Ernst le abita ma il suo soggiorno è temporaneo. Sono incursioni profondissime ma con una spinta di risalita, arte quindi come indagine psichica. Insomma ecco come Ernst sfonda le porte delle case dei matti ed esce dalla finestra.

Clery Celeste

Gruppo MAGOG