28 Marzo 2020

“È stato un grande sogno vivere e vero sempre, doloroso e di gioia”: in memoria di Mario Benedetti

Muore il poeta, a sancire l’etimo del virus. Mario Benedetti, “uno dei poeti più intensi e originali della nostra letteratura”, lo diceva, senza troppi ornamenti, in direzione dell’unica cosa, Antonio Riccardi, nell’introduzione del volume che ne raccoglie Tutte le poesie (Garzanti, 2017). Quel libro si reggeva sulla cura, cristallina, delicatissima, di Stefano Dal Bianco, che tra l’altro scriveva: “Stare vicini a Mario era sentire una energia che veniva da chissà dove, fredda e compressa e mista di intransigenza, di autentica cattiveria e totale apertura a qualunque possibilità di vita, a qualunque possibilità di pensiero, a qualunque tenerezza e in sostanza del tutto indifesa nel suo puntare all’eccesso di sé. Capivi subito che bastava grattare la superficie di quella corazza per trovare un mare di sofferenza vissuta, niente di coltivato a forza, niente di autocommiserante. Il ghiaccio era il risultato di una lotta che durava dai primi anni di vita. Una madre slovena fuori luogo, un padre mancato dopo anni di sedia a rotelle, la miseria in famiglia e quella umana del contesto paesano, una malattia autoimmune, e poi le voragini spalancate per strada dal terremoto del 1976, i morti, la devastazione delle case: tutto esperito attraverso il ladino di Nimis, una lingua aliena, impossibile da condividere altrove”. Costellata da plaquette – Benedetti è poeta che va cercato, come le scaglie di luce nella notte, come il vero del fiume, sotto le pietre – la bibliografia di Benedetti è costituita da alcune pietre miliari come Umana gloria (2004), Pitture nere su carta (2008), Tersa morte (2013). Il poeta scende nell’indicibile, e ne ricava il quotidiano, un pane. Tra tutte, mi appare questa poesia:

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.

Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,
il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.

Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addossi i muri strappati delle case che non ci sono.

Essendo gettate nelle fauci del futuro, le poesie sembrano sempre profezia, una attualità che si misura in aghi, in testimonianza di sangue.

Come testimoniare i morti,
vivere come lo fossimo,
morire come lo siamo. Per la vita
è la scoperta
della morte e della vita.

Di Mario Benedetti calco alcune poesie, che fungano da amuleto e da lama, che vadano cioè mutilando. In calce, un saggio di Marco Merlin, raccolto in Poeti nel limbo (Interlinea). L’assenza del poeta rende indelebile la sua opera, già garantita dalla vita, autentica: in questo modo, vita e morte si compenetrano. “Fuoco bianco su fuoco nero”, direbbero i mistici ebrei. (d.b.)

*

Venerdì Santo

Il cielo sta su nel pensiero di piangere.

Sulla strada
gli uomini sono andai metà muro, metà fiume.
Sto qui molto lontano dai templi,
dalle processioni tra i lumini,
molto lontano dai romanzi
dove c’era la luce dei visi.

Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene,
vorrei perdonargli di morire, cosa fare.
A sapere bene forse potrei dire:
anche per noi una visione intera
con uno specchio sopra, con un cielo.
Mi tengo al suo sguardo perduto
così particolare, così solo,
senza romanzi, con il campo che non è un mondo.

Non so andare avanti.

Ogni tanto
i contadini di Anna Karenina falciano Masckin Verch.
Ogni tanto sogno bambini bellissimi
nell’acqua effervescente di una strada.
E io li vedo di schiena,
qualcuno ci vede,
io sono di schiena nei colori.

*

Le iscrizioni neolitiche
sono state sulla mia mano.
Mi hanno visto
gli uomini di una volta e piangevo
perché non era impossibile.
Apparivo continuamente
nell’andare delle linee,
tra gli occhi e il non vedere più.

*

Sacrifici 1

Pietà. La tremenda distanza.

Perché non piove perché ci sia il cibo.

Mi salverò ancora, assassinandoti.

Per bere il tuo sangue, per bere il mio sangue.

Che tutto sia per la fine.

*

Galleggiano sull’asfalto
quelli che devono morire.
Solo lo sguardo a metà via
questo mio senza mente ormai.
Che affare è il loro?
Una musica è fortissima
per ogni passo, e ho dolore sordo
dallo sguardo non so dove.

Figure amate.

*

Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità
commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Gli ospedali non hanno corsie. Dal cimitero dei cani
vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio.
Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Sei solo stanco, ripete una voce qualunque.

Mario Benedetti

***

Sono prose slavate le poesie che compongono Umana gloria, in parte anticipate in alcune plaquettes (ma spesso troviamo poesie mantenute di libro in libro, guardando alle opere precedenti). La loro potenza poetica è tutta in questa povertà di cose che sembrano provenire da una terra lontana (e Una terra che non sembra vera è il titolo sintomatico di un’operetta precedente). Qui le parole sono corrose nella loro pretesa lirica, che viene addirittura umiliata nei versi che introducono la sezione In città, con i quali l’autore, interrogandosi sulla solitudine (ma tale interrogazione è stata così a lungo ripresa da aver perso il punto interrogativo, trasformandosi già in altro), domanda clemenza per il gesto di chiedere ascolto, riportando all’improvviso, e senza commenti, una notizia di cronaca: «La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare, si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto, / un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande. // L’ho letto in un foglio di giornale. // Scusatemi tutti».

Il verso lungo non è indice della ricerca di un’orchestrazione grandiosa, ma il gualcirsi di un tessuto linguistico lavorato dall’esperienza, dunque in perfetta corrispondenza con i molti spazi bianchi che interrompono il testo (docili e suadenti depressioni, non dirupi vertiginosi sull’assoluto), mentre quelle che sembrano pesanti concessioni alla prosa, se non addirittura inerti didascalie, descrizioni, brevissimi incisi nominali, annotazioni di cronaca («L’ho letto in un foglio di giornale»), resistono a questa usura proprio per il fatto di costituire l’agente chimico primario che sottrae l’immagine a ogni astrazione metaforica, spezzando il nesso ellittico che aveva permesso l’introduzione di quella particolare figura femminile entro la laconica, ma affabile riflessione del poeta, per diffondere il sapore asprigno dell’esperienza.

Una simile povertà di sguardo, talvolta al limite di un vago pietismo nell’atto di delineare una minima epica personale, anzi, un’epopea di povera gente, come suggerisce il titolo del libro, ha comunque il merito, pur dovendosi piegare spesso a tonalità piuttosto spente, di non trasformarsi in poetica, di non eleggere cioè le cose e le figure più care in qualità di referenti sovraccaricati a priori di una pregnanza umana e letteraria che prende corpo nella presunta oggettività lasciata emergere dalla depressione lirica, dal ritrarsi dell’io in una zona d’ombra mai affrontata in modo diretto. La passività dello sguardo poetico di Benedetti diventa garanzia di aderenza all’ordinarietà della vita e, di conseguenza, dell’impossibilità di trasformare questa povertà in motivo di scrittura (poesia che narra, in definitiva, di sé stessa). Parlare di sguardo, anzi, pare già troppo, implicando un criterio di selezione all’interno del nostro cono ottico: «Ho pensato ogni giorno a questo solo stare senza sguardo / – cose dette dalle giacche, dalle scarpe, dai calzoni – / contro la terra e i sassi, senza poter finire», anche se il poeta è consapevole di tutto ciò: «Servirebbe guardare da lontano, pensare che si guarda».

Se uno dei parametri solitamente sottintesi nel passaggio dalla prosa alla poesia è la densità, qui il testo trova la propria concentrazione non su un terreno linguistico, con il condensarsi dei significati e l’emergere di parole tematiche che non siano generiche, ma su un terreno psicologico. La monotonia è pure un valore e sa bene insinuarsi nella lettura, al tempo giusto, con la forza morale che trapela da un dolore come attutito, sordo, piegato senza compiacimenti a un destino di morte lenta e quotidiana. Resta da capire che la semplicità di questi testi nasce da uno spavento, quasi da un orrore ancestrale rimosso fino a diventare tratto esistenziale indelebile. Ha scritto, a proposito, Umberto Fiori: «Il poeta è come un bambino traumatizzato che impara di nuovo a parlare; il suo smarrimento ricorda quello di un paziente riemerso da una lunga anestesia. La semplicità del dettato è una semplicità inquieta, impacciata, malata. Benedetti è come stranito di fronte alla lingua e alla realtà, alla possibilità di conoscere e nominare le cose […]: ripete a se stesso le parole e le frasi più comuni, i più elementari nessi logici, come nella speranza di ritrovare la chiave del mondo, la sua formula dimenticata».

Evidentemente, dei punti di maggiore intensità potranno essere rilevati, ma la luce che da essi si sprigiona si fa presto soffusa e dolente, stemperandosi in un’insolita e preziosa capacità di dar voce davvero a storie e a paesaggi offerti dall’esperienza, dalla prosa del mondo, si direbbe. Queste improvvise intensificazioni, come braci che si ravvivano al soffio di lievi scombinamenti sintattici, magari a prezzo di qualche cacofonia («il letto ha detto la zia») a dimostrazione del fatto che tali fenomeni non nascono da un’esigenza di eufonia ma da un moto del pensiero – queste improvvise intensificazioni, si diceva, aggiungono un tocco a volte allucinato e surreale («Il terremoto improvviso / come il morto che viene alla spalla per farci sentire / improvvisa la luna, la luna, la luna») a un grado appena percepibile, spesso ben mimetizzato…

«Servirebbe guardare da lontano», affermava l’autore. La lontananza che garantisce il punto focale migliore per Umana gloria è il filtro della memoria, che presiede ai trapassi di immagini, che attutisce il dolore espresso come se leopardianamente diventasse fonte di consolazione, che conferisce al passo spiccatamente descrittivo dei versi l’aura di una povertà di condizione, di una sincerità radicale, che deriva dal confronto costante con la morte. Il rapporto con i defunti, anzi, è il tema centrale della raccolta, del resto annunciato dalla poesia introduttiva, forse la più intensa del volume. «Le poesie di Umana gloria», ha detto ancora bene Umberto Fiori, «sono viaggi a ritroso, strenue risalite verso il punto remoto in cui cose e parole furono perfettamente familiari, colme di senso». Da qui nasce la nostalgia che è il tono qualificante di questo poeta, che si calcifica nei suoi versi e che si deposita, infine, come sottile velo sulla mente del lettore.

Marco Merlin

*In copertina: Mario Benedetti in un ritratto fotografico di Dino Ignani

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