03 Maggio 2019

“Mussolini? Ha il fascino del conturbante, è un esorcismo, è un piacere pornografico”: dialogo con Mario Baudino

Il gioco narrativo, qui, è di elusioni e di evasioni, una lenta prigionia di specchi, dove la Storia è un’ombra e la verità ha il nitore del miagolio. Nell’estate romagnola di un paio di anni fa – mai anonima e uguale a se stessa, nonostante la monotonia agostana – s’accese il giallo: da un fausto albergo riccionese (a Riccione, ricordo ad uso dei turisti, c’è ancora la villa, alla foce di viale Ceccarini, in cui soggiornò a lungo il Duce, Lui, Benito Mussolini, lo ricorda Giorgio Bassani, romanzando, ne Gli occhiali d’oro) un ignoto Mandrake si portò via il fatidico violino di Mussolini. Così titolava il Resto del Carlino – pare d’essere nel pieno degli anni Trenta – “Riccione, rubato da un hotel il violino di Mussolini. Lo strumento apparteneva a un albergatore riccionese: ‘L’avevo comprato da suo figlio’”. Questa è la realtà dei fatti: ignoro quanto abbia lavorato nella testa di Mario Baudino, un panda del giornalismo culturale – nel senso che è tra i rarissimi specialisti in quel ‘genere’, autore, per altro, di saggi di raffinata sapienza, come Il Gran rifiuto, Ne uccide più la penna, Lei non sa chi sono io – nato come poeta – nel 1978, nella culla de La parola innamorata, antologia epocale edita da Feltrinelli per la cura di Pontiggia+De Mauro; l’anno scorso Aragno ha pubblicato una rassegna di “Poesie scelte” con il titolo La forza della disabitudine – ed evoluto come romanziere (cito, almeno, Per amore o per ridere e Lo sguardo della farfalla), l’evento di cronaca. Fatto è che Il violino di Mussolini (ergo: “Una storia grossomodo s’amore”) è il titolo del suo ultimo romanzo, stampa Bompiani. In questo caso, però, Mussolini – ma anche il fascismo e perfino il violino, noto strumento imbracciato dal demonio – è un sugoso preteso per un ‘giallo’ bibliofilo e catastrofico – ma non catastrofista – che ha per oggetto un libro (La catastrofe del Duce, appunto) dedito a raccontare la vera morte di Mussolini, disintegrato dal “piombo dell’inglese” mentre suona il fatal violino, in un estremo singulto teatrale. Il punto, però, non è il fascino ineluttabile del fascismo – che tanta fortuna adduce all’editoria patria, oggi – ma la vivacità della narrazione, nell’oggi, lieve, ironica, fantomatica, che sonda la palude politica e la tracotanza dei potentati, consapevole che “le cose della vita non sono mai particolarmente originali” (ma poi diventano originalissime) e che “tutti noi non siamo altro se non libri rilegati in pelle umana”, come diceva Manganelli. Un valzer di frasi, un balzo fulmineo, una battuta: i romanzi a volte possono avere la freschezza del vento, e una certa gioia, un poco rétro, un tanto salutare. (d.b.)

Domanda al giornalista (e dunque allo scrittore). Mussolini, per così dire, ha un successo editoriale pimpante. Se si scrive del Duce e del fascismo, E uno spietato fascino coglie i lettori: come mai?

Mussolini e la sua corte sono sempre stati popolari, dal primissimo dopoguerra: pensa ai falsi diari, o a come le riviste più diffuse hanno scavato costantemente su misteri, amori, traffici vari. Ho l’impressione che rappresenti in qualche modo l’inconscio della Nazione. In caso contrario, che senso avrebbero a tanti anni di distanza i neofascisti parati a lutto, con gagliardetti e saluti romani? Ha il fascino del conturbante. Ingenera sempre il sospetto, nel lettore, che “di te fabula narratur”. È nello stesso tempo un esorcismo e un piacere pornografico. Detto questo, mi chiederai perché ho la faccia tosta di evocarlo nel mio libro…. Potrei risponderti che non ho nulla contro la pornografia.

Nel tuo romanzo. Mussolini, in fondo, è un pretesto per una indagine biblio-mantica. I libri sono i protagonisti del libro, mi pare, le prime edizioni di Corazzini, “cimeli introvabili”, l’apoftegma di Manganelli per cui “tutti noi non siamo altro se non libri rilegati in pelle umana”. Insomma, il romanzo come omaggio al libro, al collezionismo, ai cacciatori di libri: è così?

Infatti. Nel Violino di Mussolini, lui, il mascellone, c’entra e non c’entra. O meglio, c’entra come caricatura di un mondo. È un romanzo che – divertendosi e cercando di divertire – parla di libri, e del venire dopo milioni di libri, e di essere impastato di libri. I libri sono la nostra carne, non solo per quel c’è scritto, ma proprio per quel che “sono”.

Quando, dove, come ti è sorta in testa l’idea del Mussolini neroniano, ucciso dal “piombo dell’inglese” mentre suona il violino, Nerone redivivo? Ma, poi, Mussolini sapeva davvero suonare il violino (magari come il diavolo, da mancino)?

Ho fatto un po’ di ricerche, al proposito. La mia conclusione è che non si sa bene come suonasse. Gli agiografi scrissero che era un fenomeno, gli oppositori che era uno strazio. Certo, considerando i molti impegni che aveva – portare un Paese al disastro è un lavoro, mica si può fare nei ritagli di tempo – è difficile pensare a lui come un bravo musicista. Anche i diplomati di conservatorio, se poi si dedicano ad altre attività, tendono a perdere la mano. Nulla toglie che fosse un passabile dilettante.  Ma non è questo che mi interessava. Avrei potuto costruire la storia anche partendo da un qualsiasi altro cimelio. Il violino, per le sue risonanze letterarie, mi piaceva e mi affascinava – in fondo come osservi giustamente c’è di mezzo anche il diavolo: e dunque perché non Nerone? Non in quanto redivivo, né tantomeno in quanto probabilmente calunniato (da Svetonio) ma in quanto simbolo di un passato imperiale, della romanità di cartapesta esaltata dal Regime. E poi perché a me Nerone è stato sempre simpatico (al contrario del Batrace o Giuda imbombettato che dir si voglia, eredoluetico e primo maresciallo del cacchio, tanto per citare Gadda: anzi, se non suonasse come un’enormità direi che ho tentato pur timidamente di ispirami a Eros e Priapo. O almeno, sono sicuro che i miei personaggi abbiano letto quel libro grande e folle, facendone debitamente tesoro).

Tecnica narrativa. Tanti dialoghi, un umorismo dilagante, lo stratagemma del ‘giallo’, qualche puntura di ‘attualità’ (balugina pure il Sindaco di Predappio, “comunista”). Quali sono le tue ‘fonti’ narrative? Cosa leggi, a chi ti ispiri, insomma?

Leggo come te e come tutti una marea di libri. La mia Sacra Trimurti è però composta da Somerset Maugham, Evelyn Waugh e Muriel Spark. In generale sono poco attento all’intreccio, molto di più alle possibili sorprese stilistiche. Spero di avere imparato qualcosa da Fruttero & Lucentini: li ho studiati un bel po’, soprattutto per quanto riguarda le strutture romanzesche.

Domanda al poeta. L’anno scorso, per Aragno, hai raccolto le tue poesie, dacché, in effetti, quarant’anni fa, esordisci come poeta. Perché titolare quel libro La forza della disabitudine, che è quasi un ossimoro? Come si tempra la tua prosa con la poesia? E poi: che ne è, oggi, della poesia?

La forza della disabitudine è un ossimoro certo (forse apparente), per indicare l’abitare, e tutta l’area semantica che gli sta intorno. Per esempio l’abito. E il disabitare. E la vecchia faccenda che nessuno di noi ha avuto una sola casa, una sola cosa, un solo caso. Quando scrivi devi sempre essere pronto ad altro, e questo per me vale sia per la poesia sia per la prosa, anche se ogni storia, come ogni verso, vuole la sua propria cadenza stilistica, quella e non altra. Per quanto riguarda il giornalismo, va da sé, la faccenda è diversa (non troppo diversa, però). Rubando una definizione a Javier Cercas, potrei dire che il giornalismo propone una verità fattuale, la letteratura una verità fantastica. Lo stile, come l’intendenza segue. La poesia oggi? A me pare molto viva, nutrita e rafforzata dalla sua marginalità sociale – ad onta dei poetry slam e dei tentativi a volte riusciti di teatralizzazione. C’è semmai, o almeno c’è per me, una difficoltà maggiore a distinguere, a “leggere” i versi che arrivano, e che rimangono poveri e misteriosi. Archiviato il tempo delle teorie e delle poetiche, mi pare di vedere tutto intorno un diffuso sentimentalismo, o come dice un mio amico artista per quanto riguarda le “belle arti”, un barocco involontario. Mi pare che Alfonso Berardinelli abbia parlato di “populismo poetico”. Ecco.

Domanda, ora, al giornalista di cultura. Che fine ha fatto il giornalismo culturale? Che fine ha fatto il giornalismo, in generale?

E chi lo sa. Se ti dico una brutta fine, cado nella trappola del laudator temporis acti. Si sta trasformando, senza forse capire dove lo sia trascinano la corrente. La rete, i social, i nuovi sistemi di fruizione stanno uccidendo quel che c’era senza che ancora si capisca se qualcosa – e che cosa – stia nascendo. Il giornalismo culturale, per esempio, è stato per lungo tempo una delle armi con cui i grandi giornali si facevano concorrenza, è stato importante persino economicamente. Ora il mondo dei media investe poco in generale, pochissimo sulla cultura, anche se magari qualche supplemento si trova ad avere di tanto in tanto un po’ di pagine in più. Il problema non sono gli spazi, ma le redazioni – in termini proprio di quantità, più che di qualità.  Ci si affida sempre più agli “esperti” anziché ai giornalisti: è più comodo e molto più economico. Ma così si perde il disegno d’insieme. Ci sono colleghi bravissimi, che non possono fare tutto da soli. Poi ci si copia molto a vicenda, spesso senza troppe verifiche, e per citare un antico adagio si preferisce sbagliare collettivamente piuttosto che avere ragione individualmente. Ma forse questo succede da sempre. Prima, però, si notava di meno.

*In copertina: Mario Baudino nella fotografia di Leonardo Céndamo

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