14 Aprile 2019

“Fu una notte di parapetti, ringhiere, ponti… tutto quella notte fu – un gesto”: un racconto di Marina Cvetaeva

Sulla soglia del non ritorno, Marina Cvetaeva scrive il suo lavoro in prosa più grande. Come sempre – perché la vita ha temperatura letteraria, perché la letteratura è la tempra della vita – mettendo in scena se stessa. Un secolo fa, nel 1919, Marina Cvetaeva conosce, in Russia, Sof’ja Gollidej, cioè ‘Sonecka’, attrice di fama, capricciosamente celebrata, impossibile. La sua parabola – dalle luci del palco, a oscurità da “Sunset Boulevard” – ricama trame araldiche nel cuore della poetessa. Che nel 1937, un fiore prima del drammatico ritorno in Russia, ritorna a quella amicizia in “Sonecka”, romanzo dalla vitalità tolstojana e dal vigore avanguardista, tra collage di memorie e abrasioni frammentarie. “Scritto all’ombra e nel presentimento della catastrofe ormai vicina, lo smagliante e luminoso ‘Racconto su Sonecka’ (così, letteralmente, suona il titolo in russo) irradia vitalità, tepore, allegria, forza gentile. È il più grande prodigio di Marina”, dice, recisamente, Serena Vitale, esperta massima dell’opera di Marina, di cui ha scandagliato l’immane epistolario, nella nuova edizione di “Sonecka” (Adelphi, 2019), dopo gli antichi passaggi per Il Saggiatore (1982) e La tartaruga (1992; 2002; 2012). Qui ne calchiamo un tratto, di artica bellezza.

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Alja è stata sistemata, messa a letto. Io e Volodja siamo in piedi davanti alla porta d’ingresso. «M.I., Alja ha il sonno profondo?». «Profondo. Non preoccupatevi, Volodja, non si sveglia mai!». Usciamo. Lungo il viale Precistenskij andiamo verso la Moscova. Ci fermiamo su non so quale lungofiume (tutto è come un sogno) – guardiamo l’acqua che scorre… Ancora adesso, mentre scrivo, sento con le costole la pietra della balaustra dalla quale, non so perché, tutti e due ci eravamo sporti pericolosamente per vedere meglio: il passato? il futuro? o il presente che si andava compiendo in noi? Fu una notte di parapetti, ringhiere, ponti. Continuavamo a cercare qualcosa e – non trovandolo – passavamo a un altro argine, a un altro ponte, come se da qualche parte ci fosse un punto preciso da cui di colpo tutto ci sarebbe apparso chiaro – fino in capo al mondo… Ma forse – insieme – stavamo dicendo addio a tutto questo: alla Moscova, ai ponti, agli orizzonti, alle croci? Mi sembra di ricordare (ma forse l’ho solo sognato) che avvicinandoci a uno dei nostri punti di osservazione incontrammo Pavlik – che se ne allontanava, evidentemente anche lui alla ricerca della stessa cosa. (In quella notte di Pasqua del 1919 tutta Mosca era in piedi e tutta, più o meno, negli stessi luoghi – vicino al Cremlino). Ma forse eravamo noi a dirci addio? Le parole di quella notte – una notte lunga, lunghissima, sparsa e senza fine (eravamo usciti all’una, e tornavamo a casa nella piena luce di una tardiva alba primaverile) – le parole di quella notte non le ricordo. Tutta quella notte fu – un gesto: di lui verso di me. Un’azione – sua verso di me. Quella notte, in uno di quei luoghi, sporgendosi da uno di quei parapetti, nella stretta vicinanza delle nostre spalle, lui prese, più dura di una pietra, la decisione che gli costò la vita. E a me costò – tutta un’eternità di amicizia: per una sola ora di quell’amicizia avrei dato, con le parole di Aksakov, il resto «dei miei giorni che si vanno spegnendo»…

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Come ebbe inizio? (Giacché è adesso – a dispetto di quei ponti – che inizia). Con ogni probabilità per un caso – il caso fortunato, e già in den Sternen geschrieben, di una loro visita quasi contemporanea. «Come, Volodja, voi – qui? Anche voi – anche voi frequentate la casa di Marina? Marina, sono gelosa! Dunque non siete sola quando io non ci sono!». «E voi, Sonecka, siete sola quando non siete qui?». «Io! Io sono una causa persa, io sto con tutti, ho una tale paura della morte che quando non c’è nessuno e non può esserci nessuno – sì, capitano queste ore così tremende! – potrei arrampicarmi sul tetto in cerca di un gatto soltanto per non restare da sola: per non morire da sola, Marina! E voi, Volodja, che fate qui?». «La stessa cosa che fate voi, Sof’ja Evgen’evna». «Cioè: amate Marina. Perché io qui non faccio nient’altro – in generale non faccio nient’altro su questa terra. Né ho intenzione di fare altro. Come non ho intenzione di lasciare che altri me lo impediscano».

Marina Cvetaeva

Gruppo MAGOG