10 Aprile 2019

“Dio è l’imperdonabile e Cristina Campo la mia preferita, la custode del mistero”: dialogo con Maria Antonietta

La parola è la disciplina che comporta, lo scivolo tra la galassia e il secolo, tra la trafittura e l’esodo. Delle Sette ragazze imperdonabili (Rizzoli, 2019; ma sono otto, invero) di Maria Antonietta, un nome che evoca bambina e ghigliottina, mi ricamo sottopelle il sottotitolo, “Un Libro d’Ore”. Il testo, in forma di ufficio liturgico, da mattutino a vespri, infatti, non è da leggere ma da usare. Come il salterio. Come le parole-eremo delle preghiere. Maria Antonietta – alla verità Letizia Cesarini, pesarese –, che scrive impelagando i verbi in musica – già autrice di Sassi, ha appena pubblicato l’album Deluderti: qui vedete tutto –, ha allineato le poesie delle sue sante, da Marina Cvetaeva a Sylvia Plath, da Cristina Campo – di cui è astrale seguace – a Etty Hillesum e Emily Dickinson, facendone materia d’indagine, maceria di spirito, ruminio quotidiano. Nell’introduzione Maria Antonietta tenta di spiegare il rapporto spiritico e vitale intrattenuto con queste sette icone (“Che cosa mi hanno insegnato? A non sentirmi in dovere di semplificarmi, di censurarmi, di ammorbidirmi. A prendermi sul serio, a darmi una possibilità. Ad avere fiducia e a non sentirmi in colpa se ho molti desideri e se molti di questi desideri sono folli per la maggior parte delle persone. Ad accettare il fatto che sono molte cose contemporaneamente e spesso in conflitto tra loro. Ad accettare i miei spigoli, la mia complessità, ma anche le mie risorse interiori, sorprendenti, maggiori di quelle che credevo di avere”), ma le dichiarazioni sono troppo poco rispetto al modo in cui l’autrice, con spavalda lucidità e caustico impero, s’infrange in quelle parole, razzolando nei dintorni di Dio. I racconti che introducono le poesie delle titaniche, infatti, hanno l’ardore della pratica e della visione (“Non è sempre necessario compiersi in mezzo agli altri, anzi. Alcune forme esitano, hanno pudore e richiedono piuttosto una certa segretezza, una specie di devozione”; “Per questo ho dato alle fiamme così spesso: per testare la natura di ciò che avevo di fronte”), una perizia narrativa che procede per estasi, una estate linguistica (“La luce che arriva dallo spazio remoto è partita trecento anni fa, millecinquecento anni fa, milioni di anni fa, e imperterrita deve avere percorso il vuoto, con un certo senso di solitudine, cavalcando nel buio come deve avere fatto Jeanne d’Arc, attraverso le praterie dell’antimateria. Fedele a se stessa, senza retrocedere, fino ad arrivare ai nostri occhi. Come non premiare questa fedeltà?”). Per questo, memore di quella volta, tre anni fa, in cui, in una piazza romagnola, parlammo di Fernanda Romagnoli, abbiamo fatto falò delle parole di Cristina Campo, l’ho cercata, eccola. (d.b.)

Partiamo dalle parole principiali, del principio. Perché sette, perché imperdonabili?

Le ragazze imperdonabili protagoniste del libro sono per l’appunto sette, e sette sono i racconti che ne narrano le avventure. Per di più le poesie sono sette per ogni sezione, per cui sette per sette. Questo numero simboleggia la compiutezza, e siccome Dio è uno dei protagonisti del libro, questa presenza costante del sette ne riesce a preservare la presenza in filigrana, dalla prima all’ultima pagina. Dio è compiuto perché è libero, e per questa ragione, non in quanto modello di perfezione, ma in quanto modello di libertà, diventa il complice di ognuna delle ragazze. Tutte ricercano in maniera più o meno diretta un dialogo con Lui: con uno che ha ampissime vedute, che non si lascia recintare o definire, che si prende la libertà di sorprendere come e quando vuole, che è per questo il più imperdonabile di tutti e di tutte.

Lego la parola imperdonabili al libro d’ore e ti chiedo che legame ti stringe a Cristina Campo, come l’hai scoperta, cosa ti affascina in lei.

Cristina Campo è stata una folgorazione per me. L’ho scoperta imbattendomi in quella sua icastica autobiografia: “Ha scritto poco, e vorrebbe aver scritto anche meno”. Ne sono rimasta conquistata. Mi sono innamorata di una donna radicale e libera, di una donna forte di una forza che non si misura con i parametri di questo pianeta. Una donna fuori dal tempo, troppo avanti o troppo indietro ma non qui, in questo punto insieme a tutti noi. Una donna misteriosa che è riuscita a mantenere intatta una vasta area dentro di sé, che è riuscita ad aprire una prospettiva restandosene in disparte, che ha trovato un ritmo perfetto che si esprime con parole perfette e tutto questo ancora sulla Terra. Il suo dialogo con Dio mi affascina, e la sua ironia così intelligente e sottile, il suo viso bellissimo, il suo essere trasparente e opaca al tempo stesso. Cristina è custode del mistero, che infatti non è passato con la sua vita, ma ci guarda ancora dalle sue pagine, mostruosamente intatto.

“Non si sono conformate ad alcun cliché”, scrivi, raccontando le sette ‘sante’ che allinei nel libro. Mi viene da pensare, allora, che per te il gesto poetico, l’atto di parola, sia legato a una disciplina di vita, che etica ed estetica siano uno: è così?

Sì, per me è così sicuramente. Ciò che dici e ciò che fai, ovvero ciò che sei, può partecipare del ritmo di questo Universo, del ritmo di Dio, o rimanerne, se privo di grazia, escluso. Veleggiare verso il senso equivale a navigare con grazia, non può essere altrimenti.

Come ti aiutano nella pratica del giorno queste parole, come le indossi, come le abiti, ecco? Come vivi nel fruscio di queste parole?

Queste parole, alle quali sono debitrice, e proprio per questo le ho inserite in esergo ad ogni sezione del libro sotto forma di citazioni, sono state il punto di partenza non soltanto dei capitoli, ma di quella che sono. Se esisto in questa forma è perché qualcun altro e altra ha detto e fatto delle cose su cui faccio forza e su cui mi faccio forza, quando non riesco a trovare il ritmo. Sono una compagnia quotidiana, o quasi, e provo un grande senso di gratitudine e di vicinanza. Allentano la mia solitudine, mi fanno immaginare e pensare, mi spronano ad andare verso il futuro. Cerco di non farmi schiacciare dai modelli, ma di attingere freschezza ed entusiasmo, la voglia di partecipare a tutta quella bellezza, che è poi la ragione unica e fondamentale per la quale ho scelto e scelgo ogni giorno, di fare l’attività folle che faccio.

Credo che imperdonabili siano anche alcuni rari poeti uomini. Chi sceglieresti tra loro nel tuo viaggio verso i radicali della lirica?

Amo molto Rilke e Pasternak, e ovviamente il primo maestro di imperdonabilità della mia vita, Rimbaud.

Sei prima poetessa o ‘cantantessa’, o la musica è l’invisibile serpe che tiene eretta la tua statura poetica?

Ammetto che le parole sono venute prima, leggere è stato il modo in cui mi sono trasformata da una bambina in un’adulta. E scrivere è stato il modo in cui sono diventata da infelice, molto meno infelice. La musica è stata forse il modo migliore che ho trovato per condividere le mie parole con gli altri. Poi però ho capito, soltanto dopo, quanto anche quella fosse un linguaggio che gareggiava alla pari con le parole e sono felice di stare imparandola.

Con quale di queste poetesse, di queste donne estreme hai trovato una corrispondenza radiosa, tale da turbare?

Quando ero più piccola era con Sylvia Plath che parlavo più spesso, cercavamo il modo migliore per aggirare il demone della perfezione, per meritarci l’amore o strapparlo a morsi. Ora oscillo tra Marina Cvetaeva e Cristina Campo, sicuramente. A volte leggere alcune epistole diventa davvero inquietante e affiorano alcuni pensieri, alcuni atteggiamenti così familiari o così destabilizzanti invece, che effettivamente mi hanno turbata e mi turbano.

Dimmi però ora tra i poeti di oggi chi leggi. O preferisci leggere le stelle del cielo, i versi accumulati sul cuoio dell’albero?

Ho un problema con i vivi, sui cui sto lavorando. Non per poca stima o pregiudizio o chissà cosa, ho proprio un problema con la gestione di interlocutori vivi. Forse mi spaventa pensare di potermi imbattere in persone e poeti e scrittori meravigliosi, come quelli morti su cui fantastico, e quindi svelare il mistero. La mia è una politica di tutela del mistero, che però sono convinta mi stia facendo perdere cose bellissime.

*In copertina: Maria Antonietta nella fotografia di Luca Zizioli

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