28 Agosto 2018

Marco Polo alla ricerca dell’Arca di Noè e della fanciulla-drago, ovvero: le mirabili avventure di un grande imbroglione. In anteprima, l’ultimo romanzo di Gianluca Barbera

Fu ‘magellanica’ anche la mia, di impresa. Obbligare Gianluca Barbera, imponente come il Kublai Khan, feroce come Orson Welles, a concedermi l’anteprima del suo ultimo romanzo, quello su Marco Polo, che s’intitola “Marco Polo e il libro delle meraviglie”. Nient’affatto stordito dal successo di “Magellano” (Castelvecchi, 2018), Barbera s’è messo subito a scrivere, spulciando eremitiche biblioteche, il secondo libro del suo ciclo ‘magellanico. Che ha un carisma preciso: raccontare – deturpando l’agiografia, avvilendo la leggenda – le vere avventure dei più grandi avventurieri della Storia. Dopo Magellano, appunto, Marco Polo. Che nell’immaginazione di Barbera è una specie di ciarlatano, un prestigiatore della retorica, un contastorie, un cantaballe. Ad ogni modo, ce l’ho fatta ed ecco qui spiattellato, in anteprima ‘mondiale’ – si dice, infatti, che il “Magellano” vada atterrando in mondi editoriali anglofoni e francofoni, evviva, letteratura italiana buona ad altre latitudini – un frammento del nuovo romanzo di Barbera. Da lettore con il fiuto aguzzo noto un cambiamento radicale nel linguaggio: se “Magellano” era narrato dalla voce nobile, lugubre, malinconica, a tratti tortuosa di Juan Sebastián del Cano, qui la narrazione è direttamente del protagonista, Marco Polo, agita da ben altro spirito. Polo, infatti, deve deliziare la corte che lo ospita – e lo foraggia – con mirabilie in quantità, con una rapacità narrativa letale: chiudi gli occhi, ti fai cullare da quel ronzio di verbi, e all’improvviso sei nelle distese asiatiche, dove si libra l’araba fenice… (d.b.)

*

Il giorno dopo, ripresi, ci trovammo ad attraversare i Monti Calamita. Volevo a tutti i costi vedere l’Arca, se mai fosse esistita.

“Perché hanno questo nome?” chiesi a Ibn, il capocarovaniere.

“Perché hanno il potere di attrarre i metalli”.

Lo guardai sbalordito.

“Molti eserciti” aggiunse lui “sono stati sbaragliati. I monti catturano le armi e spogliano i soldati delle armature”.

Lo fissai perplesso, senza dire nulla. Ogni terra ha le sue leggende.

Scesa la sera montammo il bivacco.

Raccolti attorno al fuoco ci accingevamo a consumare il pasto quando si sentì un rumore. Erano due uomini che avanzavano piano su dei cammelli. Venivano avanti tranquilli, come fossero di casa. Smontarono di sella e affidarono le bestie ai cammellieri. Ibn li salutò con un cenno della mano e li invitò a sedere accanto al fuoco, che crepitava tra lingue bluastre.

Ci presentammo. Quando seppero che venivo da Venezia mi chiesero dove fossi diretto.

“Alla corte del Gran Khan” dissi. “Rechiamo un’ambasceria del Papa e mercanzie. Oltre a un’ampolla contenente sette gocce dell’olio che brucia sull’altare del Santo Sepolcro”.

Quelli sbiancarono.

“I mongoli” disse disgustato il più giovane dei due. “Mangiano tutto ciò che può essere masticato”.

La cosa non mi sorprese. Ne avevo sentite di tutti i colori sul loro conto. Ma insistetti per saperne di più.

Paolino veneto
La “Cronologia magna” di Paolino Veneto (XIV secolo), con Gerusalemme al centro del mondo, è la mappa della Terra nota ai tempi di Marco Polo

“Durante gli assedi” spiegò il più anziano, che aveva il volto butterato, “sia assedianti che assediati procedono alla decimazione, scegliendo il compagno da divorare. E quando piove il loro paese si riempie di topi. Divorano anche quelli. Banchettano perfino con lo sterco dei loro cavalli, se capita”.

Così disse. E io rabbrividii.

“Questi sono i tartari” aggiunse l’altro avvicinando col piede un ciocco alla fiamma.

“Una cosa buona però ce l’hanno” fece il più anziano.

“Ah, sì?” intervenne Ibn. “E cosa?”.

“Il sistema postale” rispose il forestiero con un sorriso beffardo.

“Hai voglia di scherzare?” fece Ibn.

“Niente affatto. Tutto il loro vasto impero è coperto da una fitta rete di stazioni postali in modo da far viaggiare veloci gli ordini del Khan. A ogni stazione un cavaliere attende l’arrivo della staffetta, che si fa precedere da un rumore di sonagli appesi alla cintola. In un solo giorno un dispaccio dell’imperatore è capace di coprire duecentocinquanta miglia”.

“Fiuuu” fece Ibn sbattendo gli occhi.

“E comunque state procedendo nella direzione sbagliata” osservò il forestiero più anziano.

“Ho lasciato mio padre e mio zio a Trebisonda” osservai, “in attesa dei salvacondotti. Io ne ho approfittato per fare una piccola deviazione”.

“Non così piccola” ribatté lui. “Ma avrai avuto le tue ragioni”.

Venne acceso un narghilè, che iniziò a passare di mano in mano.

“Sai” disse a un tratto il forestiero più anziano, passandomi il narghilè e indicando il capocarovaniere. “Lui porta un nome glorioso. Lo stesso di Ibn Battuta il Grande. Tu sai chi è Ibn Battuta il Grande?”.

Feci no con la testa.

Allora quello prese a raccontare: “Ibn Battuta il Grande è il primo viaggiatore della storia. Non viaggiava in cerca di guadagni ma per il gusto di viaggiare. Non molti sono in grado di comprenderlo. Suo malgrado divenne ricco, per poi perdere tutto. Era un pozzo di scienza. Conosceva l’animo umano. ‘Sono figlio della strada’ diceva di se stesso. Dottissimo nella legge coranica. Prodigioso nella sapienza. Percorse in lungo e in largo la nostra grande umma. A Ceylon deliziò per tre giorni le orecchie del sovrano con storie di re e di terre lontane guadagnandosi la stima della corte. Sceicchi, califfi, sultani facevano a gara per averlo ospite. E quando in Mali attese quattro mesi prima di essere ricevuto a corte così si rivolse al sultano: ‘Che cosa potrò raccontare di voi agli altri sultani?’ In tal modo si guadagnava il rispetto. Questo era Ibn Battuta il Grande, una vita spesa in groppa a un cammello, armato della sua lingua e del suo cervello”.

“Tu confondi questo Ibn Battuta il Grande con Ibn Fadlàn” lo corresse la mia guida. “A dire il vero, l’unico Ibn Battuta che conosco l’hai davanti a te” concluse battendosi sul petto.

“Non parlo di un uomo esistito” disse l’altro dopo un attimo, con fare misterioso. “Ma di un uomo che esisterà. O meglio. Già esiste. Vive a Tangeri. Ma è solo un ragazzino”.

“Vuoi farci credere che prevedi il futuro?” domandò Ibn.

Il forestiero non rispose. Si limitò a sorridere, avvicinando le mani al fuoco.

“Sei mio ospite” disse Ibn sorridendo “e non voglio contraddirti. Sia come dici tu”.

Di colpo sentimmo un rumore assordante e un’ombra gigantesca ci passò sopra le teste. Alzai gli occhi e vidi una sagoma scura allontanarsi nel cielo a gran velocità dopo essersi abbassata e avere afferrato un cammello per portarselo via.

Ci alzammo e corremmo nella sua direzione raccogliendo gli archi e le daghe. Ma ormai era tardi. C’era concitazione nell’accampamento. Molti insistevano per spostare le tende in un luogo più riparato. Ma Ibn non volle saperne. Disse che per quella notte la Faija non sarebbe riapparsa.

Tornammo a sederci attorno al fuoco.

“Che diavolo era?” dissi turbato. “Esistono uccelli tanto grossi da queste parti?”.

“Oh, non era un uccello, amico mio” fece il capocarovaniere riprendendo a fumare. “Era un drago”.

“Un drago?” feci con l’aria chi non se la beve.

“Be’, prima era una donna. La figlia di Ippocrate per l’esattezza. Se sai chi era…”.

“L’inventore della medicina” feci io. “Non ne conosco altri”.

“Proprio lui. E quella è sua figlia. Un sortilegio l’ha trasformata così”.

“Non spererai che ti creda. E comunque, se fosse vero, dovrebbe avere millecinquecento anni”.

Ibn sorrise. “Fa’ come vuoi. In ogni caso, la storia è questa, se vuoi sentirla”. E prese a raccontare: “Come avrai visto, misura perlomeno cento braccia di lunghezza”.

Annuii.

“Dimora in un vecchio castello diroccato dietro quei monti laggiù”. E indicò col dito. “Si mostra due o tre volte l’anno. Non è una minaccia per gli uomini, se nessuno la insidia. A trasformarla così è stata una dea di nome Dimatha, gelosa della sua bellezza. Fin quando un cavaliere non la bacerà sulle labbra, manterrà quelle sembianze”.

Tra lo sconcerto, risi.

“Perdonate. Ma chi potrà mai baciare un drago?”.

“Non molto tempo fa” disse con pacatezza Ibn “venne da Rodi un cavaliere, giurando che l’avrebbe baciata. Si credeva coraggioso, ma giunto davanti al drago il cavallo s’impennò e lui ne fu sbalzato. Raccolse le armi e corse via. Il drago si levò in volo e lo afferrò prima che potesse mettersi in salvo. Lo trasportò sopra un dirupo e lo gettò dabbasso. Il poveretto si sfracellò al suolo come un guscio d’uovo. Non un solo osso rimase intatto”.

“Dio mio!” esclamai. “Che storia!”.

“In seguito” proseguì Ibn “giunse al castello un giovane ignaro di ogni cosa. Entrò nel castello e in una sala vide una ragazza bellissima che si pettinava davanti allo specchio. Tutt’intorno erano forzieri colmi di ricchezze. Il giovane, rapito dalla bellezza della ragazza, si fece avanti dichiarandole il suo amore. Lei gli rispose: ‘Se mi vuoi, torna fra una settimana, dopo essere stato nominato cavaliere. Sarà sufficiente che mi baci sulle labbra e sarò tua, insieme alle ricchezze che vedi’… Una settimana dopo il giovane tornò, accompagnato da amici. Ma invece della ragazza trovò ad attenderlo il drago. Era sul punto di scappare quando il drago gli parlò: ‘Non aver paura: sono io, Teofila. Se mi vedi sotto le sembianze di un drago la colpa è di un incantesimo che col tuo bacio puoi spezzare’. Ma il giovane non volle saperne. Girò sui calcagni e se la diede a gambe tra le risate dei compagni. Da allora” concluse Ibn “nessuno ha mai potuto fissare il drago negli occhi senza morirne all’istante”.

“Non crederai a quello che racconta” fece il fratello minore di Ibn, che fino a quel momento era rimasto zitto, ascoltando ogni cosa con l’aria divertita.

“No di certo”. Afferrai il narghilè dalle mani del forestiero più giovane e trassi una boccata, subito esplodendo in una scarica di tosse.

“Lo vedi, a non credermi!” fece Ibn battendomi tra scapole col palmo della mano.

In quel momento udii un sibilo. In un attimo un lungo serpente mi passò accanto, tutto contorto.

Balzai di lato cacciando un grido.

Ibn rise.

“Stai tranquillo. Non è pericoloso. A meno che tu non sia nato fuori del matrimonio”.

Rise di nuovo.

“Non capisco. Spiegati meglio”. Cominciavo a irritarmi.

Nel frattempo il serpente si era fermato e pareva fiutarmi ondeggiando la testa, che aveva sulla sommità due occhi ipnotici cerchiati di bianco.

“Resta immobile. Non muovere un muscolo” mi intimò Ibn.

“Sei sicuro di quello che dici?”.

“Fidati”.

Il serpente mi venne più vicino, mi sfiorò i calzari, sibilando con la lingua di fuori. Occhi accesi come braci.

Rabbrividii. Ma non mi mossi, augurandomi che Ibn avesse ragione.

Un attimo dopo il serpente si volse e riprese la sua strada.

Tirai un sospiro di sollievo.

“Che ti dicevo?” fece Ibn dandomi un’altra pacca sulla spalla.

“Perché eri così sicuro che non mi avrebbe morso?”.

“Non lo ero” ammise lui.

“Cosa!” dissi alzando la voce.

“Quel serpente è un Ouko” continuò lui con calma. “I nostri padri lo usano da secoli per accertarsi se un figlio è legittimo o bastardo”.

Non trattenni un sorriso.

“Questa la devo capire” dissi.

“È semplice” fece lui. “Chi è nato dal matrimonio non ha nulla da temere. L’Ouko gli passa accanto senza fargli alcun male. Ma i nati dall’adulterio… l’Ouko li morde iniettando nelle vene il suo veleno”.

“Mi prendi in giro?”.

“Ti assicuro che è così. Da secoli se un marito ha dei dubbi non ha che da ricorrere all’Ouko… Spesso non è necessario arrivare a tanto. È la stessa moglie a confessare per non mettere a repentaglio la vita del figlio concepito fuori del matrimonio”.

Scossi il capo. Era incredibile il numero di superstizioni di cui era schiava questa gente del deserto.

“Sai” fece lui un attimo dopo. “Una volta ho attraversato il deserto d’Arabia, verso la Caldea, fino al luogo dove sorge la torre di Babele. Ne avrai sentito parlare…”.

“Certo” dissi. “Ma come ti viene in mente?”.

Siccome restava in silenzio, lo incalzai: “Visto che non vuoi rispondere, dimmi almeno com’è, questa famosa torre”.

“Be’, prima di tutto non è una vera torre. Piuttosto, una cittadella fortificata, posta al centro di una vasta pianura, con al suo interno alloggi e abitazioni. Pare che a costruirla sia stato un re chiamato Nimrod. Il primo re che l’uomo si sia mai dato. Le sue mura raggiungono un’altezza di settanta stadi, tanto perché ti faccia un’idea. Dicono che un tempo il fiume Eufrate vi scorresse tutt’attorno, prima che Ciro il Grande, re di Persia, ne deviasse il corso frammentandolo in trecentosessanta piccoli rivoli. Lo fece, dicono, per punire il fiume, responsabile dell’annegamento di molti suoi soldati, i quali avevano tentato di attraversarlo a cavallo o a nuoto. Pare avesse giurato di ridurlo a una pozzanghera che perfino una donna avrebbe saputo attraversare senza sollevare le vesti”.

Risi di gusto a quelle parole. Rifiutai il narghilè che mi veniva porto. Ne avevo avuto abbastanza.

“Comunque” riprese lui “della torre rimane in piedi ben poco e tutt’attorno è pieno di sterpaglie, serpenti e altre bestie velenose che non lasciano avvicinare nessuno… e di Ouko, naturalmente”.

Era tutto molto interessante ma cominciavo ad avere sonno. Sbadigliai. Gli occhi mi si chiudevano. Ibn se ne accorse e mi tese la mano per aiutarmi ad alzarmi.

“Buonanotte” disse. “Domani ci aspetta una lunga sgroppata”.

Ci salutammo e andammo a dormire.

I due forestieri ci fecero sapere che sarebbero ripartiti prima dell’alba pertanto ci avrebbero saluti ora. Li vedemmo andare a coricarsi accanto ai loro cammelli.

“Non si separano mai dalle loro bestie” osservò Ibn.

Il giorno dopo, ripreso il viaggio poco dopo il sorgere del sole, giungemmo a un villaggio di uzbeki. Fummo accolti con calore. È gente molto ospitale, se non si hanno intenzioni ostili.

Era sera e si preparavano a banchettare.

Indossavano abiti curiosi, che li facevano somigliare a diverse varietà di uccelli.

Ci invitarono a cenare con loro, in un grande spiazzo dove l’intero villaggio consumava il pasto in comune.

Il capovillaggio, che di nome faceva Orzon, volle che sedessi alla sua sinistra e chiese a Ibn di accomodarsi alla sua destra. Dietro di noi, lo stuolo delle figlie, il volto coperto da un velo dorato.

Vennero servite carni bianche e verdure arrosto. Prese a circolare una bevanda alcolica che stordiva in fretta.

“Bevine un sorso” fece il capovillaggio passandomi una ciotola di legno contenente un liquido trasparente con riflessi color cedro. Profumava anche a distanza. Non avrei saputo dire di che.

“Di che si tratta?” domandai.

“Si chiama Guybalse” rispose lui. “Ma credo che voi la conosciate col nome di ‘balsamo del paradiso’… Viene servito in ciotole di legno di aloe, che come sapete cresce solo nel paradiso terrestre…”.

“Sul serio?” dissi imbastendo un largo sorriso incredulo e badando al tempo stesso a non offenderlo.

“Il guybalse” continuò lui “è fatto con le foglie di abebissam. Ora vi mostro”.

Infilò la punta del coltello nella ciotola e l’avvicinò al fuoco.

“Vedete, se il liquido brucia significa che è vero guybalse. Molti ricorrono a surrogati, per avarizia”.

La lama del coltello prese a sfrigolare e poi si incendiò.

“Bevi, fratello. Ti trasporterà in paradiso. Vedrai che sonno ti farai, tra poco”.

Un po’ riluttante presi la ciotola e bevvi fino in fondo.

“Bravo. E ora tu” disse rivolto a Ibn, che non se lo fece ripetere.

Di colpo la testa prese a dondolarmi.

“Stai bene, fratello?” mi domandò Ibn sorridendo.

“Credo di essere sul punto di svenire…”.

“Stai tranquillo. È un effetto che dura poco” mi incoraggiò il capovillaggio.

Difatti poco dopo mi ripresi. O così mi parve.

“Venite” disse Orzon, allungando un braccio per tirarmi su.

“Dove andiamo?” domandai.

“Lo vedrete” fece l’uomo, in tono misterioso.

Camminammo dietro di lui verso il fondo del villaggio. Reggeva una fiaccola con cui faceva luce davanti a sé. Giungemmo davanti all’imboccatura di una caverna. Due enormi colonne ai lati dell’ingresso. Vi entrammo, dopo esserci tolti i calzari. Torce appese alle pareti la illuminavano. Il soffitto era altissimo. Al centro di una sala circolare sorgeva un altare ricavato dalla roccia.

Il capovillaggio ci invitò a sedere ai piedi dell’altare, su una specie di gradinata. A poco a poco la grotta si riempì di folla. Un vociare sommesso. Tutto il villaggio era affluito dentro la grotta, che pareva in grado di accogliere più gente di quanto mi aspettassi. La calca era tale che sentii ginocchia e gomiti premermi contro la schiena. Un uzbeko molto anziano, in abito sacerdotale, alzò le mani e intonò una preghiera cantata.

Tutti chiusero gli occhi ma non io. Ero come ipnotizzato.

Per un po’ non accadde nulla. Poi di colpo si udì un frullare d’ali e un’ombra entrò nella grotta volando sopra le nostre teste e andò a posarsi sull’altare. Sbatteva le ali freneticamente.

Tutti aprirono gli occhi e si levò un boato pieno di ammirazione.

Guardai Ibn, che sorrideva beato.

L’uccello, non più grande di un’aquila, aveva sul capo una cresta piumata simile a quella del pavone; il collo era colore dell’oro, il becco blu indaco, le ali porpora e la coda con striature arcobaleno.

Dopo essersi scossa a lungo la bestia ora ci fissava immobile.

Era uno spettacolo maestoso e sinistro al tempo stesso. Sentivo che qualcosa stava per accadere.

Di colpo l’uccello prese fuoco, come per autocombustione. Si levò un boato ancora più alto del precedente. In un attimo l’uccello era ridotto a un mucchietto di cenere.

Ero sconvolto. Guardai Ibn, in cerca di una spiegazione.

Lui aveva capito tutto. “Mai sentito parlare dell’araba fenice?” disse sussurrandomi a un orecchio.

“Certamente…”.

“Domani” continuò lui “al posto di quella manciata di cenere vi sarà un baco. E il giorno seguente quel baco si trasformerà in un uccello perfettamente formato. I sacerdoti lo nutriranno per un giorno e poi esso prenderà il volo per riapparire tra centocinquant’anni… Rallegrati, hai assistito a un fenomeno rarissimo. La prossima volta che accadrà noi due saremo pulviscolo e granelli di sabbia del deserto”. E mi diede un colpetto col gomito.

Un’ora dopo, storditi da quello spettacolo portentoso, giacevamo nei nostri giacigli, semplici pagliericci all’interno di una costruzione di legno dal profumo di resina. Passai una notte piena di sogni agitati, a metà tra la meraviglia e l’incubo.

L’indomani salutammo i nostri ospiti e ci rimettemmo in viaggio, dopo aver ricevuto dagli uzbeki abbondanti scorte di viveri.

Due giorni dopo, al termine di una marcia sostenuta, raggiungemmo la catena dell’Ararat, la cui sommità è perennemente innevata. Anche i versanti più esposti ai venti del nord lo sono. Sotto quelle nevi perenni, a circa duemila metri di altezza (e a tre dalla vetta), su una spianata, secondo la leggenda doveva trovarsi semisepolto lo scafo dell’Arca di Noè. Iniziammo l’ascensione del monte per un sentiero stretto e tortuoso, anch’esso coperto da un soffice manto di neve, ma fortunatamente non ghiacciato. Tre giorni vagammo in cerca dell’Arca, trovando riparo, la notte, in grotte abbastanza asciutte. In un villaggio ai piedi dell’Ararat avevamo assoldato un paio di guide che giuravano di conoscere il luogo in cui si trovava l’Arca. Ma da come procedevano avevo l’impressione che non ne sapessero più di noi.

Dopo altri due giorni di quel girovagare venne giù una grandine così violenta che dovemmo riparare in una grotta al cui basso soffitto sbattei la testa più volte. Un cammello rimase accecato a un occhio e un altro cadde a terra stecchito, il cranio fracassato.

Non credevo ai miei occhi. Mai vista una grandine fatta di palle grosse come quelle.

La mattina era tornato il sereno e riprendemmo la marcia. Lungo un sentiero accidentato che si inerpicava su per il versante più scosceso del monte, non lontano da uno spunzone roccioso vidi sbucare dal terreno due enormi catene.

Rivolsi a Ibn uno sguardo interrogativo.

Sorrise. “A quelle catene, dice la leggenda, fu legato il gigante Andromeda, prima del diluvio universale” disse, come se nulla fosse.

“Hai una risposta per tutto” gli feci notare. “E cosa aveva fatto, quel povero gigante, se è dato saperlo?”.

“Aveva trasgredito le leggi di Iafet, figlio di Noè e fondatore di Giaffa, città antica e nobilissima, sorta addirittura prima del diluvio”.

“Ma non si trova a centinaia di miglia da qui?”

“Sì, ma il gigante fu inseguito dai Cavalieri delle Sette Tavole fin su questo monte, dove sfiancato si lasciò catturare e incatenare.

Ci avvicinammo. Ibn si chinò e prese in mano con cautela un osso corroso dal tempo, lungo almeno cinquanta piedi.

“Lo vedi?” disse. “È una costola del gigante”.

Aggrottai la fronte.

“Raccontalo a un altro, fratello” dissi. “E ora sputa la verità. Scommetto che si tratta dei resti di un mastodonte”.

Ibn eluse anche questa domanda, posò l’osso e ci rimettemmo in marcia.

“Un giorno ti mostrerò la tomba di San Giovanni” disse a un tratto venendomi accanto.

“Dove si trova?”.

“A Efeso. Pare che Giovanni si sia fatto tumulare da vivo. E che ancora adesso si veda la terra muoversi, come se sotto si agitasse qualcosa di vivo. Dicono che è Giovanni che riposa in attesa del giorno del giudizio”.

Sollevai un sopracciglio, ma non dissi nulla.

A pomeriggio inoltrato attraversammo un’ampia vallata in fondo alla quale sorgevano i resti di un’antica città. Ruderi corrosi dal tempo e infestati da erbacce.

“Quella era una città rigogliosa e potente, un tempo” osservò Ibn indicandola con il suo bastone. “Un giorno il primogenito del re si innamorò della figlia di un pastore. La prese in sposa, nonostante l’opposizione del padre. Ma poco dopo la ragazza morì. Tali erano la passione e la disperazione del principe che una notte egli scoperchiò la tomba e la possedette da morta. Nove mesi dopo gli apparve in sogno un angelo che gli disse: ‘Vai alla tomba e aprila’. Il principe obbedì, ma non appena la ebbe spalancata un mostro alato balzò fuori strepitando. Uccise il principe e da quel giorno cominciò a volare in cerchi concentrici sopra la città terrorizzandone gli abitanti, assetato di sangue. Da quel momento la città prese a spopolarsi e a sprofondare lentamente sottoterra”.

Mi sentii un groppo alla gola e mi venne spontaneo accelerare il passo, tirando per un braccio il mio amico.

Al tramonto, ai piedi di un monticello dalla punta rocciosa svettante come una guglia, scorsi qualcosa luccicare tra la neve. Ci avvicinammo e vedemmo affiorare dalla superficie del manto nevoso una punta di legno.

Le guide fecero segno che eravamo arrivati a destinazione. Il fratello di Ibn scosse il capo poco convinto.

Iniziammo a scavare con le pale.

“Dicono che si verifichino strani fenomeni, attorno all’Arca” fece Ibn a un tratto, appoggiandosi alla pala per riposare un attimo.

“Che tipo di fenomeni?” domandai continuando a scavare.

“Rumori, apparizioni… Cose simili. Lo scopriremo presto” fece riprendendo il lavoro.

Un paio d’ore dopo la prua dell’Arca risplendeva davanti a noi, sotto i raggi lunari. Stando a quel che affiorava doveva trattarsi di una grande imbarcazione quadrata dal guscio incatramato dentro e fuori. Il legno pareva cedro. Doveva misurare trecento cubiti di lunghezza, quaranta di larghezza e trenta di altezza. Vi entrai dentro attraverso una breccia, chinando il capo sotto una trave. All’interno si erano conservate pareti divisorie, capriate, puntoni.

“Per costruirla deve essere stato abbattuto un bosco di almeno ottomila ettari” disse una voce alle mie spalle.

Mi voltai. Era Ibn.

“Già” ammisi. “Forse anche di più. E perlomeno trecento quintali di pece, duecento tra carpentieri e manovali e un paio d’anni di lavoro”.

“Mio fratello ci aspetta fuori. Ha paura ad entrare” disse Ibn; che un attimo dopo aggiunse: “Il diluvio deve essere stato previsto con largo anticipo, a quanto pare”.

“Non crederai alla storia del diluvio universale” feci.

“Perché no? E questa allora? Come ci è finita qui?”.

“Dài, usciamo. Qui dentro non è sicuro. L’ho sentita scricchiolare”.

Di colpo sentii un ruggito. E un istante dopo il frastuono di un branco di cavalli al galoppo. O forse erano antilopi. O gazzelle. Non saprei. Fra questi rumori si introdusse sovrastandoli il barrito di un elefante. Spaventoso. Raggelante. Per un attimo le orecchie presero a dolermi. Le tappai con le mani. Ibn se ne accorse e fece segno che anche a lui capitava la stessa cosa.

Fui tentato di scappare ma Ibn mi trattenne per un braccio.

“Restiamo e vediamo che succede” disse.

Ci guardammo attorno. Mi affacciai da una breccia e guardai fuori. Il fratello di Ibn era rimasto solo. Le guide, ci disse, si erano dileguate.

“Cosa credi che fossero quei rumori?” domandai a Ibn.

“Le voci dei morti” rispose.

“Credi che ritroveremo la via per tornare, senza le guide?”.

“Senz’altro” disse lui sorridendo. “Ho un senso dell’orientamento molto sviluppato”.

“Beato te”.

A un certo punto scorsi un gatto. Poi una lepre, che corse via. Poi un ippopotamo. E lentamente l’Arca cominciò a popolarsi di animali di ogni specie, i quali entravano da un pertugio lontano, nascosto alla vista.

“Forza, andiamocene!” disse Ibn, per la prima volta agitato. “Li abbiamo risvegliati!”.

Non me lo feci ripetere. L’Arca a quel punto cominciò a oscillare.

Scappammo fuori. Mi volsi e la vidi iniziare a sbriciolarsi. Il monte fu scosso da una scarica violentissima.

“Allontaniamoci di qui!” gridò Ibn. “Prima che sia tardi”.

La montagna era scossa da capo a piedi. Ruzzolammo a terra più volte. Sotto di noi, in più punti si produssero slavine. Ma per fortuna in breve la terra smise di tremare. Seguimmo il sentiero percorso all’andata con passo svelto ma prudente, ogni tanto voltandoci verso la cima e le pareti del monte. Ma quando fummo a metà strada trovammo i corpi delle guide stesi a terra, immobili, gli abiti come lacerati da artigli e inzuppati di sangue, i volti orribilmente dilaniati.

Io e Ibn ci scambiammo un’occhiata.

“Teniamoci pronti, amico mio” fece lui, sfoderando la scimitarra, subito imitato dal fratello.

Impugnai con entrambe le mani la spada e roteai su me stesso pronto a ricevere l’assalto.

Restammo così, immobili, per alcuni istanti. Poi, siccome non succedeva nulla, rinfoderammo le armi e ricominciammo a scendere.

Ma a un tratto una gigantesca figura tutta di neve ci si parò davanti. Aveva l’aspetto di un’enorme scimmia bianca e si batteva il petto cacciando fuori un grido tremendo che pareva rimbombare per tutta la volta celeste. Non la si sarebbe detta una creatura di questo mondo tanto era immensa, innalzandosi fin quasi a toccare il cielo. Doveva essere stato un dio a mandarcela. O essere Dio stesso. Chiudemmo gli occhi e ogni cosa scomparve… E fu allora che ci trovammo sul vasto oceano, a bordo dell’Arca, a combattere con il mare in burrasca. E io ero Noè, e Ibn mio fratello. E dopo un mese di navigazione l’acqua degli oceani prese a calare, calare, fino a scomparire del tutto. Finché l’Arca si arenò su una secca e da lì non si mosse più. E proprio lì, in quel punto esatto, dall’Arca sorse la prima cattedrale cristiana. Così vuole la tradizione, conclusi rivolto al duca di Urbino, del quale ero ospite da un paio di giorni.

Voi avete visto sul serio l’Arca, messer Marco?, fece il duca con gli occhi sbarrati.

Certo, mio signore. Se permettete, vi ho portato in dono un pezzetto del suo scafo.

Cavai dal mantello un frammento di legno di cedro e glielo porsi.

Non smetteva più di rigirarselo tra le mani e di mangiarselo con gli occhi.

Quanto potrà valere?, disse rivolto a se stesso.

Chiamò un valletto.

Riponete questa reliquia nella stanza dei forzieri.

Era estasiato.

Questa sera, mio caro Marco, darò un banchetto in vostro onore. Preparatevi. Sarà mia ospite anche una vostra cugina che non vedete da quando eravate ragazzo, da prima che partiste per il vostro viaggio. Sofia, ricordate? L’ho fatta venire apposta per voi.

Deglutii.

Mio signore, sarà per me una grande gioia riabbracciare la cara cuginetta Sofia. E ora, col vostro permesso, mi ritirerò nelle mie stanze. Debbo scrivere alcune lettere.

Ma prima di andarvene, fece il duca, trattenendomi per un braccio, ditemi: come conquistaste il cuore del Gran Khan? Di questo sono soprattutto curioso. Dicono che nessuno prima di voi sia riuscito in una simile impresa…

Mio signore, mi chiede di volare direttamente al cuore della storia. Ma come potrei non accontentarvi. Il pudore mi vieta di essere io a parlarne. Vi leggerò pertanto ciò che scrisse mio padre al riguardo.

Tirai fuori una lettera gualcita e, dispiegatala, presi a leggere: ‘Quando mio figlio Marco, giovanissimo, giunse alla corte del Gran Khan, di lui l’imperatore dei tartari apprezzò subito il coraggio, la schiettezza, la curiosità per le usanze degli altri popoli e la capacità di adattarsi a esse. Lo spedì in missione diplomatica per tutto il suo vasto impero perché Marco, a differenza degli altri suoi emissari, al ritorno non si limitava a riferirgli dell’ambasceria ma gli parlava dei costumi e delle credenze dei popoli incontrati; tornava con mappe, misurazioni, descrizioni e aneddoti riguardanti le terre visitate. E per tutto questo il Gran Khan lo amava come un figlio. Questo è lo spirito che dovrebbe animarci, sempre…’.

Ripiegai il foglio e lo rimisi al suo posto.

Il duca parve commosso. Nascose il volto tra le mani probabilmente per asciugarsi qualche lacrima.

Ma è vero, disse un attimo dopo ricomponendosi e fissandomi serio negli occhi, che al vostro ritorno nessuno più si ricordava di voi e che quando avete bussato al portone di casa per poco non vi scacciavano?

È andata proprio così, risposi. Ci rimanemmo malissimo, sulle prime. Ma poi ne comprendemmo le ragioni…

Su, raccontate ancora, vi prego. Siete un narratore così formidabile…

D’accordo, dissi con un sorriso compiacente. Se non ricordo male era il 14 settembre dell’anno 1295. Giunti a Venezia, scoprimmo che non solo i nostri concittadini ma anche i parenti più stretti ci credevano morti da anni. Ci presentammo al portone di casa, nella contrada di San Giovanni Crisostomo, in abiti alla tartara, fatti di panni rozzi, e molto cambiati nell’aspetto, con un non so che di barbaro nei tratti e nei modi. E, quel che è peggio, avevamo quasi dimenticato la lingua veneziana: la parlavamo sì, ma frammista al tartaro, ragion per cui erano pochi quelli che riuscivano a comprenderci, e solo a stento. Con nostra sorpresa, nel palazzo ora vivevano alcuni parenti di Trieste, i quali rimasero a fissarci a lungo come se ci vedessero per la prima volta. Ma nemmeno ci respinsero, beninteso: del resto come avrebbero potuto? Venne organizzato un banchetto in nostro onore, con molta pompa, al quale furono invitati tutti i rami principali e collaterali dei Cà Polo. E al momento buono, mio padre, mio zio ed io facemmo la nostra comparsa rasati, ripuliti, profumati, e con indosso lunghi abiti di raso cremosino. Lavate le mani nei bacili invitammo tutti a prendere posto a tavola. Con una scusa qualsiasi, ci assentammo un attimo e facemmo ritorno indossando abiti di damasco. Consegnammo quelli indossati in precedenza ai servi ordinando loro di farli a pezzi e di spartirsi le stoffe. Dopo alcune portate, ci alzammo di nuovo e ritornammo con nuovi abiti di velluto. Consegnammo anche quelli di damasco ai servi perché li dividessero tra loro. La cosa si ripeté altre due volte, tra lo stupore generale. Alla fine, toltici i mantelli e fatta uscire dalla sala la servitù, mi alzai dalla tavola e andai a prendere in camera i tre indumenti di panno grosso con cui eravamo arrivati. E qui, servendomi di un grosso coltello, cominciai a farli a pezzi, scucendo gli orli e le doppie cuciture e cavando da certe tasche interne gioielli preziosissimi in grande quantità, tra cui rubini, zaffiri, diamanti, smeraldi, che posai sul tavolo. Erano tutto ciò che avevamo potuto portare con noi dal Catai. Al momento di congedarci dal Gran Khan, difatti, avevamo scambiato tutte le ricchezze che egli ci aveva donato in tanti anni con quelle pietre preziose, in modo da nascondercele addosso e trasportale senza rischi durante il lungo viaggio. Davanti a tanta magnificenza e sfoggio di ricchezze, il cuore dei parenti si sciolse all’istante e tutti vennero ad abbracciarci, ben lieti di riconoscerci come familiari. E questo è tutto…

Sono senza parole, caro Marco. Permettete un’ultima domanda e poi vi lascerò andare, prometto… Qual è stato il vostro itinerario? Alcuni dicono che viaggiaste via mare, altri via terra. Qual è la verità?

Il viaggio di andata, feci io, durò tre anni e qualche mese, mio signore. E lo compimmo tutto per la via di terra, se si eccettua la traversata da Venezia a Acri; e da lì lungo una pista carovaniera fino a Trebisonda, come ho accennato. Poi, invece di piegare verso Ormuz, prendemmo in direzione di Baku, e poi di Samarcanda. Molte le terre che attraversammo. La Grande Armenia, di cui vi ho parlato. La Georgia, ricca di cavalli. L’Azerbaijan, il Turkmenistan, l’Uzbekistan, il Tajikistan, il Kazakistan, e infine il Catai, cui ho dedicato il mio umile libro detto “Il Milione”. Questo, il viaggio d’andata. Dei viaggi che compii per conto di Kublai Khan e del viaggio di ritorno… lasciate che vi racconti tutto nel dettaglio questa sera e le sere che seguiranno; finché avrete la bontà di ospitarmi a corte. Ora, se permettete…

Naturalmente, disse il duca con fare benevolo.

Erano anni che campavo in quel modo. Raccontando un mucchio di frottole sui miei viaggi. In cambio di un’ospitalità adeguata e di qualche dono, s’intende. Vagando di corte in corte. Pronto a recarmi ovunque fossero disposti a pagare per ascoltare la mia storia. Mai avrei immaginato di impiegare in quel modo il resto dei miei giorni, da che avevo fatto ritorno dal Catai, ricco e felice. Ma, quando le ricchezze accumulate negli anni trascorsi alla corte di Kublai Khan finirono, non seppi inventarmi di meglio. Sono sempre stato pigro. Anche per questo mi unii a mio padre e mio zio quando decisero di partire per quel lungo viaggio, durato ventitré anni. Era un modo come un altro per sfuggire alla noia quotidiana e alle responsabilità che l’età adulta comporta. Eccomi qua, dunque: un imbroglione come tanti. I miei viaggi di gioventù mi hanno reso celebre e le principali corti europee si sono contese la mia presenza, desiderose di sentirmi raccontare la mia storia, infarcita di esotici prodigi. Era quello che tutti si attendevano da me, perciò decisi di accontentarli. Che male c’è, pensai al principio. Come diceva il mio povero padre: tutto ciò che desideri ti appartiene.

Gianluca Barbera

Gruppo MAGOG