“La democrazia è dispotica, Kissinger va matto per i tagliolini alle vongole e il Duce, come diceva Longanesi, rimarrà in Italia, da morto, per più tempo di quanto non ci sia rimasto da vivo”: dialogo con Marco Giaconi Alonzi
Leggo l’ultimo romanzo di le Carré, A legacy of spies, tutto un gioco di specchi tra il passato del Servizio inglese e la sua realtà odierna, più semplicistica e giustizialista. A un certo punto, salto in aria come una pentola a pressione: anche le Carré, sempre a sinistra, sbotta perché c’è troppa gentucola che va a cercare i peli nell’uovo. Traduco dall’originale, sciogliendo: “Quegli avvocati civili in infradito, di alti principi, tutti lì a dar la caccia al Servizio come fossero a richiamare, fischiando, un uccel di bosco”. Stupendo. Anche le Carré, con gli anni, ha perso qualche freno.
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La battuta di le Carré mi fa ricordare qualche conversazione erudita (ma non troppo) con un compagno di Scuola Normale. Compagno è una parola grossa: diverse generazioni ci separano, né c’è stato tra noi alcun tipo di tutoraggio perché in Italia, semplicemente, non esiste. È valsa soltanto una buona intesa intellettuale e cordiale tra il pimpante che scrive qui e il professionista. Sto parlando di Marco Giaconi Alonzi, ex docente di filosofia della scienza a Zurigo nei primi anni Ottanta (quando Feyerabend faceva fischiare le orecchie un po’ a tutti), poi funzionario dello Stato. Ha visto la Prima repubblica, la Seconda (cosiddetta) e per mantenere i suoi vecchi hobby continua a leggere. E scrivere: il suo ultimo libro s’intitola Le guerre degli altri (una buona intervista qui). Credetemi: di Giaconi andrebbero lette anche le cose antiche come Spazio e potere sulla geopolitica di inizio (dominio del mare) e di fine (dominio del denaro sporco) Novecento. Se proprio non avete tempo, leggetevi in poche ore il suo lavoro sull’intelligence e le forze armate in Cina (Uccidere con una spada presa in prestito, Il campano 2017). Intanto, gli fisso un’intervista.
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Bei tempi, quando fresco di laurea lo incontrai di persona. Perché Marco Giaconi è meglio di un cocktail Maugham-Sterne-Hardy elaborato (con De Gaulle a fare d’arancia). Con classe impeccabile, da gentiluomo, mi disse una volta “quanti libri abbiamo bloccato, senza saperlo!”. Mi ci è voluto un po’ di tempo per capire che figure come la sua sono dei veri libri viventi e semoventi, non tanto per il loro carico di storie ma perché Giaconi coincide col profilo di individuo che prende la follia di lato e la trasforma in genio. (Andrea Bianchi)
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Professore, le propongo una serie di domande per nulla intellettuali. Cosa Le hanno dato l’università e la Scuola Normale nella sua formazione? Voglio dire, anche per il gergo e la postura, diciamo così.
Poco o niente sul piano della carriera. La Scuola Normale è come l’Ente Nazionale per la Montagna, ovvero uno dei 500 Enti inutili. Non crea carriere, anzi. Mi ricordo che il Direttore della Scuola dei miei anni, un fesso iperbolico, salutandoci dopo la Laurea, ci disse che “un giorno un ex-normalista vi darà una mano”. Con questa mentalità, c’è da ringraziare il cielo che la SNS non sia diventata un argomento fisso del “Vernacoliere”. Se crei, per quattro anni, il mito per il quale “noi siamo i più bravi”, poi devi anche fornire una base di partenza accettabile, altrimenti i casi sono due: o non siamo i più bravi o tu, dirigenza della SNS, non conti nulla. E sei anche mitomane. Né vale la sequenza degli “allievi famosi”. Ogni università ce l’ha. Sul piano culturale, la SNS qualcosa, comunque, mi ha dato. Ma eravamo in anni speciali, dove tutti i grandi (Noam Chomsky, Giuseppe Galasso, Arnaldo Momigliano e tanti altri) venivano in SNS e seminavano. Ed era merito personale di tanti docenti della SNS. Ora, con il Nulla che vedo tra i professori attuali, temo il peggio anche in questo caso.
A cosa paragonerebbe Pisa?
Pisa è una città stranissima, che sembra diretta dal suo sottoproletariato. Una città cafonissima che non conta assolutamente niente. Con il dono, quasi esoterico, di mandare in rovina tutto ciò di rilevante che possiede. La stessa capacità di lavoro del Dahomey, la stessa intelligenza diffusa di una cittadina del Belgio. Un paragone possibile? Le città segrete, le ZATO, della vecchia URSS, piene di plutonio.
Parliamo di statisti. Vorrei cominciare da Tocqueville. Una volta lei ha scritto che Tocqueville viene prima della Reazione dell’Ottocento, ed è curioso perché i più dicono che l’Ottocento è il secolo della libertà. Mi spiega di più riguardo al pronostico espresso da Tocqueville ne La democrazia in America riguardo la democrazia dispotica?
La democrazia dispotica è uno dei pronostici di Tocqueville, insieme alla “dittatura della maggioranza”, previsione che si è materializzata perfettamente nel XX secolo e ora, nel Terzo Millennio. Oggi, ogni democrazia precostituisce i propri slogan e le proprie agende, e li fa votare bene, i sudditi, con la scusa della “crisi” o di altro, mentre la debolezza della rappresentanza attuale deriva proprio dalla percezione, da parte degli elettori, che nulla può smuovere gli apparatchik del Regime. La Democrazia Dispotica, comunque, fa sempre poco o nulla, ed è questo il suo vero tallone di Achille. Per Tocqueville, il nuovo dispotismo veniva dalla tendenza della democrazia all’appiattimento sociale, con la conseguente diminuzione del ruolo dell’individuo, il che fa sorgere un nuovo “dispotismo”. Si, è vero, ma oggi noi abbiamo individui-massa totalmente egolatrici, ma privi invece di qualsiasi carattere e senso della società. Lo stesso meccanismo di Tocqueville, quindi, ma attraverso l’egocentrismo di massa, l’esaltazione del gregge in quanto tale. E questo crea un nuovo dispotismo, ma proprio dell’untermensch.
Considerato che Tocqueville scrive tra 1835 e 1840, dopo un lungo viaggio sul continente americano, direi che è testimone credibile. Parliamo ora delle qualità di scrittore di Tocqueville. Dove dà il suo meglio? Nei diari dal deserto americano, nei ricordi del ’48? Leggo ad esempio nel suo diario stampato da Einaudi: “Perché, quando si diffonde la civiltà, diminuisce il numero degli uomini di valore? Perché, quando il sapere diventa appannaggio di tutti, i grandi talenti intellettuali diventano rari? Perché quando non vi sono più classi basse, non vi sono più nemmeno classi superiori? Perché quando la capacità di saper governare arriva alle masse, vengono a mancare le grandi intelligenze alla guida della società? L’America presenta chiaramente questi problemi, ma chi potrà risolverli?” La nota è del 6 novembre 1831. Siamo rimasti ancora lì o sbaglio?
Io amo molto i diari del viaggio in America, quello compiuto con De Beaumont. Mi sembrano tutte descrizioni lucide e letterariamente originali. Per quel che riguarda la necessaria polarizzazione sociale, non siamo rimasti lì, ma anzi la situazione è molto peggiorata. All’epoca, il medio che arrivava al potere in mancanza di meglio era, almeno, acculturato, seppure nei termini di Bouvard e Pécuchet. Oggi, arriva al potere solo l’uomo del gregge, e proprio in quanto tale. Le classi superiori sono tali in quanto rispondono alle gerarchie accettate, quindi non sono superiori.
In effetti Tocqueville, che ha festeggiato il compleanno lo scorso 29 luglio, è estremamente attuale. Forse più che per i suoi pensieri sulla democrazia, proprio per quel che ha scritto sulla centralizzazione dello Stato. Nel 2017 il partito comunista cinese ha tradotto ufficialmente i classici del pensiero politico europeo e cos’ha scelto? L’Antico Regime e la Rivoluzione di Tocqueville. Insomma, ai compagni cinesi importa la durata, l’idea che la Rivoluzione (cinese, francese) è solo il coronamento di un processo di accentramento che dura secoli. In altre parole, che la continuità vince, sul lungo periodo, sulle rotture e le infrazioni dell’ordine. La rivoluzione sarebbe allora il coronamento della tradizione.
Per la Cina comunista, il regime attuale è la realizzazione del ciclo plurimillenario in cui la Cina Eterna si rialza dal “secolo dell’umiliazione”, che termina proprio con la presa del potere da parte del PCC. È sempre bene ricordare che gli allievi ufficiali cinesi, nelle loro accademie, studiano anche la magia e l’esoterismo tradizionale. Mao era un taoista, più che un “marxista”. La Rivoluzione è il ritorno al potere di Mao, il nuovo “Shi Huang Ti” comunista, che riunificherà ancora una volta tutta la Cina.
Proviamo ancora a tirare fuori Tocqueville dal recinto degli scienziati politici. Se lo leggiamo da cima a fondo, arriviamo a quei suoi appunti finali e inquieti sul pauperismo nell’Inghilterra imperiale. Eppure, nonostante le sue tare, l’Inghilterra con la sua stratificazione sociale in classi resiste ancora. Come mai?
Perché la stratificazione in classi britannica è il risultato di una società che non ha mai avuto scosse rivoluzionarie europee, salvo la decapitazione di Carlo I Stuart nel 1649. Poi, l’orgoglio di classe dei poveri non ha permesso né di acquisire né di imitare lo stile delle classi ricche ma, anzi, ha reso i poveri fierissimi delle loro tradizioni.
C’era un grande storico svizzero, Burckhardt, che a botta calda teneva lezione su Tocqueville. I suoi appunti sono raccolti nelle opere complete in tedesco, io ne tradussi una manciata quando ero alla Normale. Eccone uno sull’Illuminismo che credo le piacerà: “L’Illuminismo francese e poi la Rivoluzione francese si riempiono molto la bocca di ‘umanità’. Con la correlata ‘borghesia mondiale’ che rappresenta l’immagine, tutta europea, di vissuti generali ed interessi comuni e una volontà di ispessirsi; perciò non la nazionalità, bensì un più sano Stato-patria, che sia signore del sentire diffuso. Dove vi è già un potere, la nazionalità cresce per agglomerazione: principi e popolo sono d’accordo. Oppure un partito sovversivo sfrutta la richiesta di completare la nazionalità con una brusca svolta (come fanno gli irredentisti italiani). Uguaglianza e partecipazione tramite opinione personale sono diventati moneta di scambio concettuale – e come una volta, si può dare anche un’uguaglianza insieme al dispotismo”. Notevole, no?
Mille volte condivisibile. Anche oggi l’identità nazionale eccessiva è l’immagine di una “rivoluzione” che si consuma, appunto, solo in effigie. La partecipazione non è una garanzia di libertà, ma solo di costrizione della massa sugli individui.
Ancora una parola sulle degenerazioni dispotiche (dittatura del tweet!). Nel 1955 Auden osservava, da scrittore, che negli anni Quaranta, tra LaDemocrazia in America e L’Antico Regime, il nostro adotta uno stile alla Tucidide. Questo perché ha assistito alla Rivoluzione del ’48 in presa diretta e incomincia a vedere, da ex parlamentare, che l’organismo sociale passa attraverso un decorso di situazioni critiche, di malattia e di ripresa. Auden aveva ragione, considerato che Tocqueville aveva studiato bene le lingue antiche con un abate, da ragazzo?
Si, aveva ragione. Tocqueville legge la realtà che si trova a vivere con le categorie dei classici, da Tucidide a Senofonte. E vede i suoi tempi proprio con le ipotesi storico-metafisiche dei classici greci: la ciclicità delle categorie mentali e dei fenomeni storici, il Fato, il giusto ruolo delle grandi personalità, che però non possono andare oltre i limiti imposti, appunto, dal Fato agli avvenimenti storici.
Vede in giro qualche politico che abbia la stessa forza espressiva di Tocqueville? Oppure calma piatta? Se ricordo bene, per Lei non c’è filosofo della politica che tenga: se arriva uno statista preparato non ce n’è per nessuno. Da questo punto di vista, andrebbe recuperata la lezione di Kissinger. Ma chi lo legge più in Italia? Eppure quando ero in UK notavo che nelle università lo si studia ancora per bene: insomma, non era l’avvocatino di destra che mangia solo ciambelle. Kissinger è stato una specie di Tocqueville remastered, uno studioso del congresso di Vienna, l’artefice della Casa Bianca che chiude l’URSS nella morsa del maoismo e la sinistra europea nella stretta del gauchismo. Un uomo capace di organizzare la trattativa di Parigi per chiudere la guerra nel Vietnam, il trucco meglio riuscito di Cina e Russia dopo la seconda guerra. È ancora troppo presto per valutarlo?
Politici alla Tocqueville oggi? Nemmeno l’ombra. Nemmeno quelli professionalmente bravi, come Putin e Xi Jinping (in occidente nemmeno l’unghia dei nostri “vecchi”) che hanno la tecnica del potere, ma non la sua necessaria metafisica. Legarsi all’economia come arte del governo non è il modo migliore di tenere il potere, mai. Forse no, è già il momento di rivalutarlo, anche se Kissinger è ancora vivo e lavora a tutt’oggi come consulente del governo cinese. Tutto quello che ha detto Lei è esatto. Ma forse manca, nella Sua breve ricostruzione, lo spessore storico del personaggio, la sua idea, tocquevilliana, appunto, che i Paesi vivono in un contesto ristretto e ciclico di idee e di simboli. Mao Zedong può credere di essere un capo marxista-leninista, ma se si gratta sotto la crosta c’è Qin Shi Huang, l’imperatore che riunifica la Cina, ferocissimo uccisore dei suoi nemici, che si appoggerà alla scuola “legista”, come in futuro le Guardie Rosse.
Mi diceva che chi va a trovare Kissinger, oggi a New York, dice che il maestro accetta sempre volentieri un invito in un ristorante italiano e si mette a parlare: si capisce lontano un miglio che sta traducendo, faticosamente, dal tedesco che ha ancora in testa. E come tutti quelli che hanno comandato davvero, parla per apologhi. Senza mai citare Nixon in vita sua. Facciamo un esercizio di scrittura apocrifa: cosa racconta Kissinger per spiegare i movimenti nel Golfo Persico?
L’Iran vuole riprendersi il Golfo Persico, che ha ormai lasciato da troppo tempo in mani altrui. Chi vuole riprendere qualcosa, è bene che non la lasci mai. Kissinger, comunque, va matto per i tagliolini alle vongole.
Vuole deliziare i lettori di Pangea affilando un aforisma per definire il libro ‘stregato’ di Scurati?
Ha seguito il principio di Leo Longanesi: il Duce rimarrà in Italia, da morto, per più tempo di quanto non ci sia rimasto da vivo.