04 Giugno 2020

“Ma la morte ha una parola per ciascuno, pianta un punteruolo sulla fronte del tempo”. A otto anni dalla morte di Marco Cannillo, un uomo

Il luogo è accerchiato dalle risaie, specchi d’acqua dove è facile ritrovare il proprio opposto. L’assenza di boschi avvicina le montagne, sullo sfondo, azzurre, e la percezione che le cose perdute ritorneranno, prima o dopo. Dalla pianura, in effetti, ogni ombra può essere un volto familiare, ogni airone che si eleva in volo quello pensato per te, per portarti negli altri mondi.

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Le risaie sono la simulazione di un lago ma l’evento, accaduto esattamente otto anni fa, si è svolto nei pressi del Lago Maggiore. I luoghi non si scelgono a caso: quello è un luogo dove la mia famiglia ha radici – poi divulgate altrove. C’è anche un cimitero, una cappella che raduna i nostri morti. Tra quelle tombe, due ospitano i miei nonni, per parte materna; una è l’ultimo rifugio di mio padre. Dietro il cimitero c’è – o c’era, le morti mettono fra noi e le radici una frattura, pur stringendo il nodo – un campo da calcio; di fianco un sentiero penetra nel bosco. Qui ci sono tanti boschi e questo è tagliato da un fiume. In quel campo da calcio e in quel fiume siamo stati tante volte, io e Marco. Marco di cognome è Cannillo, era un amico, il marito di mia cugina Simona, il padre di Giulia e Beatrice. Quando studiavo a Milano, Marco mi ha ospitato per più di un anno nella sua casa, a Novara: un gesto di ospitalità che concede l’uso, raro, della parola “fratello”. È proprio lui, Marco Cannillo, cresciuto tra le risaie novaresi, che ha optato per la morte, otto anni fa, in un piccolo paese sopra il Lago Maggiore, il luogo delle radici, dove non ci sono negozi, neanche un panettiere, ma una chiesa, minuscola, all’ingresso.

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Una morte simile, è facile da capire, ha come esito un maremoto. Una morte simile porta con sé diverse morti. È un massacro. È come se a un certo punto bisognasse sistemare tutto, radicalmente. È un incendio. L’incendio devasta, ma infine la conseguenza del dolore è la vita – restano, esemplari, i rami neri, arsi, forse più belli, ma il verde sboccia, intorno, ovunque. La morte può essere un gesto di vita. Marco è morto da otto anni – di recente è morto anche suo padre, dilaniato da quella morte – e l’otto, rovesciato, sembra il segno dell’infinito. Oppure, sembra uno sguardo, un paio di occhi. La morte fa vedere meglio la vita.

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Secondo La Stampa, versione locale, Marco sarebbe una delle vittime della “crisi”, quella di quegli anni, martoriati, che sono seguiti al 2008. Un uomo, però, non si misura in perdita o guadagno, il metro dell’economia è risibile. C’è chi dal tracollo economico, con spavalda scaltrezza, è risorto più avido di prima. Marco non era uno ‘famoso’ – era molto amato, però. La chiesa di Lumellogno era affollata, quel giorno – radiosa, perfino. C’era qualcosa in lui, quella spina di debolezza, superiore alla vivacità di facciata, alla generosità virile, alla spacconeria. Quando uno muore così pietà e rabbia s’intersecano, come un filo spinato intorno al diamante – d’altronde, ciò che è fragile ferisce. Quella spina di debolezza è il fuoco di un uomo, il suo segreto: va premuta sulle labbra.

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Marco è morto a 42 anni, io ne ho 41 – il pensiero della morte, come una piccola bestia, va nutrito ogni giorno. Il poeta, se è tale, parla con i morti, scende agli inferi. Nel 2008 – un altro 8… – la Bur ha pubblicato un piccolo libro, Come dirsi addio, una antologia di “versi oltre la fine”. Tra quelle poesie, ne ricordo una del poeta rumeno Nichita Stanescu:

Lei era divenuta pian piano parola,
fili di anima nel vento,
delfino negli artigli delle mie ciglia,
pietra che disegna anelli nell’acqua,
stella dentro il mio ginocchio,
cielo dentro la mia spalla,
io dentro il mio io.

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Certo, la morte colpisce tutti, quanti Marco esistono al mondo, quanti si chiamano Marco Cannillo, quanti sono morti in quel modo? Alla disperazione, si somma la dispersione: viviamo come polvere prima di tornare polvere. Ma la morte ha una parola per ciascuno – piccola, cruda, in sillabe fasciate – ed è quella che va sottratta al tempo. La morte pianta un punteruolo sulla fronte del tempo. Allenta il divenire, dona fermezza a ciò che scorre, pone dei totem, delle pietre inderogabili. Alcuni dicono che, colte dal rimorso, le anime di chi sceglie la morte vagano, immemori di sé, presso le finestre, che di notte sembrano lenzuoli. Noi dobbiamo – questo è il debito e l’eredità – affilare la memoria per colpire alle spalle il futuro, danzare sopra la sua testa. (d.b.)

 

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