09 Gennaio 2019

Marcel Proust tra le spire dei manoscritti, ovvero: i grandi libri sono l’epos di ciò che sfugge. Una eccellente scrittrice mi scrive: “il mondo editoriale mi intimidisce, il bisogno di piacere è un veleno, voglio riuscire a scrivere per me”

Questo mi affascina. Sui grandi testi regna l’incertezza testuale. Falangi di filologi cercano di dissotterrare l’estremo lacerto verbale della Bibbia; gli autografi di Dante sono enigma, non esistono; le opere di Shakespeare, come si sa, erano astrali canovacci: qual è la versione corretta di Amleto? Mancanze, vuoti, screzi grammaticali. I grandi libri, i memorabili, vivono una arrendevole incompiutezza – per questo tendono all’eternità.

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Intendo. Non esiste la versione ‘corretta’ di un grande libro – quale frase illuminante Lev Tolstoj sacrifica tra la primitiva versione di Guerra e pace e il ‘visto si stampi’?; che dramma etico-estetico vive Alessandro Manzoni tra il Fermo e Lucia e I promessi sposi; nel delirio teologico s’incagliò Torquato Tasso virando la ‘Liberata’ nella ‘Conquistata’; Nikolaj Gogol’ vagliò nel fuoco la seconda parte delle Anime morte, semplificando la missione dei cercatori di reliquie; Franz Kafka, per altro, lasciò ad altri d’intendere cosa intendesse per ‘fuoco’ e ‘incompiuto’. I grandi libri procedono per tentativi, a tentoni, e noi amiamo questo fallimento, amiamo lo scrittore a quattro zampe, sospeso nel vuoto, nel suo nido di vetro, e nessuno ne registra il grido.

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proustNel precipizio di questi pensieri – l’opera è un vuoto dentro cui s’accuccia il lettore accalcando interrogativi – m’ha posto Carol Clark, straordinaria francesista al Balliol College di Oxford, per un pezzo italiana – la famiglia della mamma era di Pietrasanta – morta nel 2015, studiosa di Montaigne e Rabelais, traduttrice di Baudelaire, Rimbaud, Lautréamont. In realtà, il suo lavoro sommo è la traduzione de La prisonnière di Marcel Proust per Penguin, pubblicato nel 2002, “che una intera generazione di lettori inglesi ha condotto alla scoperta dell’inimmaginabile ricchezza narrativa di Proust”, riprodotta in questi giorni per il mercato anglofono. La rivista Literary Hub pubblica l’introduzione della Clark (ancora inedita), che si sofferma, appunto, sui manoscritti di Proust, un caos inesplicabile, l’epos di ciò che sfugge.

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“Proust componeva attraverso un complesso, micidiale processo di scrittura e di riscrittura, intrecciando passaggi composti, a volte, a distanza di anni, accumulando appunti sui margini, continuando su strisce di carta incollate alle pagine”. Rispetto a La prisonnière, il quinto volume della ‘Recherce’, il primo pubblicato dopo la morte dell’autore, la Clark scrive, “l’unica cosa di cui possiamo essere certi è che se Proust fosse vissuto in tempo per confermare il ‘pronto si stampi’ il libro sarebbe stato notevolmente diverso da quello che leggiamo oggi”. Segue rapida rassegna dei curatori che, barcamenandosi tra la mole manoscritta, hanno lavorato garantendo, da un lato, la leggibilità dell’opera, dall’altro la sua sanità filologica.

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Questo mi affascina. L’incertezza – quando termina la scrittura di un libro? Che grado di volontà può agire lo scrittore rispetto alla sua scrittura, alla sua creazione? E poi, la consistenza demoniaca della foga. Proust che accampa un tendaggio di fogli tatuati da scritte, sgorbi, disegni. Finché non scompare nel roveto della sua scrittura.

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Per chi scrive allora Proust? Per il futuro, per se stesso, per il dio delle apparenze e per quello che ama la malia umana? Perché si scrive e cosa significa ‘approvare’ un testo se la scrittura, per sua natura, disapprova l’impero del concluso, è una clausura che rompe tutte le clausole della prigionia, è lotta silente, barbarie dell’ottavo cielo?

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Una amica scrittrice – in questo tempo dove amicizia significa sopravvivenza anche senza toccarsi dal vivo – a mio avviso eccezionale, mi scrive. “Sto cercando di prendere le distanze dal mondo editoriale nei cui confronti provo un sentimento di generalizzato timore. Mi è già successo con le uscite precedenti, ma questa volta ho maturato un senso di estraneità assoluta. Voglio riuscire a scrivere per me e basta, voglio sperimentare la scrittura fine a se stessa perché non sento alcuna relazione con il lettore, tutto è schiacciato sull’intreccio, sulla trama, non esiste altro e questo fatto mi sta influenzando in senso negativo. Il bisogno di piacere è un veleno che non voglio più bere”. Penso che queste parole, di fragorosa lucidità, siano in sintonia con la scrittura fiamminga di Proust, a grumi e spire, con la sua insicura salvezza. (d.b.)

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