“Lei ha caldo al culo”. Bravo l’artista: è andato a ravanare lì dove nemmeno il genio aveva osato. E non si può che credergli, anche perché nessuno ha mai visto il suo lato B (che però, vista l’epoca, potrebbe essere bello largo, decisamente romagnolo).
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“Culo da schiaffi” verrebbe chiamato a distanza di 100 anni. E quindi tutti a sbirciare, in fila ovviamente, perché al Louvre non puoi pretendere di essere da solo.
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Pochi sanno o ricordano che in quella stanza si trova anche “Le Nozze di Cana” di Paolo Caliari detto il Veronese.
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Sulla sua tomba, posta nel cimitero di Rouen (sì, la città della cattedrale dipinta da Claude Monet nelle variazioni di luce) si può leggere l’epitaffio, composto da lui stesso: “D’ailleurs c’est toujours les autres qui meurent” (“D’altronde sono sempre gli altri che muoiono”). Geniale sino alla fine, MD. Anche nel circondarsi di paria, come ad esempio Man Ray.
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“Il grande nemico dell’arte è il buon gusto”. MD.
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Quest’anno corre il centenario di “L.H.O.O.Q.”, la “Gioconda con i baffi” creata da Marcel Duchamp: si tratta di una riproduzione fotografica della Gioconda di Leonardo da Vinci alla quale sono stati aggiunti provocatoriamente dei baffi e un pizzetto. Il titolo è sostanzialmente un gioco di parole, infatti le lettere “L.H.O.O.Q.” pronunciate in francese danno origine alla frase “Elle a chaud au cul”, letteralmente “Lei ha caldo al culo”, ma i più acuti – quindi non Alessandro Carli – suggeriscono che può essere letto anche come la parola inglese “look” (“guarda”).
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“La ‘Gioconda’ è così universalmente nota e ammirata da tutti che sono stato molto tentato di utilizzarla per dare scandalo. Ho cercato di rendere quei baffi davvero artistici”. MD
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Un manifesto contro il conformismo. “Dissacrando uno dei miti artistici più consolidati, Duchamp non intende negare l’arte di Leonardo ma onorarla, a modo suo, mettendo in ridicolo gli estimatori superficiali e ignoranti che apprezzano la ‘Gioconda’ solo perché tutti dicono che è bella, conformandosi acriticamente così al gusto della maggioranza delle persone”. Non è una frase mia, ma suona bene. E quindi va virgolettata.
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Difficile sapere – o meglio: è pigrizia – se MD abbia chiesto a Man Ray di fargli la foto della Monna Lisa per poi “disegnarla”. Forse no, visto che MD è stato uno dei maestri del “ready-made”. Però avevano un figlio in comune, i due: il movimento Dada americano, corrente d’avanguardia già nata in Europa nel 1916. Lo hanno fondato assieme.
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Scrive Octavio Paz a proposito del “ready-made”: “Categorizzare un oggetto comune prefabbricato isolato dal suo contesto funzionale, defunzionalizzato e rifunzionalizzato tramite il solo atto di selezione di un artista ad opera d’arte elevato allo status di arte”.
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“Gli ultimi cento anni sono stati retinici. Sono stati retinici perfino i cubisti. I surrealisti hanno tentato di liberarsi da questo e anche i dadaisti, da principio. (…) Io ero talmente conscio dell’aspetto retinico della pittura che, personalmente, volevo trovare un altro filone da esplorare”. MD
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“(untitled) (2000)”, lavoro coreografico firmato da Tino Sehgal e portato in scena – all’interno del cartellone 2015 del festival di Santarcangelo dei Teatri – da Boris Charmatz al Lavatoio, ha suscitato – al di là del valore dello spettacolo, un omaggio alla danza del Novecento – un vespaio di polemiche. Non tanto per la totale nudità del danzatore, ma quanto per la chiusa, incorniciata da abbondanti citazioni legate a Marcel Duchamp: Boris difatti si gira verso il pubblico e, dopo aver suonato come una chitarra il proprio sesso, si mette a fare la pipì. Un gesto del tutto ordinario che, stranissimo, a teatro fa (ancora) scalpore.
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Un’opera paradigmatica, capitale per lo svolgimento dell’arte moderna, ma spesso incompresa. Compie 100 anni, e li porta benissimo. Non fosse altro per quei baffi all’insù, molto dandy, e tornati di moda. E pazienza che sia donna: al buio, si sa, tutti i gatti sono grigi.
Alessandro Carli