Rimbaud il Veggente, Rimbaud il santo Teppista!
Letterature
“E la fiamma si mescola alla voce”. Una poesia di Pierre Reverdy
Poesia
Giorgio Anelli
Nel 1813 Alessandro Manzoni scrive Il Natale, uno degli inni sacri, non certo il più bello. Segnalo un dettaglio. Tra l’ottava e la nona stanza, Manzoni termina così: “Immensamente Egli è./ Oggi Egli è nato…”. Il virtuoso del settenario mi rimanda alla poesia più grande, “Ei fu. Siccome immobile…”. Dio è; l’uomo, per quanto titanico, fu. Eterna presenza in contrasto con l’inevitabile del passare.
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(Parentesi. Alessandro Manzoni, non so se ne siamo del tutto consapevoli, è stato una delle intelligenze assolute degli ultimi secoli, uno al pari di Goethe, di Tolstoj, di Hugo. Ha attraversato tutti i generi con genio – dal teatro alla poesia –, ha inventato, pressoché dal niente, tolti alcuni esempi fascinosi e sghembi – Foscolo, Alfieri, Nievo, Cellini – il romanzo italiano. Ha strutturato il suo pensiero in lavori saggistici da riscoprire: ad esempio le Osservazioni sulla morale cattolica, redatto due secoli fa. È stato, cioè, un artista rigoroso e inquieto, uno che si è posto i problemi capitali, estetici, formali. Un gigante, ecco).
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Vent’anni dopo Il Natale, nel giorno di Natale del 1833, muore la moglie di Manzoni, Enrichetta Blondel – madre calvinista, padre industriale, agnostico – che gli aveva dato dieci figli. Intorno a quel lutto, cui ne seguirà un altro, capitale, l’anno dopo – muore la primogenita, Giulia, moglie di Massimo d’Azeglio –, e una serie d’altri, Manzoni torna alla poesia. Il Natale del 1833 è l’abbozzo di una poesia, un guaito, il principio di un combattimento contro Dio, una fiammata. “Sì che Tu sei terribile/ Sì che tu sei pietoso”, attacca, in prima stesura, la poesia. Anche la pietà di Dio è terribile, piaga, perché Dio è soltanto quando l’uomo soffre. Dio pare agire per capriccio (“un decreto/ In ogni tuo vagir”), incurante del dolore della sua creatura, creata, forse, per schernirla (“Vedi le nostre lagrime,/ Intendi i nostri gridi;/ Il voler nostro interroghi,/ E a tuo voler decidi”).
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Il genio artistico di Manzoni sta – pure – nel fatto che ai Promessi sposi, il grande romanzo della Provvidenza, lo scrittore incorpora, in appendice, la “Colonna infame”, una vera infamia, il resoconto di un evento che dimostra l’assenza di Dio, descrive lo scettro del caos, la maldicenza come grande male, la malagiustizia come ovvietà quotidiana. La Storia della colonna infame è il tasto che autodistrugge I promessi sposi, che ne fa crollare l’impalcatura cattolica. Soltanto un genio, un artista totalmente consapevole, può disintegrare ciò che ha costruito con pazienza – d’altronde, da un grande artista non chiediamo che questo, perché la vita non è che questo, la speranza violenta, la violenta disperazione.
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Qualche anno fa, con una certa verve, Aldo Spranzi pubblicò un libro, L’altro Manzoni (Ares, 2008), che fin dall’incipit – plasmato, retoricamente, ‘a contrario’ – decostruiva tutta la metafisica cardinalizia intorno al Manzoni, ne sbriciolava l’aura da Lancillotto cattolico. “Sostenere che I promessi sposi non sono un romanzo cattolico ma un’opera pervasa da un radicale nichilismo anticristiano, e che Alessandro Manzoni non è stato mai credente, nemmeno quando si è ‘convertito’, costretto a fingere di esserlo per tutta la vita, è una tesi che va al di là della provocazione. Che l’enormità della proposta lasci perplessi, e anche infastiditi, è non solo comprensibile, ma inevitabile… Ma la nostra non è una provocazione, bensì una proposta seriamente argomentata”. Nella tesi di Spranzi, giustificata da una accurata lettura dei testi – anche se la pigliate con le pinze – ho sempre visto del vero: Manzoni è più oscuro di ciò che sembra dai lacerti di memoria scolastica.
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Intorno al Natale del 1833, la poesia incompiuta e ‘maledetta’ di Manzoni, Mario Pomilio ha scritto, nel 1983, uno dei romanzi più remoti, sussurrati, eccentrici, mirabili della nostra accidentata storia letteraria. Lo dice – preferitelo a me – Domenico Rea: “Il tuo Natale… è un libro straordinario. È un assoluto nella storia della nostra letteratura. Mi ha dato, per la sua tenuta morale, le stesse emozioni ultimative dell’Ivan Il’ic di Tolstoj; del Typhoon di Conrad; di certe altezze proprie del Manzoni, quando ti avvia a discendere nel dramma della Signora Monaca; delle pagine di solitudine di Mastro don Gesualdo”. Il romanzo, brevissimo – un centinaio di pagine –, ottenne lo Strega, superando ai punti Il raggio d’ombra di Giuseppe Pontiggia, distanziando grandemente gli altri antagonisti (Isabella Bossi Fedrigotti, Giampiero Bona, Davide Lajolo).
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Il libro, che va riletto sotto Natale per darci ragione che è la morte ad esaltare la vita, che ogni giorno dobbiamo torturarci con le domande capitali altrimenti siamo i cani del consumo, gli avvoltoi dell’arraffare, sceglie una strategia narrativa saggistica. Il cuore del romanzo è Manzoni, messo alla prova con durezza: nel giorno in cui il suo Dio si fa carne, muore la creatura che gli è più cara, la moglie. Solo che a parlare non è Manzoni, ma un narratore, che commenta alcune osservazioni – per via di lettere fittizie – della madre, Giulia Beccaria. Così, velato, sullo sfondo, bellissimo e austero, indifferente al moto umano (così lo dicono), questo Manzoni roso dal dubbio, ustionato dall’inquietudine, è di un fascino da strapparsi le pupille.
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Alcuni brani, vertiginosi, specie di rosario a cui tornare con dedizione estatica.
“Assorto in una sua sfera insonne, appartata, segreta e terribilmente alta, sembrava stremarsi a interrogare, se posso dir così, quei cieli inamovibili dove Dio scrive i suoi silenzi. Posso anche provare a figurarmi la successione dei suoi pensieri: quel Dio che un giorno l’aveva scelto e voluto suo eleggendolo addirittura a proprio testimone, e che lui in risposta, fedelmente quanto poteva, aveva adorato, cantato, esaltato con tutte le forze dell’animo e dell’ingegno, poteva dunque quel Dio lasciargli mancare il suo soccorso in un momento in cui lui ne aveva così bisogno?”
“Qualcosa in lui non si placava, il rovello di non capire come mai Dio non è così – così, intendo, quale ce lo balbettano di tremore in tremore i nostri poveri cuori – e perché non si lasci raggiugere e ci attiri e ci deluda, e perché i suoi decreti ci rimangano oscuri e ci appaiano talmente diversi da come li speravamo, e perché insomma nonostante Dio il dolore abiti il mondo… Non pensate voi stessa che esiste un limite oltre il quale occorre desistere dal voler forzare l’imperscrutabile? Altrimenti anche Dio può diventare un vizio”.
“Egli si è fatto conoscere. Pronunziando il proprio silenzio, ha ricordato al fedele la sua propria impronunziabilità”.
“Non si ha il diritto di pensare a un fallimento di Dio per esserci sentiti, noi, trascurati da Dio”.
“È di nuovo il dilemma di dover commisurare Dio all’oscurità delle sue decisioni… quel terribile seguito d’atti feroci, di decisioni perverse, di tormenti patiti al di là d’ogni limite accettabile o pensabile, e, in tutto, quel misto d’orrori fatti subire ingiustamente e di disperazione rimasta senza risarcimenti, senza sensi plausibili, senza promesse di riparazioni né avvisi di compassione, è come se mettessero a repentaglio quanto in lui ancora resta dell’idea che s’era fatta della provvidenzialità del dolore”.
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Mario Pomilio, già autore di un libro folle e infinito, Il quinto evangelio, entra nel costato di una vita, non si sorprende – che scrittura sicura, obbediente, simile a un occhio inciso su giada – nel riconoscere che di noi è importante la lebbra, la bruciatura, la preghiera rimasta sul labbro come un ago. Non è il torbido della tenebra, il solito torpore mistico, l’aristocrazia gnostica, ma l’ingresso, per via di sangue, nella sequela che è allucinata luce. Nel giorno del Natale si inaugura la Passione. (d.b.)