06 Gennaio 2021

“Il sociale non c’entra nulla con le elemosine. Io, poi, prendo sempre le strade difficili”. Manuela Diliberto dialoga con Donata Perelli

Palermo, estate 2018, ancora lontani dalla pandemia. Ho incontrato Donata in un afosissimo giorno d’estate, uno di quelli in cui si sognano spiaggia e mare mentre nel piccolo ufficio del Centro Astalli situato in un antico palazzo non lontano dai Quattro Canti, lei sognava la calma per dedicarsi al lavoro che il via vai di alcune ragazze le impediva di completare.

Mi trovavo lì con Cristina Dogliani per intervistare e fotografare alcuni degli utenti del centro. Avremmo voluto ascoltare le loro storie. Dopo molti rifiuti e qualche perplessità Donata ha accettato di incontrarci. Osservandoci con occhi prudenti ci ha spiegato il perché dei dubbi sulle interviste. “I giornalisti che arrivano qui finiscono più che altro per infastidire i ragazzi. Fanno un sacco di domande e poi se ne vanno con le loro verità preconfezionate”. Cerco di spiegarle il mio punto di vista. Sembra addolcirsi. Per la prima volta la osservo anch’io. Ha uno sguardo tenace e riflessivo, come se fosse insieme dentro e fuori a ciò che vive. Ho un’intuizione improvvisa: le chiedo se, con i ragazzi, posso intervistare anche lei.

1. Come ti chiami, e perché i tuoi genitori hanno scelto proprio questo nome?

Donata PerelliPerché hanno scelto questo nome? La risposta può sembrare un po’ strana, nel senso che ho scoperto negli anni che Donata, in genere, è il nome che una coppia dà a un figlio quando lo aspetta da tempo, e che, quindi, quando finalmente arriva questo figlio, si dice che è stato donato. In realtà, io sono la quarta di sei figli, quindi non può essere per questo motivo (ride). Però mi chiamo Donata Anna. Di “Anna” so il motivo: era un’amica di mia mamma che stava morendo, e quindi lei ha voluto darmi questo secondo nome. (Parla con un accento emiliano fortemente influenzato dal palermitano. Quando glielo faccio notare sembra le faccia piacere).

2. Se non ti chiamassi in questo modo, che nome sceglieresti se potessi prenderlo in prestito ad un personaggio storico o reale del passato o del presente?

Donata Perelli – Fai domande molto difficili (sorride timidamente e fa una lunga pausa di riflessione). Non saprei proprio… Come nome di persona ogni tanto qualcuno, per sbaglio, mi chiama Costanza. Questa scelta mi ha sempre stupita perché infatti penso di essere una persona abbastanza determinata, abbastanza costante in alcune cose. Però rispetto ad una persona conosciuta, non… non mi viene in mente nessuno in questo momento.

M.D. – Sei felice di essere te stessa!

D.P. – Sì… (ride). Ma al di là di quello, ci sono tante persone che stimo, magari persone della mia vita concreta tipo Alberto Biondo (operatore di Borderline Sicilia, un’associazione Onlus) che è la persona che ha accompagnato questo gruppo, un laico comboniano… lui mi sembra una persona bellissima. Non mi potrei chiamare Alberto, però… (ride sobriamente). Personaggi della storia, invece… In questo momento non mi vengono. Ci penserò stasera (conclude con un sorriso infinito).

3. Sai che questa intervista anticipa il mio prossimo progetto letterario in cui sono intervistate persone note o sconosciute che avrebbero potuto condurre una vita comoda e vivere con tranquillità e facendo finta di nulla, ma che han deciso di sobbarcarsi rischi, disagi di ogni genere ed il biasimo della famiglia, degli amici e\o della società, per aver compiuto scelte “scomode”. Tu, secondo te, perché sei seduta su questa sedia e stai per essere intervistata?

Donata Perelli – Allora… Intanto non penso di aver fatto delle scelte che meritino di essere raccontate… Però sicuramente scelte, in parte, scomode, perché avrei potuto studiare nella vita qualsiasi cosa e invece ho deciso di studiare il Servizio Sociale e… anche se il lavoro è difficile e non viene valorizzato, è ciò che mi piace fare.

M.D. – Piuttosto scomodinaa!

D.P. – Molto scomoda… Nel senso che penso, non tanto modestamente, che alle superiori non avevo grossi problemi a studiare, potevo quindi scegliermi qualsiasi facoltà, e ho scelto quella…

M.D. – E cos’è che ti ha spinto? Quale voce interiore?

D.P. – Ero stata già… Precious! (E alza lo sguardo verso una ragazza che sembra chiederle qualcosa. È già un miracolo che abbia il tempo per fare l’intervista: sono in molti a uscire e entrare dal piccolo ufficio dipinto di bianco. Alcuni chiedono dei documenti, altri un asciugacapelli… La maggior parte di loro sembra ignorarci del tutto). Cosa vuoi? Un sacchetto? Piccolo? (poi riprende rivolgendo lo sguardo verso di me, come se per tutto il tempo avesse tenuto il filo del discorso saldo in testa)… Quando avevo diciassette anni sono andata in Burundi con mia sorella e una mia amica. E niente, già lì ero rimasta affascinata dall’Africa. Sono andata in una missione perché un amico di famiglia era un missionario saveriano che stava giù. Ci sono rimasta un mese, non tanto per lavorare, ma per osservare… anche se qualcosina l’abbiamo fatta per noi, per avere un’esperienza concreta. E quindi questa è stata la prima esperienza… Poi, ero giovane e spensierata e mi è venuta la voglia di imparare il francese, perché lì le persone per lo più parlano francese, e di fare qualcosa che mi riportasse ad avere un contatto con l’Africa, così, un po’ in generale, un po’ in modo utopistico. Poi l’anno dopo sono stata in Kenya con un progetto del comune… paese molto diverso…

M.D. – Perché diverso?

D.P. – Perché intanto è una colonia inglese e non belga. Paese molto più ricco rispetto al Burundi che è molto più povero, la guerra civile non ce l’hanno avuta per così tanto tempo come in Burundi, poi anche la società civile era meno martoriata da un certo punto di vista anche se c’era molto più disagio, tipo i bambini che sniffavano la colla per strada, oppure la droga nuova, sniffare e ciucciare la benzina degli aerei: non ti fa sentire la fame, non ti fa sentire niente. Quindi c’è un disagio da certi punti di vista enorme, le baraccopoli, dove i bambini crescono per strada…

M.D. – E tu l’hai visto?

D.P. – Io ho visto i ragazzi che sniffavano la colla più che altro. Non sentono la fame. Non hanno genitori, non hanno niente, sono proprio ragazzini di strada.

M.D. – E questo ti ha cambiata?

D.P. – Sicuramente! È una cosa che consiglierei di fare a tutti. Soprattutto quando sei giovane, un’estate della tua vita o solo tre settimane… Sono esperienze che per me valgono la pena. Dopo ho cominciato a studiare Scienze Politiche: avevo questo desiderio di occuparmi di cooperazione internazionale… Poi ho fatto un anno di studi in Francia, a Toulouse e ho visto cosa vuol dire più concretamente fare cooperazione internazionale e non era la mia strada… Troppi documenti da compilare! E poi, almeno per me, c’era sempre questo scrupolo: ma chi sono io? L’uomo bianco che ti dice come fare a costruire il tuo paese? Cioè questo è un dubbio che tutt’ora… anche se sono nel mio paese mi chiedo: come mi devo comportare? È molto difficile. Chi sono io per dire agli altri come si devono comportare? …Ho sempre avuto questi dubbi e ho iniziato a cambiare ramo e a fare servizio sociale. È una scelta scomoda perché si sa com’è l’ambito del sociale, soprattutto in Italia… non è molto finanziato, né molto riconosciuto. C’è sempre la difficoltà, soprattutto in Italia, di scambiare il sociale con “ti faccio le elemosine”, che non c’entra niente! Non si riesce a svincolare da questo “ti sto aiutando”, da un certo paternalismo. In più ho deciso di non lavorare nel pubblico dove son presenti altri ambiti in cui lavorano gli assistenti sociali, dall’ospedale, al giudiziario, al comunale, che già è un’altra cosa perché hai lo stipendio a fine mese e il tuo ufficio. Nel mio caso, oltre agli schiaffi che ti prendi, ci sono anche soddisfazioni quotidiane, e anche se è un lavoro più sicuro, io non mi vedrei mai lavorare in una casa di riposo – gli assistenti sociali fanno anche quello – che è un accompagnamento alla morte in sostanza. Noi siamo fortunati perché il nostro è un accompagnamento alla vita, ma a una vita autonoma.

M.D. – Ma il tuo posto come viene finanziato?

D.P. – Il progetto SPRAR è un progetto all’interno del comune di Palermo. Il titolare ufficiale è il Comune, ma viene subappaltato sempre al terzo settore. Quindi noi siamo il terzo settore che fa una cosa di cui è titolare il comune di Palermo.

M.D. – E il tuo stipendio?

D.P. – Terzo settore. I soldi vengono da fondi pubblici. Purtroppo a Palermo si verificano ritardi tali che non riusciamo a volte a pagare il bagno schiuma per i ragazzi, figuriamoci gli stipendi per gli operatori! Noi simo fortunati, noi centro Astalli: per dire, ho ricevuto qualche settimana fa lo stipendio di… maggio (registriamo ad agosto, quindi poco prima dei decreti sicurezza voluti da Matteo Salvini oggi aboliti). Ho un’amica, una collega che lavora per un’altra cooperativa, che aspetta da un anno lo stipendio. Ecco… questo è un altro motivo della scelta difficile: io potrei starmene al nord, dove qualsiasi cooperativa schifosissima lo stipendio non te lo fa mancare mai. Io sono di Piacenza. Questa è sicuramente un’altra scelta difficile anche da fare capire ai miei genitori. Negli ultimi anni ho trovato tanti lavori perché nell’ambito immigrazione adesso c’è bisogno. Mio padre una volta mi fa: “Ma non è che devi trovarlo proprio a Palermo il lavoro, puoi anche trovarlo vicino casa”. È vero, però io sono contenta di stare qua. A parte perché non ci si annoia, visto che ci sono sempre problemi da risolvere, e poi c’è una vitalità e un ambiente diverso che ti dà ancora la speranza di andare avanti, anche se è lo stesso tipo di ambiente che ti taglia le gambe a volte… e lì ti viene lo sconforto e dici: “Vabbé non funziona niente, basta”, come in questo momento per esempio (e ride).

M.D.  – E poi il “lavoro” sono gli esseri umani!

D.P. – E questa è anche la difficoltà. Io da quando sono tornata qua, fra gli utenti –  noi abbiamo questa scelta di lasciare la porta aperta – mi porto il lavoro a casa per fare da là le cose per cui è necessaria un po’ di concentrazione. Fra gli utenti e i colleghi… mi sono resa conto da qualche mese di voler andare a vivere da sola perché non voglio vedere esseri umani la sera se sono di cattivo umore (lo dice con un sorriso imbarazzato… quasi a scusarsi di essere umana anche lei). È stancante, è molto stancante, e poi il problema dell’altro te lo porti a casa, specialmente io che non ho un marito, non ho figli, non è che sono a casa e mi metto a fare tutt’altro… Può essere che sono da sola e mi ritorna il pensiero di questo, di quello… Però, ci sono anche tante cose positive che probabilmente in altri lavori trovi più difficilmente. Se sei più “comodo” a stare tutto il giorno davanti ad un computer, dall’altro lato o ti annoi o hai bisogno di relazioni umane… che a me non mancano nel quotidiano! (Ride con un’ironia che trattiene un principio di stanchezza).

Manuela Diliberto e Donata Perelli; photo Cristina Dogliani

4. Ne L’Arte della guerra, scritta fra il 1519 e il 1520, Machiavelli diceva che “Gli uomini che vogliono fare una cosa, debbono prima con ogni industria prepararsi per essere, venendo l’Occasione, apparecchiati a soddisfare a quello che si hanno presupposto di operare”. Nelle piccole cose, o ancor più nelle grandi, è sufficiente impegnarsi con ogni industria, con grande zelo, tenacia e ostinazione, o si ha anche bisogno dell’Occasione?

Donata Perelli – Io penso che ci sia bisogno dell’occasione. Poi sono anche molto fiduciosa nel fatto che quando uno si prepara bene, se l’occasione non arriva oggi, arriva domani e se non arriva in un posto, arriva in un altro. Questo perché io forse sono stata molto fortunata. Da prima di laurearmi non ho mai avuto problemi a trovare lavoro e… sembra a volte che le occasioni mi vengano a cercare! Per esempio, ero in Libano e mi sono dovuta licenziare per ritornare qua, perché questo era il posto che desideravo nella mia vita e non potevo sognare che ritornare qua, a Palermo, in questa veste… Da un lato sono veramente fortunata e mi dico, se non viene da un lato l’occasione, magari arriva un anno dopo o arriva in un altro modo. E sicuramente… sono d’accordo sul fatto che la preparazione è importante per essere, appunto, pronti

5. A cosa pensi, cosa provi nei momenti più duri quando hai tutti contro e le critiche si abbattono numerose? A quale forza ti sei aggrappata?

Donata Perelli – Quando capitano questi momenti, e capitano spesso, penso che ho sbagliato perché, per l’appunto, non dovevo accettare una situazione così difficile, così sfidante. Potevo accontentarmi di stare più vicino alla mia famiglia, ai miei amici e non c’era bisogno di andare per forza così lontano… ma poi mi aggrappo al fatto che quotidianamente ci sono soddisfazioni, quotidianamente gioie. Se dopo tre anni voglio ancora rimanere qua a Palermo, un motivo c’è, ci sono le belle relazioni che ho creato con alcune persone che vivono qua…

M.D. – Ma la forza da dove la tiri fuori?

D.P. – Dalle persone che incontro, penso (dice decisa). Poi c’è la Fede (le ho chiesto se aveva voglia di dirmi se fosse credente e ha risposto che lo è. Mi ha detto di essere cattolica). Anche se la fede non è solo qualcosa cui aggrapparsi quando si cade, anche se aiuta molto… Non mi piace evocarla solo per le difficoltà.

6. Cosa fa la differenza fra il decidere di intraprendere la via più tortuosa e, invece, il far finta di niente?

Donata Perelli – Che differenza c’è fra le due posizioni? Quando mi hai proposto l’intervista mi sono detta, vabbé, io non c’entro niente, perché nella mia testa sto facendo quello che è normale… Però la stessa cosa mi capita anche in montagna, quando vado a fare delle passeggiate. Mi succede spesso di scegliere una strada e di dire a quelli dietro: “Mi raccomando, non seguitemi!”, perché se c’è la possibilità di prenderne una difficile, io la prendo! (Ridiamo insieme). Quindi inconsapevolezza della scelta, sicuramente, e anche un modo più leggero per vivere…

M.D. – Leggero?! (Le chiedo sorpresa).

D.P. – Ma… non lo so… A volte mi chiedono: “Ma cos’è che ti ha portato a fare questo?!”, come se fossi un missionario. Ma io non sono un missionario! Io faccio un lavoro che mi piace, intanto (dice, tirando fuori quella strana forza che sa di determinazione e irremovibile risolutezza interiore), ma che non è facile (ride), che è pieno di difficoltà. L’ambiente di Palermo non è quello che aiuta, sicuramente, però lo faccio perché mi piace, e perché ho uno stipendio, non lo faccio perché sono una missionaria… con tutto che io ho una grandissima stima dei missionari! Io cerco sempre di dirmi “è un lavoro ed è un lavoro uguale ad un altro”, perché il rischio opposto è che la gente pensi, “Ah, io faccio del bene per cui sono buono!”… No, non è vero… C’è tantissimo schifo nelle coperative, cosa risaputa! C’è gente che fa finta di fare del bene per mascherare schifezze, cosa ancora più ripugnante perché si ha a che fare con gli esseri umani, non con una macchina.

7. Una grande pena, una grande apprensione o una grande paura, possono giustificare la defezione da una scelta che in determinate circostanze può rivelarsi fatale sia per se stessi che per la collettività? Fino a che punto ci possiamo scusare quando a pagare per la nostra inerzia è anche qualcun altro?

Donata Perelli – Allora… Da un lato io penso che la gente se la deve sentire, perché se uno non si sente di fare una cosa, non la farà mai bene. Dall’altro lato, se uno c’è già dentro non si può più tirare indietro perché, appunto, ogni sua scelta, se sa che ricade sugli altri, è una grossissima responsabilità. Mi viene in mente che una volta all’università ci hanno detto: “C’è un treno che sta andando addosso ad una persona. Se lo devii, non le andrà più addosso ma si andrà a schiantare e tutti quelli che saranno su quel treno moriranno”, tu cosa fai? Non fai niente? O decidi di agire? … Cosa fai?

M.D. – E allora? Cosa fai? (La incalzo, con un nodo allo stomaco).

D.P. – Io per fortuna non mi sento in questa posizione in cui devo far ammazzare qualcuno per salvare gli altri… Però sento tanto il peso delle scelte o delle mancanze: se io sbaglio una cosa, quella persona non riuscirà a fare i documenti, se ne sbaglio un’altra, quella persona rimarrà bloccata in Italia per tot mesi senza poter lavorare o non potrà andare dal medico… Sono scelte più piccole, io non sono né un ministro, né… niente, però penso che ci sia un grande peso e che non sia giustificabile l’inerzia. Quanto meno questo. …Non so se è la risposta giusta.

8. Un mio conoscente conserva ben in mostra fra i suoi libri, nella libreria del suo salone, una copia di Mein Kampf. Davanti al mio stupore e alle mie domande ha spiegato seraficamente che si tratta dell’omaggio che i suoi genitori ricevettero il giorno del loro matrimonio in Germania, negli anni 30, come si usava fare per le coppie di giovani sposi, e che per lui non si tratta che di un caro ricordo di famiglia e niente di più. Pensi che la sua spiegazione e la sua scelta siano comprensibili e legittime?

Donata Perelli – (Sospira). Comprensibile se ti spiega la questione tradizionale, ma legittima poi no, soprattutto conoscendo la lavata di capo che hanno fatto a tutti gli studenti tedeschi, dopo, per far capire loro l’importanza della caduta del nazismo. Almeno in Germania hanno fatto una presa di coscienza. In Italia neanche quella… (ride).

9. Se non fossi te ma fossi un’altra persona e ti incontrassi e avessi occasione di conoscerti un po’, con che parole descriveresti Donata? Che descrizione ne daresti?

Donata Perelli – (Riflette qualche secondo). Sicuramente determinata. E mi definirei… Me l’hanno detto, ed è per quello che devo ricordarmi le parole precise… e “Dagli occhi un po’ malinconici, nostalgici”, che in realtà credo che sia una cosa completamente vera, nel senso che qualche volta ho pensieri e mi incupisco… Per cui penso che sono nata in un periodo sbagliato a livello storico…

M.D. – Perché? Quando volevi vivere?

D.P. – Non lo so… Forse nel secondo dopoguerra. Senza “forse”: nel secondo dopoguerra (ride).

M.D. – C’era più fermento, senso di costruzione…

D.P. – Sì, è questo… Io sento che ho bisogno di lavorare in una situazione attiva e ricca di fermento, sennò dopo un po’ muoio.

M.D. – Mi verrebbe da dirti “ma che ci fai a Palermo”? … Poi invece lo capisco!

D.P. – Se potessi imbarcarmi su una nave di quelle che fanno soccorsi in mare, ci andrei subito! Dovrei avere l’occasione di incontrare qualcuno che offra un lavoro di questo tipo. A parte che adesso non ce ne sono più operazioni di tipo di salvataggio: è presto fatto! Poi lo farei forse come esperienza. Comunque so che è molto pesante. La mia inquilina lo faceva, e non era molto felice di partire…

10. Se non fossi Donata Perelli, chi vorresti essere?

Donata Perelli – (Ride un po’). È troppo difficile… (Riflette per qualche minuto. Come se la domanda non avesse alcuna ragione ai suoi occhi, ma non osasse dirlo).

M.D. – Se ci devi pensare così a lungo… (Sorridiamo insieme).

Domanda Personale. “Cosa vuol dire per te “razzismo”?

Donata Perelli – Ho rivisto il razzismo in Italia! Mi sembra quasi che in fondo non ce ne sia… che non ce ne sia poi così tanto: il fatto è che sono andata a vivere in Libano per un anno e lì ho capito cosa significhi realmente considerare qualcuno inferiore. In Libano le persone di colore non sono neanche considerate esseri umani. I cristiani sono i più razzisti di tutti, anche perché sono i più ricchi… Per cui c’è questo fenomeno molto inquietante che si chiama Kafala System (“Kafala” che in arabo significa “fideiussione”), per cui fan venire delle donne da altri paesi, soprattutto asiatici o africani, per farle lavorare in casa. Appena giunte in Libano, prendono loro il passaporto lasciandole in scacco totale, imprigionate nella casa del padrone che è libero di non pagarle, di picchiarle o violentarle. Ancor più grave, se una di queste donne non ti va bene, non fa le pulizie come vuoi tu o altro e le si vuole cambiare tramite l’agenzia, c’è una cauzione di 1500 dollari da pagare. Allora, per evitare di pagare, le gettano giù dal balcone! (La guardo allibita). E non solo in Libano! È una pratica molto diffusa nel Medio Oriente. Lì ho capito cosa vuol dire veramente razzismo

M.D. – Secondo te la discriminazione sessista inasprisce il razzismo?

D.P. – Così, la prima cosa a cui penso è la tragedia delle donne che arrivano dalla Nigeria. A volte sanno e a volte non sanno che devono venire qua per prostituirsi, perché costano meno di una donna rumena (ride con amarezza). C’è un mondo talmente marcio dietro a questo mercato e poi il fatto che, dopo, loro non si sentano più utili se non a vendere il corpo… Non so, non mi viene in mente il modo di collegare sessismo e razzismo (dice, con fosse stanca). Poi non so neanche se ci sia del sessismo in questo, o semplicemente del razzismo…

M.D. – Ma tu non pensi che sia più difficile per una donna partire dal Mali e arrivare in Libia, che per un uomo?

D.P. – Sì, sì, assolutamente. Questo, sì, infatti. E poi essere una donna starniera in Italia è molto più difficile, tant’è che capita ancora che le donne rimangano a casa. L’uomo esce per lavorare e imparare l’italiano, mentre la donna rimane in un limbo esistenziale per cui sarebbe voluta rimanere nel suo paese, però è qua e non parla neanche l’italiano. Magari porta il velo e le persone le danno ancora meno confidenza…

M.D. – Pensi che i migranti cattolici siano trattati in modo diverso dai migranti musulmani?

D.P. – Da parte di una persona di mezza età, cattolica e italiana, la differenza di accettazione è sicura, almeno per quel che riguarda il pregiudizio. Poi magari se conosce meglio la ragazza nigeriana che dice di essere cristiana e che è un tipino, allora cambia e dice che no, vanno bene anche i musulmani! Altrimenti, sul momento, sì, perché l’islamofobia è un fenomeno che viene definito dall’ignoranza, non dalla conoscenza…

M.D. – Pensi che ci sia molta ignoranza in Italia a questo proposito?

D.P. – Assolutamente sì. Ma temo non solo in Italia. In Francia c’è sempre stata questa battaglia sulla laicità forzata, il divieto di portare il velo in certi ambienti. Se ne parla molto e quindi c’è forse meno ignoranza. In Italia c’è un tasso altissimo di analfabetismo: si guarda la televisione e si beve tutto. Mia nonna, per esempio, è stata la prima a voler andare in Africa a raggiungere un missionario che lei conosceva e aveva sempre avuto questo sogno… quand’ero piccola mi diceva: “Un giorno tu andrai a lavorare in Africa!”. Nonostante questo, adesso sente le schifezze al telegiornale e ogni tanto la senti ripetere “Eh, ma gli Italiani? Perché non li aiutano gli Italiani?”. (Ridiamo insieme, di un riso cupo).

*In copertina: Donata Perelli in un ritratto fotografico di Cristina Dogliani. Donata Perelli è attivista piacentina, responsabile del coordinamento dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) al Centro Astalli di Palermo.

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