05 Novembre 2019

“Le stroncature servono al lettore. E divertono. La rissa piace”. Giorgio Manganelli sul “genere” più dileggiato del giornalismo

A proposito di stroncature, della liceità della stroncatura (riguardo alla mia personale vicenda, qui il riassunto). Marco Merlin mi gira alcune pagine tratte da un articolo di Giorgio Manganelli, “Alla rissa, alla rissa”, raccolto in “Il rumore sottile della prosa” (Adelphi, 1994). Manganelli reagisce a un pezzo del critico letterario Guido Almansi, che su “Panorama” si erge a difesa del ‘genere’. Così attacca Manganelli: “È vero: le stroncature sono eccitanti; sono divertenti; danno un’aria allegra e litigiosa alla così detta cultura, una faccenda che basta nominarla e si sente odore di chiuso. Su ‘Panorama’ Almansi fa una spiritosa difesa della stroncatura. Ma con argomenti che mi lasciano perplesso. No, non si dice così. Con argomenti privi di senso. Così è meglio. Proviamo ancora. Con argomenti risibili”. Manganelli, di cui ricalco l’ultima parte dell’articolo, quella nevralgica, ha ragione su un punto, ha torto su un altro, e fa il meglio alla fine. Ha ragione a scartavetrare Almansi il quale crede che la stroncatura serva a raddrizzare ciò che è storto. La stroncatura non ha compiti chirurgici né terapeutici: per lo più – cioè, per il gergo che la contraddistingue, eccessivo, iperbolico, grottesco – è teatro, è scritta a godimento del lettore, eventualmente per pungolare l’editoria, forzandola a fare meglio, senza alcuna nozione ‘educativa’ (orrore, orrore). In una cosa, però, Manganelli erra dal vero. La stroncatura non si scrive per dire allo stroncato “quel che fai non mi interessa”. All’opposto, per diverse ragioni – talento autentico; presa sulla ‘massa’; fenomeno ‘sociale’ –, si dice allo stroncato: mi interessi a tal punto da meritarti la stroncatura, genere che per costituzione reclama attenzione maggiore di una mera recensione-velina. Insomma, in fondo c’è l’amore, dove pare ci sia lo sfottò – lo si vede dalla passione che ci mette lo stroncatore, quando è bravo. Il meglio, però, accade alla fine. Trovando inutile la stroncatura – vero: uno scrittore non si schioda dal proprio carisma o ossessione – Manganelli redige, in una frase, una straordinaria stroncatura-haiku ai danni di Moravia. Chapeau. (d.b.)

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In realtà, non credo che le stroncature servano allo scrittore. Servono al lettore; possono mutare certi labili atteggiamenti del gusto; fare emergere atteggiamenti inediti. Soprattutto, divertono. È divertente vedere due uomini di lettere venire alle mani; o almeno vedere un critico che aggredisce uno scrittore. La rissa piace. In effetti, come dice Almansi, sulla stampa inglese e americana si leggono stroncature deliziose, affascinanti, che danno l’idea di una società culturale vitale, anche sanguigna. Ma, a parte lo spettacolo, la stroncatura non va oltre. Soprattutto, non serve all’autore. Per l’autore, la stroncatura ha semplicemente il valore di un messaggio: il tale non ti può sopportare; niente di quel che fai gli interessa; per quel che lo riguarda, potresti anche andare al diavolo.

Di rado è possibile e desiderabile seguire il consiglio. Qualcuno si avvilisce. Qualcuno si diverte. Qualcuno si dice: “Beh, pazienza”, e continua a fare quel che può. Almansi fa un caso più o meno ipotetico di uno scrittore che “ha letto l’ultima stroncatura di un suo romanzo nel 1936”. Almansi ritiene che se quell’autore avesse incontrato sulla sua strada delle stroncature avrebbe fatto meglio di quel che poi ha fatto. Avrebbe avuto addosso il pungolo della casa editrice. Che strano. È vero che a questo punto Almansi usa l’espressione “artigiano della penna” che pare un po’ riduttiva. In effetti, non riesco a credere che i funzionari di una casa editrice abbiano il potere di elevare la qualità letteraria di un autore, men che meno, seguendo le indicazioni delle stroncature.

Poiché la nota di Almansi mi ha messo di umore vagamente rissoso, facciamo l’esempio più ovvio: Alberto Moravia. Moravia mi è molto simpatico, ma i suoi libri no. Mi sembrano sogni ingegnosamente malati di un uomo sano. Quando ho detto che il tal libro di Moravia non mi piace, non presumo di aver provocato una crisi di coscienza. Non credo che Moravia si dirà: “Quanto è vero quel che scrive Manganelli, sono un disutile e un cattivo soggetto, ma mi voglio metter sotto, studierò il tibetano e leggerò Hölderlin, alternandolo con san Giovanni della Croce. Anzi, scriverò un poema epico-religioso sugli albigesi”. Non credo che Moravia dirà nulla del genere, e farà bene a non dirlo. Ci sono questioni di fondo su cui non si tratta, non già per insolenza, ma perché è impossibile trattare; ad esempio, il modo di usare gli aggettivi, e il congiuntivo; e aggiungerei il chiasmo, e l’ossimoro.

Giorgio Manganelli

Gruppo MAGOG