22 Novembre 2020

“Osip Mandel’štam, il poeta che ha sfidato il ruggito del regime, che ha divorato la propria epoca”

Ci sono dei versi, nella poesia di Osip Mandel’štam

Mia epoca, mia belva, chi mai

potrà guardarti dentro gli occhi

che rimandano, indiscutibilmente, alla ferocia del mondo e alla vita che, in esso, siamo chiamati a provare giorno dopo giorno, come nostra unica via d’uscita dal perenne ingorgo del tempo.

La belva ‒ per intenderci: il Minotauro, la tigre, il giaguaro, la morte; insomma, chiamatela pure come volete! ‒ dunque non attende soltanto il poeta. La fiera, che è il pericolo che assale, riguarda ognuno di noi. Tutti, in un mondo sempre meno febbrile ma più precario, siamo chiamati in causa. Senza alcuna spiegazione. Inevitabilmente. E, ciascuno di noi, avrà per davvero il coraggio di guardare in faccia ciò che la realtà non ci sottrae mai, né ci esenta dal vivere?

Il dilemma, a ben vedere, sta nel ponte tra “due secoli vicini” che ci è toccato attraversare. Non sarà mai la vita a farcela pagare. Questi luoghi comuni vanno sfatati. Forse sarà il potere, o la cattiveria ‒ dice il poeta ‒, a immolare “ancora, come un agnello, la testa della vita.”. Per il resto, dovrà essere tutto un rimboccarsi di maniche. Poiché se, oggi come allora, tenteranno di fare a pezzi i giorni, i sogni, bisognerà suonare una qualche melodia che ci riporti in vita. Occorrerà far festa per rinvigorire gli animi e scaldare i cuori.

Attraversare dunque il ponte. Guadare il fiume, per lo meno. Non saremo noi di certo a soccombere, pare avvisarci il poeta russo. Il suo messaggio è forte e chiaro; i suoi versi finali rammentano la magia baudelairiana; quell’incavo del collo, un ponte a testa in giù che regge il ghigno dissennato ed ebete di qualsiasi secolo.

Come a dire, perciò, che non ci basta osservare le rapide di un fiume impazzito, segno profano di ogni epoca. Occorre, piuttosto, tentare l’approdo a testa alta, ritti sulla zattera dell’invisibile.

Mandel’štam è chiarissimo, non ha dubbi. È di una lucidità impressionante: dall’incavo, “dalla gola delle cose del mondo”, non può non esserci che mescita di sangue vivo. A temere non saremo tutti. A tremare sarà solo il profittatore.

Se ci pensiamo bene, ogni epoca ha le sue rovine. Dalle macerie il poeta si sporge, ha fame, è famelico di sguardi; vuole divorare il suo tempo. Se per farlo, dovrà imbattersi in qualche ombra mostruosa, allora egli l’affronterà in piedi. Ci terrà a mostrare la sua spina dorsale all’ultimo Leviatano. Coi suoi versi sferzerà l’attacco, spezzerà almeno per un istante le catene dell’angoscia umana. Senza voltarsi indietro, trafiggerà il secolo che non gli appartiene con lo stiletto pungente della verità.

È per questo che Osip Mandel’štam ha pagato a caro prezzo il suo amore per la vita, la sua fame di poesia. Perché ha guardato dentro agli occhi il ruggito del regime. L’ha affrontato. Non ne ha avuto paura. Ha schiantato, piuttosto, in mille pezzi, quel bieco sguardo malato e vano. Ha immaginato ponti tra bifide colonne vertebrali, metafore dei due secoli a cavallo. Ha ordito il nuovo mondo. Ha sommosso i cuori. Ha retto la ferocia di quello sguardo.

Purtroppo non ce l’ha fatta, l’hanno fatto fuori. Il suo coraggio non è servito a nulla. Invece no. Non è vero! Mandel’štam è tra gli immortali. Il suo messaggio giunge a noi più vivo che mai. Le sue poesie sono occhi che addomesticano la belva, dita sprezzanti che suonano il flauto.

Giorgio Anelli

Gruppo MAGOG