23 Aprile 2021

“Tutto quanto è una favola”. Maeve Brennan, la regina che preferì sparire

La videro, l’ultima volta, nella redazione del “New Yorker”, di cui era stata regina, quarant’anni fa, era il 1981. Vagava, imbruttita, ossessa, preda di paure, abulica da quel mondo che le pareva pieno di chiodi, di serrature. Da quasi dieci anni non scriveva più, il libro che l’aveva resa leggendaria – quel repertorio di sketch sagaci, leggeri, spesso crudeli, che svelavano la sotterranea violenza della società newyorchese –, The Long-Winded Lady era stato pubblicato nel 1969. John Updike adorava quella scrittrice dalla “vista acuta di un passero, attenta alle briciole della realtà, a quanto udito per caso, visto di sfuggita”; Edward Albee, l’autore di Chi ha paura di Virginia Woolf?, semplicemente, la idolatrava, credeva fosse la reincarnazione, femmina, di Anton Čechov. Morì sola, dimenticata, come una briciola, come chi vive di sfuggita, in fuga, nel 1993, in una casa di cura del Queens; a William Maxwell, mentore e amico, mandava alcuni biglietti, in uno è scritto “tutto quanto è una favola”; si chiamava Maeve, come la mitica regina irlandese del Connacht, di cui ereditò la forza, ma non la fortuna. Il padre, Robert Brennan, fu tra gli eroi dell’Irish Free State e della guerra civile irlandese, una delle guide della rivolta di Pasqua del 1916 eletta a leggenda da William B. Yeats. Condannato a morte, spesso in prigione, fu tra i fondatori dell’“Irish Press” e primo ministro dell’Irlanda libera negli Stati Uniti, dal 1934. Maeve Brennan, nata a Dublino nel 1917, tra grida di rivolta, cominciò a fare la giornalista di costume a New York, negli anni Quaranta, nella redazione di “Harper’s Bazaar”; arrivò al “New Yorker” pochi anni dopo. Era talentuosa, tagliente, bellissima. Secondo Angela Bourke è lei, Maeve, ad avere ispirato Truman Capote nella creazione di Holly, la protagonista di Colazione da Tiffany. Piuttosto, Maeve sembra la profezia di Audrey: piccola, sottile, viso di cristallo, eleganza pitagorica. Amava gli occhiali scuri. Nelle fotografie, però, a dispetto della Hepburn, Maeve non sorride mai: qualcosa di sanguinario gratifica la sua bellezza.

Ammirata, temuta, questa lieve regina irlandese giunta a conquistare New York incontrò solo uomini sbagliati, sballati: Walter Kerr, critico teatrale, le preferisce Jean Collins – che lo ricompenserà con sei figli –, Maeve, allora, si butta tra le braccia di St. Clair McKelway, più grande di lei di dodici anni, firma del “New Yorker”, noto donnaiolo. Divorziarono dopo cinque anni; lui collezionava mogli, Maeve era la quarta, fece in tempo a impalmarne un’altra. “Negli ultimi dieci anni della sua vita entrò e uscì dalla realtà in un modo che spezzava il cuore a guardarla e che soltanto gli ospedali potevano affrontare”, scrive di lei William Maxwell. In un tempo che elegge Joan Didion ed Alice Munro ad autentiche icone, occorre ricordare che Maeve aprì sentieri, a bracciate, per tutte loro. Nel cupo dell’iride aveva un destino feroce: si abituò agli alberghi, ad abbeverarsi a una fama transitiva, capì che il transitorio non ha estasi. Amava gli uccelli più che gli uomini, e i cani. Fu riscoperta postuma, con garbo. In Italia rischiò di diventare un’autrice di culto: Rizzoli prese a pubblicare i racconti e i romanzi (Il principio dell’amore, La visitatrice, La sposa irlandese, Racconti di New York), con un certo successo critico (così Pietro Citati, nel 2005, su “Repubblica”: “Basta leggere poche righe e due pagine, per sapere che mai, a nessun costo, per nessuna ragione o costrizione, continueremo la lettura di un libro: mentre abbandoniamo durante qualche ora persino Leopardi, per ascoltare questa «irresistibile» voce irlandese, che non insegna, non chiede e non spiega. La visitatrice è un libro molto bello, che come altri critici consiglio a tutti i lettori italiani”). Poi Maeve, inghiottita da una più vasta urgenza, è sparita, come accade a chi ha il tremendo tra le mani e scrive sbriciolando la realtà. E diventa egli stesso briciola, scabrosa scaglia, sabbia, qualcosa che sta sotto le unghie.

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Il cibo preferito di Balzac

C’è una libreria sulla Quarantottesima Strada, non lontano dalla Sesta Avenue, in cui si vendono per lo più volumi in brossura e copie a prezzo ribassato: rimanenze editoriali. L’altro giorno ero lì a gironzolare tra gli scaffali. Era sabato e faceva fresco. La porta del negozio era aperta sulla strada. Era l’ora di pranzo e non vi era alcuna concitazione. Il pomeriggio era lento e la città amabile e intontita: nessuna lagnanza giungeva alle mie orecchie. Una simile aria di siesta è insolita a New York e, in pieno centro, alquanto strana. Era una circostanza misteriosa, e spensierata, come se tutti gli abitanti avessero ricevuto la loro quota stagionale di tempo, scoprendo di averne a sufficienza, anzi, a profusione: più di quanto avessero mai immaginato.

La libreria era tranquilla. Si aveva l’impressione di essere altrove, in una città lontana e molto più vecchia, a curiosare accanto agli antiquari. L’atmosfera era placida e assorta: i clienti si aggiravano tra le opere di Henry James e Rex Stout e Françoise Mallet-Joris e Ivan Turgenev e Agatha Christie e dei tanti altri nomi che mi saltavano all’occhio mentre me ne stavo lì a guardare. Avevo sottobraccio tutti e cinque i libri che intendevo comprare ed ero intenta a sfogliarne un altro, di cui non ricordo il titolo, e a leggere la descrizione del cibo preferito di Balzac. La sua passione era il pane comune con sopra sardine precedentemente schiacciate fino a ottenere una pasta e mischiate a qualcosa. Ma a che cosa?

Stavo appunto tornando indietro per cercare di scoprirlo, rileggendo tutto da capo con l’acquolina in bocca, quando le mie orecchie vennero offese da un frastuono di voci aspre appena fuori dalla porta: alcune persone stavano commentando i volumi in vetrina. «Ehi, Marilyn Monroe è in offerta!» sbraitò un uomo. «Uno e novantanove anziché cinque e settantacinque!» Seguì uno scoppio di risa sguaiate, e poi una voce di donna (una vecchia megera): «Aspetta che scenda a un dollaro!». «Macché! È troppo! Un dollaro è troppo!» ribatté l’uomo, dopodiché questi orrori entrarono in branco nel negozio, e io mi tolsi gli occhiali per guardarli meglio. Crudeltà, Stupidità e Fracasso: erano in tre, un uomo e una donna e qualcun altro che non vidi perché nascosto dietro l’alto scaffale che osservavano berciando. Leggevano nomi e titoli, facendo battute fiacche e guastando il clima generale, così pagai i libri che avevo sottobraccio e uscii.

Mi diressi verso Le Steak de Paris e ordinai pane comune e sardine, ma, quando incominciai a schiacciarle, non riuscii a ricordare quale fosse l’ingrediente con cui Balzac era solito mischiarle. Pazienza. Il pane con le sardine è ugualmente ottimo. Mi dissi che non aveva senso rimuginare sulle iene della libreria. Prima o poi, la loro capacità di risvegliare la violenza risveglierà qualcuno che è violento (questo pensai). Finiranno con l’inciampare nei lacci delle loro stesse scarpe. Il tempo è galantuomo. Non conosceranno mai altro che il meschino appetito dell’invidia. Impareranno, come il bambino che gridava al lupo, che chi pensa di ridere bene verrà incenerito dall’Ultima Risata, quando finalmente echeggerà. Ma non importa. Quella piccola libreria resta aperta fino a tardi, quindi stasera ci tornerò e troverò quel libro che stavo leggendo e che contiene la descrizione del modo in cui Balzac preparava la sua pasta di sardine. Prima che scenda la notte, saprò esattamente quale fosse il cibo preferito del Maestro e saprò anche che sapore ha oggi.

Maeve Brennan

21 settembre 1963

*Il testo è tratto da: Maeve Brennan, The Long-Winded Lady: Notes from the New Yorker, Berkeley, 1997; la traduzione è di Annalisa Crea

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