30 Novembre 2017

Macondo sono io. Intervista a Ilide Carmignani, la voce di García Márquez e di Roberto Bolaño

Qui non vale la proprietà commutativa. Qui cambiando l’ordine dei fattori, cioè degli elementi grammaticali, il risultato cambia. Del tutto. Di brutto. Chi pensa che ‘una traduzione vale l’altra’, perché il compito della traduzione è meramente ‘di servizio’ si merita un mattarello in testa e un corso di ripetizioni da San Girolamo. Terminato il ‘servizio’ – tradurre da una lingua A in una lingua B – infatti comincia il godimento, che in letteratura (la scienza del piacere estetico, dell’estasi linguistica) è il sale. Ergo: in letteratura la traduzione è tutto o quasi, fa il successo – o l’imponderabile insuccesso – di uno scrittore, e il traduttore è una specie di sciamano tra i linguaggi, uno che alla capacità professionale deve associare l’‘orecchio assoluto’ di chi sa accordare la lingua, di chi ne consce i più remoti tintinnii.

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Ilide Carmignani ha da poco tradotto “Cent’anni di solitudine” per Mondadori

Esercizio di ardua umiltà, da liutai del linguaggio, compiuto di nascosto, tra il velo delle parole altrui. Esempio per capirci: di Moby Dick ho tutte le traduzioni in circolo. Beh, fate l’esperimento, l’Achab di Cesare Pavese parla in un modo – e dunque, ha una caratura psicologica particolare, dacché è la lingua a dettare la psiche – diverso dall’Achab di Alessandro Ceni e da quello di Pina Sergi. Cambiando suolo linguistico, il successo esponenziale di Roberto Bolaño in Italia – stampa Adelphi – da Notturno cileno a I detective selvaggi e 2666 lo si deve interamente a Ilide Carmignani, zarina della traduzione dalle lingue spagnole. D’altronde, gli “esseri immaginari” impastati con la sabbia del sogno di Borges sono una sua allucinazione linguistica; l’inseguimento sincopato di Julio Cortázar nel mito di Charlie Parker ha le sonorità di Ilide, ed è lei, Ilide, la Macondo dei nostri reiterati deliri, è lei ad aver dato odore, sapore, nitore a Cent’anni di solitudine, il capolavoro di Gabriel ‘Gabo’ García Márquez, ritradotto quest’anno per Mondadori. Ma se è per questo, c’è la zampa linguistica della Carmignani dietro (e dentro) i libri di Luis Sepulveda (La fine della storia, ad esempio) e quelli di Pablo Neruda e di Arturo Pérez-Reverte e del grandissimo Octavio Paz. Insomma, mezzo continente ispanoamericano è lei, toscana, affabile, appassionata, generosa. Un pezzo di altro mondo nel nostro mondo. Che fortuna. Era d’obbligo interrogarla.

Intanto. Come si inizia a voler tradurre? Per amore o anche per un tot di frustrazione? Insomma, il traduttore è come il doppiatore: dà voce a un altro. Ma… qual è la tua voce creativa?

“A dire il vero non vivo il mio lavoro in maniera così frustrante, non mi sento una scrittrice mancata, mi sento una scrittrice un po’ particolare, diciamo “specializzata”. Octavio Paz, il grande poeta e premio Nobel messicano, diceva: se la letteratura è una funzione specializzata del linguaggio, la traduzione è una funzione specializzata della letteratura. Una funzione che ha una sua forma di creatività ben definita, linguistica e non narrativa, è vero, ma non dimentichiamo che in letteratura il confine è piuttosto labile, spesso conta più come si dice qualcosa di cosa si dice. Non a caso lavoriamo anche noi, al pari degli scrittori, in regime di diritto d’autore. Ho iniziato a tradurre perché mi piaceva moltissimo leggere e scrivere, e la traduzione combina queste due attività in modo unico. Prima si legge, poi si scrive, con un gran privilegio: la nostra lettura diventa oggetto di lettura altrui. Un privilegio e una responsabilità. Siamo interpreti: suoniamo note scritte da altri che però senza di noi resterebbero mute entro quei confini”.

Quale è il primo libro che hai tradotto? Quale il libro che ti è piaciuto di più tradurre?

“Il primo libro che ho tradotto è stato Ocnos, una raccolta di poemi in prosa di Luis Cernuda, poeta spagnolo della Generazione del ’27, quella di Lorca per intenderci. Il libro che sono stata più felice di tradurre è Cent’anni di solitudine, perché in un certo senso è il libro di lingua spagnola per eccellenza, e anche perché è un romanzo meraviglioso”.

L’autore più difficile da tradurre. Il libro che avresti voluto tradurre ma che per ragioni diverse (svelale) non hai tradotto. 

“La traduzione è un lavoro impossibile, è come cercare la quadratura del cerchio, perché le lingue sono irrimediabilmente diverse fra loro e quindi si ha sempre un residuo intraducibile, il che significa che se davvero si prende sul serio il mestiere tutti gli scrittori sono difficili. Detto questo, l’autore più difficile che ho incontrato è forse Julio Cortázar, perché ama esplorare i confini della lingua e i confini sono territori impervi per i traduttori, è molto più facile muoversi nelle aree mappate dai repertori. Gli scrittori che vorrei tradurre sono tanti, ognuno per un motivo diverso, ma sarei ingrata se mi lamentassi, sono stata molto fortunata, gli editori mi hanno affidato libri bellissimi. Mi piacerebbe lavorare su Juan Rulfo, ad esempio, però è ancora sotto diritti ed è stato recentemente ritradotto, quindi non credo che succederà. Comunque mi consolo facilmente, sia perché mi piace il tradurre in sé, a prescindere dal testo, come operazione linguistica e intellettuale e culturale; sia perché, come dice Renata Colorni, il traduttore è un camaleonte libertino, ama passare da uno scrittore all’altro senza fermarsi mai”.

Quali libri sarebbe importante tradurre in Italia, ma non ci sono ancora?

“Sarebbe giusto che i classici delle letterature di lingua spagnola fossero tutti tradotti, accessibili in toto ai lettori italiani, e che lo fossero in traduzioni adeguate, non troppo polverose. Si pensa sempre a tradurre titoli nuovi, che però spesso durano la spazio di un mattino. Ritradurre è altrettanto importante, significa tenere in vita la tradizione, il canone. Ci sono vecchie traduzioni ormai illeggibili. La prima traduzione di Cent’anni di solitudine, pur essendo molto bella aveva fatto il suo tempo. Per rendere il libro comprensibile agli occhi del lettore italiano di cinquant’anni fa, trasformava ad esempio gli alcaravanes, uccelletti selvatici dell’America latina, in galline, e per renderlo accattivante restituiva parole quotidiane coi termini più esotici, misteriosi e desueti, le secche del mare diventavano ad esempio sirti. Il Cent’anni di solitudine che leggevamo era molto più magico e meno realistico dell’originale”.

Cosa si muove di culturalmente rilevante nel mondo di tua competenza, quello ispanico?

“È una domanda complicata perché il mondo ispanico conta 500 milioni di persone e copre, oltre alla Spagna, un territorio che va dagli Stati Uniti alla Terra del Fuoco. È difficile generalizzare. Comunque mi sembra molto interessante l’emergere delle culture indigene”.

I traduttori sono pagati notoriamente molto male: è ancora così? Perché? 

“Sì, siamo ancora pagati molto male, perché l’invisibilità che cerchiamo dentro la pagina, per essere fedeli, trabocca fuori dalla pagina e nasconde l’importanza del nostro lavoro. Una cattiva traduzione è innanzitutto una frode nei confronti del lettore (nonché concorrenza sleale nei confronti degli altri editori) e poi nuoce allo scrittore, priva la cultura italiana di stimoli vitali e danneggia la nostra lingua, l’italiano”.

A cosa stai lavorando, attualmente?

“Sto licenziando le bozze di due libri di Roberto Bolaño, Lo spirito della fantascienza, un romanzo inedito per Adelphi, e I cani romantici, una raccolta di poesie per SUR. E sto traducendo Il labirinto della solitudine di Octavio Paz per i Meridiani Mondadori. Insomma, passo le mie giornate in Messico”.

Gruppo MAGOG