08 Ottobre 2018

Ma davvero a Gesù interessa il divorzio? Non ripudiate nulla! Bisogna disperdere i nomi, mozzarsi la lingua e farne l’anello nuziale da regalare agli altissimi

La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.

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Le creature nascono perché l’uomo addomestichi un alfabeto. “Dalla terra Dio il Potente plasmò ogni sorta di animale selvatico e tutti gli uccelli del cielo e li mostrò all’uomo per capire come li avrebbe chiamati” (Gen 2, 19). Al principio è Dio a parlare – l’uomo è tale perché imita Dio, parla. Balbetta. Barbaglia frattaglie di verbo.

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Ogni parola è un recinto. “In qualsiasi modo l’uomo avesse chiamato le creature viventi – quello era il nome” (Gen 2, 19). Dio chiama l’uomo; l’uomo chiama le creature viventi, mortali: questa è la gerarchia. L’uomo non è cintato da un nome, perché tende a infinito (nell’aldilà non ha valore, se non di giudizio, l’identità terrena, parziale, passata). Le bestie si risolvono nel nome che per loro ha forgiato l’uomo: ma quanto può essere vasto un nome? Che forma ha un nome: è un labirinto, è un palazzo, è un ditale?

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Indubitabilmente, secondo la Bibbia, le creature viventi sono sottoposte all’uomo, sono “un aiuto che gli corrisponde” (Gen 2, 18). Che l’uomo non debba sopprimere l’aiuto, che non debba trarre violento profitto dall’aiuto che gli corrisponde, che gli è esatto, è cosa che dovrebbe essere risaputa. L’“aiuto che corrisponde” è l’amico.

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I nomi vengono imposti, ma è dispari il rapporto tra uomo e creato, non c’è corrispondenza. La donna è il solo “aiuto che corrisponde”, creatura che abbia la stessa gittata di sguardo dell’uomo, e che conosca l’iride onirica. La donna non è l’amata – è l’aiuto prelibato. “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2, 18): perché? Nella solitudine l’uomo può mirare di sostituirsi a Dio – può imparare a uccidersi? Per Dio è preferibile che l’uomo faccia figli più che recludersi nella nostalgia del rapporto intimo con Lui – per poi lasciare tutto ciò che ha creato, e tornare da Lui.

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Infine, come la mancanza di tutte le mancanze, nasce la donna. La donna è ciò che manca da sempre – è l’emblema della mancanza (l’uomo da solo, solo sé, è verbo scarno, a cui non corrispondono neanche i cani). Continua a mancare, in effetti, perché è costola estratta dalla carne dell’uomo: appena si sveglia al giorno, valutandosi, l’uomo si sente senza. E marcia per cercare l’unione più rotonda che esista. Uomo e donna, “osso delle mie ossa” (Gen 2, 23), “un’unica carne” (Gen 2, 24), insieme sono quasi Dio.

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Per creare la donna, Dio inaugura il sonno, quel mistero che si chiama “torpore sull’uomo” (Gen 2, 21). Nel sonno, forse, l’uomo sogna la donna, la prevede; forse sogna l’unione in grado di compierlo. La donna resta un enigma, è trafugare pezzi di carne nell’onirico.

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In modo grossolano il capitolo 10 di Marco è ridotto a una formula contro il divorzio. Alle sottigliezze dei farisei, che lo interpellano sul “libello di ripudio”, Gesù risponde alzando il tiro, mirando a una fedeltà non burocratica, ma autentica. Con le parole si danno i nomi alle bestie e si ripudia una donna: come è possibile? Che le parole siano, sempre, una assunzione di unione, un assoluto.

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“Ripudio” nelle parole dei farisei è apostasia, una divisione definitiva, con tinta religiosa. Ci si divide ed è come tradire un dio. Gesù usa parole diverse. “Chi rimanda la propria moglie e ne sposa un’altra, è adultero verso di lei” (Mc 10, 11). La moglie – o il marito – non si ripudia, si ‘rimanda’ a casa, indietro, come se si azzerasse un rapporto, un contratto. Nel ‘mandare via’ la moglie o il marito – preferendo la mancanza a una presenza che non sana, che non riempie di amore i sogni – Gesù, scavando nei recessi etimologici, usa un verbo che è connesso all’apolidia, all’estinzione della cittadinanza. Quando ci si separa, non si ha più uno stato – sposarsi è condividere una terra, essere concittadini della stessa speranza.

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Che cosa significa essere uomo e donna e sposi e che valore diamo al ripudio e con quale avventatezza “i due saranno una carne sola”? L’uomo non può separare ciò che Dio ha unito; ma la donna nasce da un atto di separazione. Solo da separati, in espatrio, possiamo riconoscerci. Come mai parlando del ripudio e dell’unione, non si parla mai di amore? Forse essere “una carne sola” è altro dall’amare.

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Il punto è non ripudiare nulla, perché si è adulteri, altrimenti, verso il mondo.

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Gli uomini parlano, ma la parola è parziale: hai dato nome al giaguaro, ma conosci la parola per ammansirlo? Gesù parla per gesti: “e portavano a lui i bambini perché li toccasse” (Mc 10, 13). Essere toccati è più significativo che essere detti: cristianesimo ed ebraismo sono religioni della carnalità, dell’evidenza abbacinante del corpo. Il tocco fin dove arriva, in quale antro della memoria e della mente – che possibilità filologiche contiene il tocco?

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Ancora una volta, Gesù ribalta i piani. Non si entra nel regno di Dio in coppia, accoppiati, uomo e donna, unica carne. “Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino certamente non vi entrerà” (Mc 10, 15). Nel regno di Dio si entra asessuati, svergognati – privi di vergogna – mancanti di tutto. Il bambino non ripudia nulla, accoglie tutto, con ingenua ferocia, perché ancora è niente, non è neppure un nome. Il nome a volte è una spina dorsale, altre volte è un giogo. Perfino dei nomi occorre spogliarsi, infine, bisogna tagliarsi la lingua, evitare di scandire i verbi, e regalarla, disfatta in argento, come un anello nuziale, a Dio. (d.b.)

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