23 Maggio 2018

L’unica cosa di cui Philip Roth avrebbe bisogno è di essere ridimensionato. Solo Michel Houellebecq ha capito la natura malata del nostro mondo

Almeno all’Accademia di Svezia avranno tirato un sospiro di sollievo. Un fatale gioco della sorte li ha sollevati dal doversi giustificare, anche quest’anno, per non avergli conferito il Nobel. Ma, in fondo, che gliene poteva fregare a Philip Roth dei loro soldi – al di là del suo essere ebreo. Gli è andata benissimo così. Ci ha campato una vita e alla grande, senza neanche doversi abbassare a scrivere un mucchio di stronzate come di solito fanno gli autori di best seller. Lui è stato sé stesso ed essendo sé stesso ci ha pure guadagnato. Più di così, davvero, non si potrebbe chiedere.

Al di là degli sperticati elogi funebri che si leggeranno sui grandi giornali – che tanto erano già pronti, come le pietanze precotte da riscaldare –, l’unica cosa di cui Philip Roth avrebbe bisogno è di essere ridimensionato. Difficile vedere in lui un grande interprete del suo tempo, se non nel senso che ne è stato il megafono perfetto. Antiamericano quel tanto che basta per essere contro i Repubblicani, ma non certo per demolire l’intima essenza liberal della parte più progressista d’America. Del resto, anche negli USA, come in Italia, se sei uno scrittore e vuoi avere vita facile, ti conviene piazzarti a sinistra – moderata, sia chiaro, perché i veri comunisti oramai sono fuori moda. Probabilmente, anche da noi, Roth sarebbe stato pubblicato da una di quelle due grosse case editrici che stampano tutti gli autori della parte giusta e poi, come sempre capita, avrebbe avuto un suo bel posticino a L’Espresso e La Repubblica. Già, perché in fondo Roth è uno scrittore accettabile. La sua visione del mondo non ha mai messo in crisi l’esistente. Attenzione, ciò non significa che il suo lavoro sia stato svolto male. Al contrario, è gradevole da leggere, stuzzicante, arguto. Magari, ecco, ripone un po’ troppe speranze nel potere liberatorio del sesso – senza capire che, nel sistema capitalistico che lui idolatrava, il sesso è una merce come un’altra e come tale viene considerata. Basti pensare al suo libro forse meglio riuscito, uno dei più brevi ma al contempo efficaci, L’animale morente. A parte la trama di per sé poco credibile del vecchio professore universitario che non fa altro che scoparsi le allieve e, in particolare, una giovane fighetta cubana, il testo è un panegirico del ’68. Non il solito, questo bisogna riconoscerlo. In quanto a stile, lo scrittore americano non ha niente a che vedere con i nostri italiani. Ciò non toglie che il libro resta il nostalgico ricordo di un anziano borghese che rimpiange i bei tempi in cui le ragazze si smutandavano facilmente e procurarsi una chiavata era tutto sommato più semplice che nella vecchia società puritana.

Detto questo, è più che mai chiaro che Roth non è mai stato un critico del sistema vigente, ma solo il tedoforo del liberalismo imperante. Se volete leggere un vero esegeta del suo tempo, un po’ più giovane ma che certo all’apparenza non dimostra i suoi vent’anni di meno, meglio restare in Europa e buttarsi anima e corpo su tutta l’opera di Michel Houellebecq, i romanzi e le poesie. Il maestro francese, che pure ha affrontato più e più volte gli anni cruciali descritti dal suo collega americano, ha saputo cogliere l’intima natura malsana di questo mondo liberal post sessantottino che conduce, con l’inesorabilità di un sillogismo, alla crisi che stiamo vivendo e alla devastazione della cultura e della tradizione occidentali. Per farla breve, anzi brevissima: Houellebecq rappresenta la lucidità feroce e angosciata, quasi scientifica nella sua analisi, dopo l’ebbrezza ottusa, cieca ed esaltata di un Roth che ha saputo dire magnificamente ciò che ha visto pur senza averci capito niente.

Matteo Fais

 

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