13 Settembre 2018

Luca Doninelli: Discorso sulla fine del Testo e dell’autorità (ma lo scrittore resta un vulcano)

Per gentile concessione dell’autore si pubblica una selezione di brani dal saggio di Luca Doninelli, inedito, “La fine del Testo. Letteratura, media e politica dopo la fine della modernità”.

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[…] Tutte le forme di potere moderno, dalla sempre ambigua democrazia al totalitarismo più rivoltante, hanno sempre gradito cinema e teatro e riempito sale da concerto, teatri lirici e teatri di prosa. Non per una forma di coazione, ma perché l’esistenza di un regime moderno (di qualunque tipo) si regge sulla partecipazione, e il garante di questa azione, del suo valore, non è più un potere personale ma un testo, qualcosa che sta scritto e sta lì. Il potere conquista il consenso offrendo al pubblico uno specchio adeguato di sé.

La nascita di nuovi dispositivi, dalla macchina per proiettare diorami al grammofono, introduce una novità che appartiene, in realtà, anche a molte epoche e contesti precedenti: la possibilità di interrompere il testo. Possiamo bloccare il DVD player, indietreggiare di una scena, avanzare rapidamente, rinviare al giorno successivo.

Per la verità non fu esattamente così per il grammofono (dove l’interruzione comprende sempre il rischio di un danno materiale – per la puntina stessa del grammofono, o per il disco), viceversa è così per il Cd, l’MP3. Non credo di tratti solo di un’evoluzione tecnologica, ma di un mutamento nella domanda che noi rivolgiamo a un dispositivo di riproduzione. Il grammofono è figlio di un’epoca della testualità, il DVD player non più.

In realtà per la letteratura il problema dell’interruzione si è sempre posto in termini non temporali. Un romanzo, lo si legge in un tempo che dipende dalla sua lunghezza, lo si può abbandonare, se ne può saltare una parte o più parti, lo si può riprendere anni più tardi. Per non parlare della poesia, che prevede l’interruzione, la pausa, nella sua stessa struttura. Ma qui è in questione la continuità in un altro senso: nel senso, appunto dell’esser-testo del testo. La sua durata – sia che leggiamo un romanzo d’un fiato, sia che ne interrompiamo la lettura più e più volte – svolge (o svolgeva) la sua unità nella continuità che riusciva a stabilire nel tempo interiore del lettore. A distanza di anni, è difficile ricordare il tempo impiegato a leggere Anna Karenina o Lo straniero, mentre la loro unità, la loro continuità nel tempo interiore risulta evidente per una qualità che non ha un riferimento immediato con la velocità o il tempo della lettura, e nemmeno con l’immedesimazione psicologica che si realizzò al momento della lettura.

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Considerato tutto questo, verrebbe da concludere che l’epoca della continuità si mostri circoscritta nel tempo, e che presenti più i caratteri di una necessità propria dell’epoca stessa che non della forma d’arte rappresentata. Anche un grande disegno – romanzo o poema o affresco o film che sia – acquista la sua forza nel frammento: è nel frammento che si può comprendere se il disegno esiste o no.

La durata di quest’epoca è all’incirca la durata di quella che siamo soliti chiamare modernità, un’epoca caratterizzata non tanto dalle grandi scoperte scientifiche quanto dalla forma del contratto sociale: un contratto dove in luogo della persona del re aveva preso posto il testo. Non a caso è l’epoca delle monarchie prima, e poi delle repubbliche costituzionali. La convivenza è regolata, limitata ma anche sostenuta mediante un testo scritto.

Fa impressione pensare che le ultime comparse importanti della parola “testo” appartengano a opere della crisi, quando cioè il testo perde trasparenza e si presenta nella sua – diciamo così – testualità (textualité) opaca, che non lascia penetrare nulla al difuori di sé stessa, da Monsieur Texte di Mallarmé a quel capolavoro in parte inesplorato che è Le plaisir du texte di Roland Barthes – passando attraverso l’epoca dell’école du regard (e soprattutto di Tel Quel) – dove la stessa insistenza del grande critico-scrittore sul piacere ci indirizza verso un pensiero nuovo, e cioè che alla fine la testualità del testo non esiste, o comunque è essa stessa niente più che un gioco.

Io stesso mi chiedo: quelli che scrivo a Dio piacendo si possono dire romanzi, racconti, saggi, ma posso chiamarli “testi”? La mia esperienza mi rinvia, nuovamente, alla nozione foucaultiana di campo, ossia di luogo dove opera una molteplicità di soggetti che raggruppiamo sotto il termine “autore”.

Io non provo avversione per questo termine, ma sostengo che esso consiste proprio nella sua necessità di essere continuamente ridefinito. Ciò che mi fa “autore” non è lo scriver libri o il girare film, e nemmeno il contenuto di queste cose, bensì ciò che attraverso me si mette in atto, adesso.

Un buon insegnante di scrittura creativa (o anche non-creativa) dà sempre ragguagli sulla necessità che un racconto sviluppi sempre linee orizzontali e linee verticali, trama e ordito, che il “questo” e il “possibilmente altro” rimangano connessi, e così via.

Eppure – proprio come la crisi dell’istituto-famiglia ha prodotto sull’argomento molte opere letterarie e non (dai Simpson a Le correzioni) aventi per oggetto la famiglia, così il tornare a insegnare l’arte della composizione di un testo non può ripristinarne l’ufficialità: proprio quell’ufficialità (che è anche quella dell’orinatoio di Duchamp) è venuta meno con il venir meno dell’età moderna.

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Oggi ci troviamo nell’epoca della fine del testo, o del dopo-testo. Sarebbe curioso fare una campionatura tra giornali, web ecc. e contare il numero delle occorrenze della parola “testo” rispetto a certi composti come “ipertesto” o “sottotesto”. Già la nozione di “sottotesto” ci fa capire che siamo usciti da una certa epoca: fino a qualche anno fa quello che chiamiamo “sottotesto” sarebbe stato considerato per quello che era, ossia una parte del testo. Il sottotesto è il testo, ne è una componente essenziale, tanto che un testo senza sottotesti è così perché è stato voluto così. L’uso odierno, viceversa, presenta il sottotesto come qualcosa di altro dal testo stesso, una deviazione segreta, una strada per pochi capace di immettere in paesaggi-altri. Invece fino a qualche anno prima il paesaggio era uno, il testo era uno, e come tale lo si trattava.

Oggi la parola “testo” indica l’enunciazione come tale, oppure l’enunciato letterale: ogni stratificazione è un’aggiunta, è qualcosa in più rispetto al testo.

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Si perde così l’aspetto politico della letteratura, almeno nel modo in cui l’abbiamo conosciuto finora, che coincide con la sua testualità. Al posto del testo abbiamo nuovi termini, come per esempio “progetto”, diciamo: questo romanzo è parte di un progetto che vado portando avanti da tot anni. L’idea, insomma, che un testo non è solo un componimento retorico ma una realtà politica, un documento sempre in qualche modo ufficiale, un elemento del contratto sociale, si è perso, come in un certo senso si è perso il contratto sociale stesso così come era stato concepito nell’età moderna. Le attuali vicende politiche (scrivo nel 2018), in Italia come in Europa come nel resto del mondo, mostrano un cammino parallelo tra fine della testualità e fine di un’idea generale di contratto (in primis sociale).

Perciò abbiamo bisogno di riformulare non tanto l’idea di Testo, ma il senso della politica.

Oggi l’idea della testualità passa, per esempio, attraverso un (cosiddetto) lavoro di squadra. Il mondo si è riempito di team e di staff. Un testo lo si costruisce insieme, così come si costruisce insieme la vittoria a un campionato mondiale di ciclismo: anche se a vincere è uno solo, essa è sempre il risultato di un lavoro ottimizzato di squadra, tra preparatori, meccanici, direttori sportivi, alimentaristi ecc. Allo stesso modo, basterebbe scorrere l’immancabile pagina di ringraziamenti che ogni romanziere si sente in dovere di apporre alla propria opera per capire che il fenomeno di cui stiamo parlando è generale, e non riguarda solo la letteratura, lo sport, il cinema, ma una vasta gamma di azioni, la grana – direi – dell’agire stesso dell’homo œconomicus.

La pubblicità è il modello-base del testo moderno: breve, indifferente alle interruzioni (e quindi interrompibile ad libitum), ogni secondo viene studiato e analizzato da un team di persone espertissime, e ciò che noi vediamo è il risultato finale. Nei ringraziamenti che quasi sempre compaiono alla fine di un romanzo o di un saggio, specie di una certa dimensione, si fa sempre cenno al fatto che senza Tizio o Caio non si sarebbe mai raggiunto questo risultato – che si suppone stratosferico in quanto realizzato in team. Lo scrittore sensibile non manca mai di rimarcare che i pregi dell’opera sono collettivi mentre gli errori sono soltanto suoi, ma questo fa parte del gioco.

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[…] La mia persuasione è che il romanzo resti necessario per ciò che in esso esclude i dispositivi che regolano la produzione di un testo. Detto altrimenti: non è vero che una storia può diventare indifferentemente film o romanzo o telefilm: non tanto e non solo per ragioni tecniche (certe situazioni sono più adatte al cinema, altre al romanzo ecc.), perché le cosiddette “ragioni tecniche” costituiscono, anzi, un grande stimolo: se fossi un regista mi piacerebbe fare esattamente ciò che non si deve fare in un film. Come tanti modesti scrittori pubblica(va)no romanzi fatti come i film che speravano di realizzare – cosa comprensibilissima, è chiaro -, così si potrebbe dire che la separazione dei generi è fatta per essere violata. Questa storia dovrebbe diventare un romanzo? Bene, noi faremo un film. Questo dovrebbe essere un film? E noi faremo un album rock (importanza storica di The Wall).

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Che tutto questo avvenga è augurabile e auspicabile, sempre. Tuttavia la funzione dello scrittore resta. Può occuparsi di cinema, può scrivere per un serial tv (è il sogno nel cassetto del sottoscritto), ma sa – ne è costretto – che la sede naturale del suo operare è il romanzo.

Può esserne cosciente al 100%, al 20% o allo 0,05%, ma è così. Può diventare il manager di sé stesso, anzi, glielo auguro di tutto cuore (qué viva Stephen King), ma per quanto sia condotto a pensare che, in fondo, fare un film o un serial da diffondere su YouTube o scrivere un romanzo di 400 pagine sia alla fine una questione di scelte tecniche, e pur giungendo a concepire il proprio lavoro come un lavoro essenzialmente di squadra, una cosa non potrà essere cancellata, e cioè il fatto che raccontare non equivale né ad affabulare da un lato né, dall’altro, ad esprimere una visione del mondo. Se fosse tutta una questione di entertainment da un lato e di weltanschauung dall’altro, il romanzo potrebbe sparire e la rilocazione si compirebbe come puro evento spirituale.

Ma così non è. Il romanzo è (se lo è) un dispositivo sui generis – o meglio il prodotto di una serie cangiante di dispositivi facilmente identificabili: quella che 15 anni fa appariva una scrittura prodigiosa rivela oggi i suoi trucchi, a meno che quella scrittura prodigiosa non celasse un vero, profondo malessere che era la sostanza vera dell’opera (penso, come tutti, a David Foster Wallace, o a Carlo Emilio Gadda, due scrittori che sono stati presi erroneamente come modelli di qualcosa che sarebbe dovuto accadere – una nuova letteratura, una nuova scrittura…).

L’oggetto del romanzo non è la visione del mondo, né l’interpretazione della realtà, e nemmeno il nostro bisogno di raccontare/ascoltare storie. Tutto questo non fonda alcuna differenza specifica. E vero: esistono cose che un romanzo non può raccontare e che solo l’espressione del volto di un attore può rendere, così come nessun film si può addentrare nella materia delle cose (o in quella dei sogni) come il romanzo, e questo perché esistono aree dell’esperienza umana che sono soltanto verbali.

Ma questi sono temi tecnici, oppure filosofici, o neurologici, e riguardano lo studio e la definizione delle diverse componenti dell’esperienza. Esiste infatti un’esperienza parlata, o che parla.

Tuttavia la vera ragione per cui i romanzi esistono è che siamo esseri finiti: questa è la differenza di cui lo scrittore è, volente o no, il custode. Questa realtà che le cose finiscono, le storie finiscono, noi finiamo, l’universo è finito, l’ininterrotto non esiste se non in un mondo virtuale mentre quello presente ci appare nel segno della discontinuità, dell’intervallo, dell’interruzione – e noi, che agiamo nel finito, non smettiamo di amare questa finitezza (quest’ultima è un’aggiunta mia personale): questo è il fondamento della differenza nella quale lo scrittore, destituito di ogni autorità/autorialità legislativa e sacerdotale, continuerà a vivere, anche se non scriverà mai un romanzo in vita sua, anche se farà per sempre lo sceneggiatore di serial tv.

Se Chuck Lorre non avesse messo al mondo Sheldon Cooper, The Big Bang Theory resterebbe una sit com come tante: invece si è prodotta un’eccedenza, Sheldon è portatore non solo di risate o di situazioni paradossali ma di un dolore, di una solitudine, di una povertà umana che ce lo fa amare. La sua differenza (un q.i. esagerato, che lo accomuna ai dementi) è fonte di comicità ma anche di pena per ciò che tutti noi siamo. E nasce in qualcuno il sospetto che il q.i. di Sheldon non sia che la metafora di quella differenza nella quale consiste la natura dello scrittore, quel suo non essere mai uguale al lettore che forse lo adora ma che non lo potrà mai capire fino in fondo – non per la sua intelligenza, che è un gioco, ma perché noi non capiamo mai quello che ci appartiene più profondamente. Sheldon è portatore sano di un oscuro romanzo, gli altri personaggi della serie no. Forse Chuck Lorre non ha il coraggio (anche perché ci perderebbe economicamente) di gettare un po’ di luce su quell’oscura storia.

Il romanzo non è più normativo rispetto alle altre arti narrative perché non possiede il Sapere del Testo, anche se ne conserva il piacere. Tale sapere è dissipato, interrotto, discontinuo, e il romanzo ne fa parte come ne fa parte il cinema, la tv, la radio, il web ecc. Ma questa non è una novità, anzi: così facendo il romanzo può meglio appropriarsi della sua natura, o quantomeno farsi ad essa un po’ più vicino.

Dinanzi a un potere tecnologico in grado di dislocare storie, sentimenti, emozioni in tutti i modi, dinanzi alla capacità gestionale di chi detiene il potere di mescolare problemi, necessità e passioni creando l’illusione di un nuovo ordine possibile – e questo proprio nel momento in cui il caos sfila come una parata militare sotto i nostri occhi (ma proprio qui sta l’abilità di chi mescola le carte: mostrarci la guerra e farci sentire in pace, raccontarci gli sbarchi dei derelitti a Lampedusa e offrirci vacanze da sogno sempre a Lampedusa) – la letteratura e specialmente il romanzo introducono, o possono introdurre (poiché tale è lo statuto dello scrittore) quelle sconnessioni di cui il mondo sembra dover morire e che, viceversa, lo fanno vivere.

Lo scrittore è vulcanico, tellurico, distruttivo, ma noi sappiamo che senza l’attività sismica il mondo sarebbe da milioni di anni nient’altro che un sasso di grosse dimensioni.

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Per finire. Questo ci permette di rispondere alla domanda se un romanzo sia o meno un dispositivo. Non è un dispositivo, e questo lo differenzia radicalmente dagli altri media. Il romanzo è un contratto dotato di una forza mimetica che si è rivelata capace di somigliare – non nell’aspetto esteriore ma nell’uso che se ne è fatto – ai dispositivi e alle esperienze estetiche o di fruizione artistica o di semplice intrattenimento con le quali si è dovuto confrontare. Nell’era del testo si raccomandava di leggere tutto il libro prima di decidere che era brutto: il libro andava comunque finito. Oggi non è più così. Ciò che è fuorviante è il concetto di “influenza” o “influsso”, che risulta alla fine più immaginativo che concettualmente fondato.

Non domandiamoci, dunque, che ne è del romanzo nell’età dei social media. Non è una domanda seria. Domandiamoci che ne è della comunicazione oggi, sapendo che il romanzo è un pezzo di questa comunicazione ma sapendo anche che lo scrittore è il custode di quella differenza che renderà sempre arduo il compito di chi vorrà mettere, per così dire, “a sistema” l’universo comunicativo.

L’arte, per quanto possa far uso della tecnologia, ha il compito di precipitarci nell’età della pietra. Per costruire un universo comunicativo coerente basta Joseph Goebbels. Per entrare nel cuore della comunicazione ci vuole la divina imperfezione dell’essere. […]

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L’età dello smontaggio. Viviamo nell’epoca dello smontaggio. Tutto è un giocattolo, tutto ha un meccanismo, tutto ha un suo funzionamento, ogni cosa è riducibile, l’Irriducibile (che era il punto d’arrivo dell’indagine di Derrida e, prima ancora, di Heidegger) è abolito, e con esso è abolito, per così dire, lo spessore dell’esperienza, il fatto che esista sempre una doppia faccia dell’esperienza. Lo smontaggio non ammette alternative: un romanzo è fatto di X elementi, e sarà con questi elementi che lo si potrà costruire. Le cosiddette “istruzioni per l’uso” sono sempre esistite, ma un conto è se esse possano essere usate al contrario, uno se debbano essere seguite alla lettera. Quello che mi irrita nelle scuole di scrittura è che le istruzioni non possano essere usate al contrario, non per fare così ma per non fare così.

Con l’affermarsi dello smontaggio si è smarrita l’idea di reversibilità. Alla coppia irriducibile (e dunque) reversibile si sostituisce la coppia opposta: riducibile (e dunque) irreversibile, poiché una volta stabiliti gli elementi-chiave di una struttura (riduzione) il modo di ricostruirla sarà sempre lo stesso: irreversibile.

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Credo che il modello culturale di questo rivolgimento si possa riferire al protestantesimo americano, e alla sua tangenza con il pragmatismo orientale. Se tutto è smontabile, ciascuno può dominarne gli elementi, la realtà non ha più segreti da conservare, dalla SS. Trinità alle polpette della nonna: basta accendere la tv e constatare il numero esorbitante di trasmissioni nelle quali la persona si ricostituisce (acquisisce cioè una dignità) a seconda che abbia o meno superato una prova: di canto, di pasticceria, di scrittura creativa. L’oggetto è secondario, conta la gestione delle sue parti, o elementi. Uno chef, uno scrittore, una rockstar – possessori del “fattore X” – giudicheranno l’operato dell’esaminando.

Ma c’è un prezzo da pagare: con l’età dello smontaggio finisce quella della saggezza, dell’auctoritas. Esistono due tipi di autorità: quella personale e quella di un testo. “Testo” e “persona” sono correlati, si fanno eco: c’è l’uno perché c’è l’altro. L’antropologia dell’età moderna – giustamente identificata da Antoine Compagnon con gli oppositori della modernità – si fondava su questa coppia: l’umano si reggeva su un poema, una Costituzione, un testo-base, una Teoria. Al chi è costui? che definiva lo stupore totalmente umano di chi incontrava Gesù Cristo si è sostituita l’autorità dei Testi Sacri, i quali non hanno mai rinviato direttamente alla persona di Cristo, ma ne hanno piuttosto de-finito la natura, la missione, l’escatologia ecc.

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Questa a me pare una questione primariamente politica. Per fare un testo in epoca moderna sono necessari un auctor e un luogo dove chi fa dell’autore un autore (lettori, spettatori, discepoli, assemblea popolare, parlamento) può riceverne le parole. L’ufficialità dell’autore, la sua universalità, dipendono dall’ufficialità del luogo e viceversa: le stesse parole pronunciate su un angolo di strada o nello speaker’s corner avrebbero avuto un altro valore se pronunciate da un microfono del Collège de France. Ma è anche vero che il Collège si conquista (microfoni compresi) per merito, per titoli. L’autorevolezza dipende insomma dal Testimone non in quanto tale ma nella forma con la quale la testimonianza viene messa a punto: apparato teatrale, il teatro come modello dell’autorevolezza moderna.

Testo è tutto quanto fa testo. E per fare testo occorre autorità. E l’autorità si dota di luoghi, di teatri, e i teatri sono luoghi dove l’autorità è attestata, perciò “fa testo”.

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Ma a un certo momento – databile diversamente a seconda degli ambiti – questa coppia è saltata. Lo chef, lo scrittore famoso non necessitano di un’autorità intrinseca: l’importanza dello chef dipende unicamente dal ristorante in cui lavora, quella dello scrittore dai premi che ha vinto o dalle copie vendute o dal numero di traduzioni, ecc. Essi hanno conquistato il diritto (il potere) di mettere sotto esame quello che fu il testimone, il testificatore dell’autorità. Non c’è più un’assemblea di persone che giudica un autore, ma un autore che mette sotto esame tanti “x” passibili di accedere o meno al rango di persona.

Quello che non esiste più, o è diventato inutile, è il livello della condivisione. Nel pensiero classico la parola che definiva uno Stato e la sua autorità era “consenso”. Oggi il consenso può essere considerato un passaggio inutile: il paragone di chi aspira all’autorità con chi può concederla o revocarla si può saltare, la rappresentanza non ha più luoghi. L’autorità ci si conquista con altri strumenti – per esempio l’asfissiante presenza in tv, dove al consenso si sostituisce il gradimento.

Perché dunque non votare standosene a casa propria? Ti inviano un codice segreto con una password, tu accedi al sito “elezioni amministrative”, inserisci la password, digiti il codice personale – come nell’home banking – e dai il tuo voto: sarebbe un sistema più sicuro, meno costoso e non c’è dubbio che le percentuali dei votanti aumenterebbero: bisognerebbe rinunciare solo alla solitudine della cabina – ma sono ancora in molti a comprendere il valore essenziale (essenziale perché rituale) di quel momento?

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Parlare della Fine del Testo significa parlare della fine di tutta una serie di procedimenti – in arte, in letteratura, in politica, nei rapporti giudiziari, forse anche in economia – nei quali la Modernità ha fissato la propria legittimazione. Ma è una fine contraddittoria, la modernità è viva e vegeta in certi ambiti (la Scuola p. es.) con tutte le sue regole e più che morta in altri, come nei social media, nel mondo dello spettacolo e nello spettacolo della politica.

Il problema che queste osservazioni sollevano può essere riassunto come segue: come è possibile ridefinire il contratto – letterario, ma anche politico, sociale – dopo la Fine del Testo? Cosa troveremo al posto dell’Autore, al posto del Testimone? Come avverrà la mediazione tra questi ipotetici nuovi poli affinché il patto sociale possa rafforzarsi? Come ridefiniremo la cittadinanza (che è di diritto, ma anche culturale, economica)? Il problema esiste ed è pressante: quando ci definiamo cittadini, ci sarebbe da chiedersi: cittadini di cosa? Cosa intendiamo definendoci italiani? Qual è la vera forma dell’Italia oggi? Una forza centralizzata? Una somma di potentati locali con molte infiltrazioni? Una costellazione di abusi? O un’entità da ridefinire dove spiccano alcune nuove città-stato?

E, soprattutto: se la dignità umana ci viene restituita come attestato, o premio, su cosa si fonda nel XXI secolo la polis?

La polis è la più grande creazione dell’uomo, e il contratto sociale ha bisogno di una forma per mantenere in vita quest’opera suprema.

Luca Doninelli

*Luca Doninelli, tra l’altro, è l’autore de “I due fratelli” (Rizzoli, 1990), “Talk Show” (Garzanti, 1996), “La polvere di Allah” (Garzanti, 2007), “Le cose semplici” (Bompiani, 2015). Il suo legame con Giovanni Testori è narrato in “Una gratitudine senza debiti” (La Nave di Teseo, 2018). Di recente, ha adattato per il teatro “I miserabili” di Victor Hugo, con Franco Branciaroli nelle vesti di Jean Valjean.

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