17 Marzo 2019

Senzatetto, mezzo gangster, dandy, fratello in spirito di Rimbaud e seguace di Lanza del Vasto: ecco chi è stato Luc Dietrich. Oggi compie gli anni, pubblicatelo come si deve, please

Avevo sistemato sul letto i miei vestiti spazzolati e con le pieghe stirate, la mia camicia preferita e la cravatta di seta […].

Mi avvicinai allo specchio, per distendere sotto il rasoio la barba di un giorno che mi adombrava la guancia.

Ma rimasi immobile con la lama in sospeso, perché l’occhio, colpendo l’occhio in quello specchio, tornò indietro e si fece largo fin nella cavità interiore. E per la prima volta, in mezzo alla sua oscurità e al suo fruscio, scoprii una sala con un alto soffitto a volta nella cavità interiore: una cappella che non aveva mai visto la luce del giorno. E da che essa si aprì, dovetti indietreggiare a causa dell’odore che emanava. Il primo raggio di luce non vi discese dritto fino al suolo, ma tremò e si offuscò a metà strada, nell’aria densa. Le immondizie ingombravano l’altare, e vi regnavano le blatte e gli animali lividi che si nutrivano di marciume e i suoi flaccidi vegetali dalle spine di ferro.

Sotto la loro massa si sentiva però la nitidezza delle lastre di pietra, l’ossatura delle colonne e lo slancio delle arcate.

Deposi il mio rasoio senz’averlo usato.

Mi stupii d’aver levato ogni singolo giorno, con tanta minuzia e vigilanza, ogni singola macchia con la punta delle mie unghie, intonato il colore delle stoffe con cui mi vestivo, e messo a distanza dai miei sensi ogni polvere e odore, e di non essermi mai preso cura di quella cripta, né saputo che esistesse e che richiedesse delle cure.

Lasciai sul letto i miei vestiti già pronti, mi tenni addosso quelli che avevo e che mi sembravano fin troppo buoni.

***

“Va’ pure dove vuoi, cerca quel che ti piace, […] ma altro non troverai che dover sopportare qualcosa”, insegna l’Imitazione di Cristo, libro II, paragrafo 12, versetto 2.

“Per sopportare questa città voglio costruirmi un sorriso incrollabile. Porto in me questo grande amore”, recita un passo de L’apprendistato della città di Luc Dietrich.

Queste due sentenze sono l’architrave spirituale su si regge il romanzo autobiografico di questo misconosciuto autore francese, nonché grande fotografo in particolare della natura, di piante, fiori e foglie, finora mai tradotto in italiano ma più volte riedito nel suo paese e oggetto tra l’altro di una riscoperta da parte della stessa municipalità di Parigi, luogo (raggiunto in giovane età salutando Digione – dov’era nato nel 1913 da madre tossicomane) di un apprendistato, come recita il titolo, certo della città, ma da leggersi anche e se non altro per la chiara assonanza nella lingua originale, della vita.

Un romanzo che con Le Bonheur des tristes [La felicità dei tristi] (libro che fu candidato al premio Goncourt – in una metà anni Trenta piena di fermento) va a comporre un dittico di volume diseguale e ad aggiungersi alla lunga serie di odissee metropolitana della letteratura del Novecento, dai capolavori di Hamsun (La fame), Miller (Tropico del cancro), Céline (Morte a credito), Cendrars (Rapsodie gitane), ai racconti di Bukowski, definendo un naturalismo sui generis, anche “interiore” che aggiorna le esperienze di Zola (Il ventre di Parigi), Huysmans (In cammino) e Bloy (Il disperato).

Certo, pure in presenza di non poche affinità, il confronto con i grandi d’inizio secolo (Proust, Joyce, e quelli già citati), specie dal punto di vista formale, può vedere Dietrich soccombere, essendo un “romanziere maldestro ed eccessivo”, come ha scritto Lanza del Vasto, filosofo e pensatore religioso d’origine brindisina e nobile, che incontrò nel parc Monceau e che molto aiutò Luc (o meglio l’allora Raoul-Jacques), e per esempio spronandolo a rielaborare quest’opera, che gli metterà tra le mani un manoscritto d’amanuense.

*

La scrittura di Dietrich, certo a tratti rapsodica e a un tempo aspra, solo in parte influenzata dal clima avanguardista della Parigi letteraria di quegli anni, trova una coesione tra forma e senso che sbalordisce, e pure in periodo di scuole (su tutte quella surrealista), è corpo, anima e scrittura individuale, autonoma da ogni movimento e velleità “sperimentali” in senso stretto, e (questo è ciò che importa) privo di ogni complicazione, per non dire di volontà di rivoluzione, nel definire il proprio stile personale.

Tale stile è coerente col suo corpo (si dirà: i suoi stati corporei) e la sua anima (si dirà: i suoi stati d’animo), in un apprendistato della città e della vita che lo vede poveraccio senzatetto, trafficante-politicante mantenuto, mezzo gangster e mezzo seduttore (spesso pure di ragazzine), dandy mai totalmente disinvolto e noncurante, eterno vagabondo, vero fratello in spirito di Arthur Rimbaud e Joseph Roth, ed è l’esito dello sguardo di un uomo che tutto ha visto e udito, sofferto e riflettuto, disperato e sperato.

Quella di Dietrich è una sincerità ai limiti del masochismo, più prossima a quella del sonnambulismo dandy del Baudelaire dello spleen in Histoire d’une amitié del Vasto parla letteralmente de “l’immunità e l’innocenza del sonnambulo” – e, via Quincey, di certe pagine de I paradisi artificiali, nonché di Drieu, o alla scrittura visionaria del Dostoevskij recluso nelle Memorie della casa dei morti, ed è da annoverare tra i grandi saggi, pazzi e santi laici, spesso pure martiri, di cui scrivono sia Miller, con riferimento a L’idiota dostoevskijano, che del Vasto, e tra i grandi autori di una confessione.

Con semplicità di sguardo (certo non di meditazione), Dietrich dice l’intimità anche umiliante e la vera condizione umana, senza ideologia ma con religiose (Dio e la Grazia esistono), da uomo-bambino, da bambino-uomo, vittima di un mondo i cui ingranaggi (non di metallo ma umani) tendono allo stritolamento di quel debole che dice di essere, lui che passò due anni in un asilo per bambini anormali, dopo la morte del padre, cui seguirà quella della madre, per tetano, a Parigi…

*

È il 1931 e Luc si è già trasferito a sua volta a Parigi, dove, caduto da un ponte in un folle gesto d’amore, fa un incontro capitale per la sua vita. È il medico e scrittore Luc Durtain, che lo cura, lo sprona e gli fa anche pubblicare una plaquette di poesie, Huttes à la lisière [Capanne sui margini]. Il futuro scrittore vive però da vagabondo, solitario e in povertà finché non incontra Rose, l’Arlette de L’apprendistato della città, alla quale si lega. In una fase di agio economico ma anche di tentativi di rottura da quella vita falsa, l’incontro con del Vasto, la cui povertà è per lui una rivelazione.

Il filosofo gli farà da guida tanto a Parigi quanto in un viaggio in Toscana e nella scoperta dell’arte di Piero della Francesca e di Paolo Uccello. E dall’arte pittorica e architettonica approda alla fotografia, cui si appassiona, immortalando i monumenti italiani così come le sue amate piante. È dall’alto dei suoi due metri che si china per fotografare i vegetali, cogliendo nella loro capacità di sofferenza uno specchio del proprio vissuto. Ma a metà anni Trenta, tornati a Parigi, del Vasto è insegnante e poi precettore a Versailles, mentre Dietrich, in miseria, lavora come lavapiatti.

Rose, cui Luc resterà legato per tutta la vita per le sue elargizioni, gli propone del denaro, che riceve invece da Denoël per Le Bonheur des tristes. Andrà in Alsazia, Olanda e Inghilterra per dei reportage fotografici in cui accosta immagini e parole, come in Terre [Terra], sempre per Denoël. Ma ogni volta che l’amico, sorta di figura paterna, è in viaggio, in un caso per un intero anno in India, Luc si ritrova solo, depresso, in ospedale. Non lavora e medita il suicidio, e poi si mette a vagare per la Francia e a Marsiglia conosce la contessa Lily Pastré, una ricchissima mecenate.

Sarà più volte ospite nel suo palazzo, che, venendosi a trovare in “zona libera”, durante la Guerra darà rifugio a musicisti, intellettuali e artisti. Tra di essi, René Daumal, l’autore de La grande bevuta, che morirà nel maggio del 1944 e la cui ultima foto sarà uno scatto dello stesso Dietrich. In quegli anni tenta per la prima volta di stabilirsi in un posto e di disciplinarsi secondo gli insegnamenti di Georges Gurdjieff, e lavora a un libro. È tuttavia più volte ricoverato per la sua salute cagionevole, l’ultima per una ferita rimediata sotto il bombardamento di Saint-Lô, in Normandia.

È il giugno del 1944 e sta lavorando a un progetto dedicato a malati di mente: come ricorda Patrice Delbourg ne Les Désemparés, vero e proprio catalogo di scrittori sventurati, Dietrich, “gioca al dottore, vestito di un camice bianco, distribuendo parole di conforto ai feriti”, quando d’improvviso dal cielo piove una nuova ondata di obici che va a straziare il villaggio della Manica e la vita del poeta; il piede sinistro resta ferito e gli s’infetterà: la setticemia gli arriverà al cervello.

Marco Settimini

*”L’apprendistato della città” di Luc Dietrich è edito da La Finestra Editrice (2018), per la cura di Marco Settimini

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