04 Maggio 2019

Il cielo non basta mai se sei a Londra, ovvero: che Dio abbia sempre nelle sue grazie Elisabetta II (e pure il Royal Baby). Gita londinese con Alessandro Carli

La scusa (che non tiene): dopo aver seguito i festeggiamenti del matrimonio tra Harry e Meghan il 19 maggio 2018 dallo sgabello di un pub inglese in zona British Museum, perché non assistere anche alla nascita del loro royal baby? Del resto il detto “testimone de anèo, testimone del putèo” va rispettato a prescindere dalla Brexit, dalla stagione e dagli impegni: la Regina potrebbe aversene a male e vista l’età, potrebbe anche non riprendersi più.

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Le scuse non tengono mai alla lunga: meglio essere sinceri. Londra in primavera è un cuscinetto necessario, specie se ci vai per la prima volta non da solo ma (finalmente) in dolce compagnia. Laura ha sempre sognato l’Inghilterra ma non ci è mai stata. Più di un mazzo di fiori può la proposta di un fine settimana nella City che si sta risvegliando dall’inverno, con i colori dei parchi che diventano verdi e l’acqua dei laghi più azzurra.

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Alessandro Carli in versione londinese

Mentre l’Italia festeggia la liberazione (25 aprile) c’è chi sceglie, liberamente, di raggiungere la Capitale: volo Ryanair da Bologna su Luton (orari più comodi rispetto a Stansted) e poi autobus, come i ragazzini che vanno a fare una vacanza di studio per imparare la lingua. L’età non mi consente più – seppur provandoci, ovviamente, a ritoccare rughe e a provare e distendere la pelle – di passare per liceale o universitario in Erasmus (la scusa non terrebbe: chi farebbe mai l’Erasmus dopo essersi iscritto a “Lettere Moderne” a Urbino?) quindi cappello in testa e sciarpa, due trolley leggeri e uno più ampio e vuoto: a riempirlo ci pensiamo tra Regent Street, Bond Street, Oxford Street e Portobello Road… Le tentazioni non mancano. E se dovessero mancare, alla peggio si vanno a cercare.

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Londra a fine aprile è semplicemente meravigliosa: tutto sboccia perché la primavera è esattamente questa cosa qui, rinascita, nuovi colori, emozioni, passeggiate a St. James Park e a Kensington Gardens. Ma il cielo non basta mai se sei a Londra: serve anche un tetto (dove dormire) e uno più grande e colorato, quello di un teatro. Scelta quasi obbligata: “Her Majesty Theatre” lungo la strada che collega Piccadilly Circus a Trafalgar Square. “The phantom of the Opera”: una scelta a prova di esame di inglese. Anche se il tuo british language si limita a “Good morning”, “Thank you” e “Sorry”, il musical è comprensibilissimo.

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Londra ci accoglie a metà pomeriggio, più o meno all’ora in cui la Regina Elisabeth II prende il suo tè, alle 17. Più o meno quello che si legge nella didascalia che dà l’avvio a “La cantatrice calva” di Eugene Ionesco: “La pendola inglese batte diciassette colpi inglesi”, anche se l’orologio avverte che le cinque sono già passate. Colpa del fuso orario: quando qui, nella “Big smoke” sono le sei di pomeriggio, in Italia sono “solo” le cinque. Una scusa, che temo non reggerà. In realtà il tempo vola, specialmente se stai bene.

(Per correttezza e finta onestà intellettuale punti di contatto tra il capolavoro di Eugene Ionesco e la Royal family ovviamente non finiscono qui: la Signora Martin, per esempio, si chiama Elisabetta…).

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A Lond_on (che diventerà Lon_done a fine viaggio: la pronuncia è più o meno la medesima) la primavera è timida. La chiamano “spring”, parola onomatopeica che suggerirebbe “energia” e cose così, tipo sole e luce, e invece la primavera di aprile a Londra è umida, fresca se non fredda (e su questa differenza si potrebbero spendere milioni di parole: ad ogni modo è fresco e basta, il freddo sta un po’ più a Nord, nella Scozia bellissima e selvaggia, in quella Scozia che sa cambiarti i connotati e che ti trasforma, irrimediabilmente, in un’altra persona, in quella Scozia che ti sorprende anche ad agosto quando bussa alle tue guance e ti dice che potrebbe piovere alla maniera “Scots”, quindi “heavy rain”), da sciarpa e cerata insomma. Nessuno sconto e nessuna carezza: Londra è anche il suo meteo variabile, la sua pioggia inglese, l’abolizione degli ombrelli e le punte delle scarpe bagnate.

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Alessandro, Laura, Londra

Dio abbia sempre nelle sue grazie la Regina Elisabetta II e il suo consorte Filippo (per quel che conta).

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Il braccio di ferro tra la “conservatrice” Theresa May e l’Unione Europea non ha grande appeal tra i londiners e i turisti: l’urgenza più stretta è quella di fare shopping, visitare i musei e concedersi qualche attimo di relax su una panchina o sorseggiare una tazza di tè con al tavolino di un bar. Quello che avviene nelle stanze dei bottoni è qualcosa di abbottonato. Ed è “magnuga” per i giornali: i tabloid vivono di questo. Non come in Italia…

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Ti puoi anche camuffare da inglese, ma alla fine – per distrazione o per altro – l’italianità emerge in tutta la sua lenta anima innocente. Puoi parlare inglese, fare l’inglese, muoverti come un inglese, bere il tè come un inglese, andare a teatro come un inglese, correre al parco come fanno gli inglesi con i loro cani inglesi e finanche avere la pancia da birra inglese come gli inglesi ma se poi vai in giro con lo zaino dell’Invicta sulle spalle e l’immancabile bastoncino per fare i selfie, se superi le file ai musei, se strilli per strada, se. Se cerchi disperatamente un ristorante italiano perché “i canelloni e le tagliatelle e le pennette e il ragout alla bolognese, la pizza e la piadina, il Prosecco (che va alla grande perché è più alcolico delle birre inglesi e ci si ingatta prima”) e i maccheroni”.

Se.

Ecco, in questi casi chiunque capirà che sei italiano.

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“That’s all folks”

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Inizialmente non lo capisci subito ma poi se ci pensi ti meravigli, e molto. In Italia, chi e quando e se qualcuno lo dice, dopo aver detto “grazie” ti arriva un “prego”. A Londra il “prego” non è “prayer” come si potrebbe pensare bensì “You are welcome”, che letteralmente è una forma di benvenuto. Alla faccia di chi sostiene che gli inglesi siano stronzi…

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Venerdì 26 aprile a St. Martin in the Fields suonano “Le quattro stagioni” di Vivaldi. St. Martin è una chiesetta deliziosa, ci si siede sulle panche come nelle parrocchie cattoliche e si assiste all’esecuzione per archi di grandissime musiche italiane. Il pubblico è composto, attento. E i musicisti sono eccezionali. Dalla vetrata che funge da fondale al concerto si vede la luce del giorno che si fa piano piano più fioca sino a diventare notte. Si esce che il cielo è annottato ma con gli occhi pieni di luce. La città si illumina anche grazie alle persone che escono dai teatri o dalle sale dedicate alla musica.

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Le mascelle del Tower Bridge

Ovviamente del “Baby royal” si è persa traccia. Nei negozi di cose kitsch capeggiano le mug di Harry e Meghan a prezzi scontati, così come le cartoline del loro matrimonio: l’impressione è che i sudditi e i turisti preferiscano la Regina oppure William con consorte.

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Il volo per il rientro parte con 40 minuti di ritardo: 17.20 invece che le 16.40 previste. L’aereo recupera in aria parte del ritardo e tocca la pista del “Marconi” di Bologna alle 20.15. L’impatto con l’italianità è un secchio di acqua gelata: i tre agenti che devono controllare i passaporti e le carte di identità hanno tempi elefantiaci, nulla a che vedere che l’efficiente velocità di Londra, nulla a che vedere con la capacità di gestire i volumi di persone che hanno gli inglesi.

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Troppi turismi e troppi turisti davanti a Buckingham Palace. Meglio percorrere St. James Park e arrivare a Horse Guards Parade dove i cavalli si incontrano (e dove gli italiani sono pochi).

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Ci puoi passare davanti un milione di volte ma se lui non ha voglia di sorprendenti fai tempo a farti venire la barba bianca. E invece eccolo lì: cinque minuti prima – esattamente quando ci siamo passati sopra noi – tutto era normale. Poi, come uno sbadiglio, ecco che spalanca le sue fauci. Il Tower Bridge si apre, si alza, e aspetta il passaggio di una barca con un pennone altissimo. Nessun colpo di clacson tra le auto e i bus in fila, nessun schiamazzo o maledizione per l’imprevisto: semplicemente si attende, educatamente, che le due braccia del ponte si riuniscano come una preghiera. “Not a prayer”. Basta un “You are welcome”.

E il royal baby? Aspetta anche lui…

Alessandro Carli

Gruppo MAGOG